28. Sirene (P)
[15.07.2020 ~ capitolo revisionato ✔]
Corsi sul fianco della nave e la vidi: nuotava con tutte le forze verso l'isola, con le onde che la trascinavano verso gli scogli frastagliati. Gridai il suo nome ma, ammesso che mi sentisse, non servì a nulla. Annabeth era in trance, e nuotava dritta verso la morte.
Mi voltai verso il timone e urlai: «Mantenere la rotta!». Guardai Alex, che sembrava sul punto di svenire. Era spaventata a morte e aveva gli occhi pieni di lacrime. Mi indicò Annabeth e io annuii.
Mi tuffai. Fendetti l'acqua e ordinai alle correnti di plasmarsi attorno al mio corpo, creando un potente flusso che mi spingesse avanti. Tornai in superficie e vidi Annabeth, ma un'onda la investì, scaraventandola fra due scogli aguzzi.
Non avevo scelta. Mi tuffai all'inseguimento.
Mi immersi sotto lo scafo affondato di uno yacht, mi insinuai attraverso una serie di grosse palle di metallo incatenate che poi riconobbi come delle mine. Dovetti usare tutto il mio potere sull'acqua per non finire spiaccicato contro gli scogli o intrecciato nelle reti di filo spinato tese sotto la superficie.
Attraversai come un razzo i due scogli aguzzi e mi ritrovai in una baia a mezzaluna. L'acqua pullulava di altri scogli, relitti e mine. La spiaggia era di sabbia vulcanica nera. Cercai disperatamente Annabeth con lo sguardo. E la vidi. Per fortuna, o sfortuna, era una nuotatrice esperta. Era riuscita a oltrepassare le mine e gli scogli. Era quasi arrivata alla spiaggia nera.
Poi la nebbia si diradò e le vidi: le sirene.
Immaginate uno stormo di avvoltoi grandi quanto persone, con le piume nere e sporche, gli artigli grigi e i colli rosa e rugosi. Ora sopra questi colli immaginate delle teste umane, ma delle teste umane che cambiano in continuazione.
Non sentivo nulla, ma vedevo che stavano cantando. Mentre le bocche si muovevano, i volti si plasmavano in quelli di persone che conoscevo: la mamma, Poseidone, Grover, Tyson, Chirone. Tutte le persone che desideravo di più vedere. Mi sorridevano rassicuranti, invitandomi ad avanzare. Ma qualunque forma assumessero, le bocche restavano untuose e sudice dei residui di vecchi pasti.
Annabeth nuotava verso di loro. Sapevo che non dovevo permetterle di uscire dall'acqua. Il mare era il mio unico vantaggio. Mi aveva sempre protetto, in un modo o nell'altro. Mi slanciai in avanti e l'afferrai per la caviglia. Nell'istante in cui la toccai fui attraversato da una scossa e vidi le sirene come le vedeva lei.
Tre persone stavano sedute su una coperta da picnic a Central Park con un banchetto apparecchiato. Riconobbi il padre di Annabeth dalle foto che mi aveva mostrato, un tizio atletico con i capelli color sabbia, sulla quarantina. Si teneva per mano con una donna bellissima che somigliava un sacco ad Annabeth. La donna era vestita in modo sportivo -pantaloni e camicia di jeans con un paio di scarponcini– ma c'era qualcosa in lei che irradiava potere. Capii che stavo guardando la dea Atena. Accanto a lei sedeva un ragazzo più grande di me... Luke.
Tutta la scena era avvolta da una luce calda e burrosa. Tutti e tre parlavano e ridevano, e quando videro Annabeth le loro facce si illuminarono di gioia. Il padre e la madre allargarono le braccia in un gesto invitante. Luke sorrise e le fece cenno di andare a sedersi accanto a lui... come se non l'avesse mai tradita, come se fosse ancora suo amico.
Dietro gli alberi di Central Park si stagliò il profilo di una città. Rimasi senza fiato, perché era Manhattan, ma non proprio Manhattan. Era stata interamente ricostruita in abbagliante marmo bianco ed era più grande e maestosa che mai, con le finestre dorate e i giardini pensili. Era meglio di New York. Meglio dell'Olimpo.
Capii subito che era stata Annabeth a progettarla. Era l'architetto di un intero mondo nuovo. Aveva riunito i suoi genitori. Aveva salvato Luke. Aveva realizzato ogni suo desiderio.
Strizzai forte gli occhi. Quando li riaprii vidi soltanto le sirene: pulciosi avvoltoi dalle facce umane, pronti a cibarsi di un'altra vittima. Riportai in mare Annabeth con uno strattone. Non riuscivo a sentirla, ma capivo che stava gridando. Mi diede un calcio in faccia, ma io non mollai. Ordinai alle correnti di trasportarci lontano dalla baia. Annabeth mi riempiva di calci e pugni, faticavo a concentrarmi. Si divincolava così tanto che per poco non ci scontrammo con una mina.
