22. Dubbi (P)
[13.07.2020 ~ capitolo revisionato ✔]
Alex scese nel ponte di coperta circa un quarto d'ora più tardi. «Ehi, che succede?» le chiesi.
Lei non mi rispose. In realtà nemmeno mi guardò. Si rannicchiò sull'unica amaca libera, dandomi la schiena. Aggrottai le sopracciglia, guardando Annabeth, che la fissava un po' confusa.
Che cavolo le prendeva? In effetti era da quando eravamo al rifugio che era un po' strana, ma credevo fosse solo stanca. Poi l'idra le aveva sbrindellato lo zaino e aveva provato a mangiarsela, quindi non doveva essere di buon umore. Avevo notato anche che si era imbronciata un po' quando Tyson aveva voluto che Annabeth la prendesse per mano, ma non ne capivo il motivo: Annabeth sembrava finalmente ben disposta nei confronti del nostro amico. Non era quello che voleva?
Ma io che avevo fatto? Sembrava proprio avercela con me. «Alex?» provai a chiamarla «E' successo qualcosa?»
«No» rispose gelida.
Mentiva. Lo sapevo. Ormai la conoscevo abbastanza da capirlo. Sospirai. «Alex...»
«Ho sonno, Percy»
Annabeth scosse impercettibilmente la testa, come a dirmi di lasciarla stare. Sospirai di nuovo e mi stesi, chiudendo gli occhi.
Grover era seduto al suo telaio e disfaceva disperatamente il suo strascico da sposa, quando il masso della porta rotolò di lato e il ciclope mugghiò: «A-ha!»
Grover strillò. «Caro! Io non... sei stato così silenzioso!»
«Disfacevi lo strascico!» ruggì Polifemo «Allora è questo il problema!»
«Oh, no. Io... io non...»
«Vieni!»
Polifemo lo afferrò per la vita, e un po' tirandolo e un po' portandolo di peso lo condusse attraverso i tunnel della caverna. Grover faticava a tenersi le scarpe col tacco attaccate agli zoccoli. Il velo continuava a pendere di lato, minacciando di staccarsi.
Il ciclope lo trascinò in una caverna grande quanto un deposito, tutta arredata con della paccottiglia ispirata alle pecore. C'erano una poltrona reclinabile e un televisore rivestiti di lana di pecora, e dei rozzi scaffali pieni di articoli da collezione: tazze a forma di muso di pecora, pecore di gesso, giochi da tavolo con le pecore, albi illustrati e pupazzetti snodabili. Il pavimento era cosparso di mucchi di ossa di pecora e di altre ossa che sembravano di genere ben diverso: erano quelle dei satiri giunti sull'isola alla ricerca di Pan.
Polifemo posò Grover a terra solo il tempo necessario per spostare un altro masso. La luce del giorno si riversò dentro e Grover mugolò di nostalgia. Lo trascinò fuori, e si fermò in cima a una collina affacciata sull'isola più bella che avessi mai visto.
Aveva più o meno la forma di una sella, tagliata a metà da un'ascia. Lussureggianti colline verdi si stagliavano su entrambi i lati, mentre al centro c'era un'ampia valle solcata da una profonda voragine che un ponte di liane consentiva di attraversare. Splendidi ruscelli scorrevano fino al bordo del canyon e si tuffavano nel vuoto, in cascate dei colori dell'arcobaleno. Pappagalli svolazzavano fra gli alberi. Fiori rosa e violetti spuntavano sui cespugli. Centinaia di pecore pascolavano nei prati, la lana che scintillava stranamente come monete di rame e argento. E al centro dell'isola, proprio accanto al ponte di liane, c'era un'enorme quercia ritorta con qualcosa che luccicava sul ramo più basso.
Il Vello d'Oro.
Persino in sogno avvertivo il potere che sprigionava sull'isola, rendendo l'erba più verde e i fiori più belli. Riuscivo quasi a percepire l'odore della magia della natura all'opera. Chissà che profumo potente doveva essere per un satiro...