Non sapevo cosa fare. Non sarei mai tornato vivo alla nave se lei continuava a combattere.
Ci immergemmo sott'acqua e Annabeth smise di agitarsi. Sembrò confusa. Poi tornammo con la testa in superficie e lei ricominciò a lottare.
L'acqua!
Il suono non viaggiava sott'acqua. Se riuscivo a tenerla sommersa abbastanza a lungo potevo spezzare l'incantesimo della musica. Naturalmente lei non era in grado di respirare sott'acqua, ma sul momento mi sembrò un problema secondario. L'afferrai per la vita e ordinai alle onde di spingerci giù.
Precipitammo verso il basso –trenta metri, sessanta metri. Sapevo che dovevo stare attento, perché io riuscivo a sopportare molta più pressione di Annabeth. Lei lottava e si divincolava cercando di riprendere fiato, suscitando una marea di bolle.
Bolle... ero disperato. Dovevo assolutamente tenerla in vita. Non potevo fare questo ad Alex. Non potevo permettere che le portassero via anche Annabeth.
Immaginai tutte le bolle del mare –di un mare alto, in subbuglio. Immaginai che si unissero e che mi venissero incontro.
Il mare obbedì. Ci fu una sorta di turbine bianco e mi sentii formicolare ovunque. Quando tornai a vederci meglio, io e Annabeth eravamo circondati da un'enorme bolla d'aria, con le sole gambe nell'acqua.
Lei prese una grossa boccata d'aria e tossì. Fu scossa da un brivido per tutto il corpo, e quando mi guardò capii che l'incantesimo era stato spezzato. Scoppiò a piangere –cioè, a piangere proprio a dirotto, con dei singhiozzi disperati. Mi appoggiò la testa sulla spalla e io l'abbracciai.
I pesci si riunirono a guardarci, un banco di barracuda, qualche merluzzo curioso. "Smammate!" gli ordinai. Si dispersero subito, ma intuii che lo fecero a malincuore. E giuro che capii cos'avevano in mente. Stavano per mettere in giro la voce, per tutto il mare, che il figlio di Poseidone se la faceva con una ragazza sul fondo della baia delle sirene. «Ora ti riporto sulla nave» le dissi «va tutto bene. Tu reggiti forte»
Annabeth annuì per farmi sapere che adesso stava meglio, poi mormorò qualcosa che non riuscii a sentire per via della cera che avevo nelle orecchie. Ordinai alla corrente di guidare il nostro bizzarro sottomarino d'aria attraverso gli scogli e il filo spinato, fino allo scafo della Vendetta della Regina Anna, che stava mantenendo una rotta lenta e costante al largo dell'isola.
Restammo sott'acqua, al seguito della nave, finché non decisi che eravamo fuori dalla portata d'orecchio delle sirene. Poi emersi in superficie e la nostra bolla scoppiò. Ordinai a una scaletta di corda di calarsi sul fianco della nave e la risalimmo. Per sicurezza continuai a tenere i tappi.
Alex afferrò Annabeth nell'ultimo tratto di scaletta e, con una forza sovraumana, la trascinò a bordo. Entrambe le ragazze crollarono sul legno del pavimento. Alex piangeva così forte che mi parve di sentirla, tenendo stretta Annabeth, che si aggrappò a lei come se ne andasse della sua vita, piangendo a sua volta.
Recuperai una coperta e mi avvicinai, porgendola ad Annabeth. Alex la lasciò andare, ma balzò in piedi, mi gettò le braccia al collo e mi abbracciò. Rimasi interdetto per un secondo, ma poi le circondai la vita e la strinsi. Mi accorsi che stava tremando come una foglia; doveva essersi proprio spaventata a morte.
Inspirai il suo profumo, permettendo a me stesso di calmarmi. Alex mi strinse appena; sentii il suo fiato solleticarmi il collo appena prima che mi lasciasse andare. D'istinto allungai una mano e le asciugai le lacrime con i pollici. Lei arrossì appena, e mi rivolse un cenno e un piccolo sorriso.
Navigammo finché l'isola non uscì completamente dalla visuale. Annabeth si era avvolta in una coperta e si era seduta sul ponte di prua. Avevo spedito Alex a stendersi un po', perchè mi sembrava ancora sul punto di svenire. Aveva protestato, credo -non ero sicuro per via dei tappi- ma alla fine ci era andata.
Annabeth, ad un certo punto, alzò lo sguardo, triste e stordita, e sillabò: "Via libera".
Mi tolsi i tappi. Non c'erano canti nell'aria. L'unico rumore che interrompeva la quiete del pomeriggio era il frangersi delle onde sullo scafo. La nebbia si era dissolta in un cielo azzurro, come se l'isola delle sirene non fosse mai esistita. «Stai bene?» chiesi. Ma non appena lo dissi mi accorsi di quanto fosse stupida la domanda. Certo che non stava bene.
«Non me ne rendevo conto» mormorò lei.
«Di cosa?»
I suoi occhi erano dello stesso colore della nebbia che avvolgeva l'isola delle sirene. «Di quanto sarebbe stata forte la tentazione»
Non mi andava di confessare che avevo visto quello che le sirene le avevano promesso. Mi sentivo un impiccione. Ma decisi che glielo dovevo. «Ho visto come avevi ricostruito Manhattan» le dissi «e Luke e i tuoi genitori»
Lei arrossì. «L'hai visto?»
«Quello che Luke ti ha detto sulla Principessa Andromeda... l'idea di ricostruire il mondo da capo... ti ha intrigato parecchio, eh?»
Lei si strinse nella coperta. «Il mio difetto fatale. Ecco cosa mi hanno mostrato le sirene. Il mio difetto fatale è la hybris»
Strizzai gli occhi. «Quella robaccia beige che si mette sui panini vegetariani?»
Lei alzò gli occhi al cielo. «No, Testa d'Alghe. Quello è lo hummus. La hybris è peggio»
«Cosa c'è di peggio dello hummus?»
«Hybris significa tracotanza, superbia fatale, Percy. Pensare di riuscire a fare le cose meglio di chiunque altro... perfino degli dei»
«E tu ti senti così?»
Lei abbassò lo sguardo. «Non ti senti mai come... ecco... come se il mondo fosse davvero un gran caos? E se potessimo davvero ricominciare tutto da capo? Niente guerre. Niente povertà. Niente compiti delle vacanze»
«Ti ascolto»
«Cioè... l'Occidente rappresenta un sacco delle cose migliori che l'umanità abbia mai fatto... ecco perché il fuoco brucia ancora. Ecco perché l'Olimpo è ancora in circolazione. Ma a volte vedi soltanto le cose negative, sai? E cominci a pensare come Luke: "Se potessi radere al suolo tutto questo, io saprei rifarlo meglio". Non ti senti mai così? Convinto che tu te la caveresti molto meglio se avessi la possibilità di governare il mondo?»
«Ehm... no. Io che governo il mondo? Per me sarebbe un incubo»
«Allora sei fortunato. La hybris non è il tuo difetto fatale»
«E allora qual è?»
«Non lo so, Percy, ma tutti gli eroi ne hanno uno. Se non lo scopri e non impari a controllarlo... be', non lo chiamano "fatale" per niente»
Ci riflettei, e la cosa non mi risollevò affatto il morale. Notai anche che Annabeth non mi aveva raccontato molto delle cose personali che lei avrebbe cambiato, tipo rimettere insieme i suoi genitori, o salvare Luke. La capivo. Nemmeno io avevo voglia di ammettere quante volte avessi sognato di rimettere insieme i miei genitori. Immaginai mia madre, tutta sola nel nostro appartamento sull'Upper East Side. Cercai di ricordare il profumo delle sue cialde azzurre in cucina. Sembrava così lontana. «Qual è quello di Alex?» chiesi, curioso.
Annabeth strinse le labbra. «Non ne sono sicura» ammise «sono indecisa tra orgoglio, irascibilità e impulsività»
Ci pensai su. «In effetti le ha tutte e tre» convenni. Mi ripromisi di chiederlo direttamente a lei. Magari lo sapeva. «Comunque... ne è valsa la pena? Ti senti più saggia?»
Lei guardò lontano. «Non ne sono sicura. Ma dobbiamo salvare il Campo. Se non fermiamo Luke...»
Non c'era bisogno che finisse la frase. Se il pensiero di Luke riusciva a tentare perfino Annabeth, chissà quanti altri mezzosangue potevano unirsi a lui. Mi chiesi se in fondo anche Alex fosse tentata, nonostante tutto. Il pensiero che potesse abbandonarci e passare dalla sua parte mi fece un po' male.
Ripensai al mio sogno della ragazza e del sarcofago d'oro. Non sapevo cosa significasse di preciso, ma avevo la sensazione che mi sfuggisse qualcosa. Qualcosa di terribile che Crono stava tramando. Che cos'aveva visto la ragazza quando aveva aperto il coperchio della bara?
A un tratto Annabeth spalancò gli occhi. «Percy» mi chiamò, indicando qualcosa alle mie spalle.
Mi voltai. «Vai a svegliare Alex» le dissi.
In lontananza, di fronte a noi, c'era un altro tratto di terra (un'isola a forma di sella, con le colline fitte di foreste, le spiagge bianche e i prati verdi) proprio come nei miei sogni. I miei sensi nautici lo confermarono. 30 gradi e 31 secondi di latitudine nord, 75 gradi e 12 secondi di longitudine ovest.
Eravamo arrivati al covo del ciclope.
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