Grover piagnucolò. «Sì» disse Polifemo orgoglioso «vedi laggiù? Il Vello è la perla della mia collezione! L'ho rubato agli eroi tanto tempo fa e da allora... cibo gratis! I satiri vengono qui da ogni parte del mondo, come falene attratte dalla luce di una torcia. I satiri sono buoni, gnam gnam! E ora...». Polifemo prese un paio di micidiali forbici di bronzo. Grover trasalì, ma il ciclope raccolse la pecora più vicina come fosse un peluche e la tosò. Quindi consegnò al mio amico una soffice massa di lana. «Mettici questa sul telaio!» disse orgoglioso «È magica! Non si può disfare»
«Oh... be'...»
«Povero tesoruccio!». Polifemo sogghignò. «Filo cattivo! Ah-ah! Non ti preoccupare. Questo risolverà il problema. Finisci lo strascico entro domani!»
«Ma come sei... premuroso!»
«Eh-eh»
«Ma... ma caro». Grover deglutì. «E se qualcuno provasse a salvare... cioè, ad attaccare l'isola?». Mi guardò dritto in faccia, e capii che lo stava chiedendo per me. «Cosa gli impedirebbe di salire quassù, fino alla tua caverna?»
«La mia mogliettina ha paura! Che carina! Non ti preoccupare. Prima devono passare sulle mie bestiole»
«Bestiole?». Grover perlustrò l'isola con lo sguardo, ma c'erano soltanto le pecore che pascolavano placidamente nei prati.
«E poi» ringhiò Polifemo «dovrebbero passare su di me!». Picchiò il pugno sulla roccia più vicina, che si incrinò e si spezzò in due. «Ora, vieni! Torniamo dentro»
Grover sembrava sul punto di piangere –così vicino alla libertà, ma così disperatamente lontano. Gli occhi gli si riempirono di lacrime quando il masso si richiuse, sigillandolo di nuovo nella penombra fetida dell'antro del ciclope.
Mi svegliai al suono delle campane d'allarme che squillavano per tutta la nave. La voce roca del capitano esclamò: «Tutti sul ponte! Trovate Lady Clarisse! Dove si è cacciata quella ragazza?». Poi la sua faccia spettrale comparve sopra di me. «In piedi, yankee. I tuoi amici sono già di sopra. Siamo vicini all'ingresso»
«All'ingresso di che?»
Mi fece un sorriso scheletrico. «Del Mare dei Mostri, naturalmente»
Infilai tutti i miei pochi averi in uno zaino di tela e me lo gettai in spalla. Avevo lo strisciante sospetto che in un modo o nell'altro non avrei trascorso un'altra notte a bordo della CSS Birmingham.
Stavo salendo le scale quando qualcosa mi bloccò. Sentivo una presenza nelle vicinanze, qualcosa di familiare e sgradevole. Per nessuna ragione in particolare avevo voglia di attaccare briga con qualcuno. Volevo dare un pugno a un sudista zombie. L'ultima volta che avevo provato quel genere di rabbia...
Invece di salire mi avvicinai furtivamente al bordo della grata di ventilazione e sbirciai giù, nella sala macchine. Clarisse era proprio sotto di me e parlava a un'immagine che tremolava nel vapore delle caldaie: un omaccione vestito di pelle nera come un motociclista, con i capelli a spazzola, gli occhiali da sole rossi e un coltello legato sulla coscia. Serrai i pugni. Ares. «Non voglio sentire scuse, ragazzina!» ringhiò.
«S-sì, padre» borbottò Clarisse.
«Non vuoi vedermi arrabbiato, vero?»
«No, padre»
«No, padre» la scimmiottò lui «sei patetica. Avrei dovuto fare in modo che questa impresa andasse a uno dei miei figli maschi»
«Ce la farò!» promise Clarisse con la voce tremante «Vi renderò orgoglioso di me»
«Sarà meglio per te» la ammonì lui «mi hai chiesto tu quest'Impresa, ragazzina. Non voglio assolutamente che ti porti Alexandra. Dille di no. Rovinerebbe tutto. E se permetterai a quel verme schifoso di Jackson di rubarti l'Impresa...»
«Ma l'Oracolo ha detto-»
«NON MI INTERESSA QUELLO CHE HA DETTO!» tuonò Ares con tanta forza che la sua immagine tremolò «Tu ce la farai. In caso contrario...». Alzò il pugno. Anche se era solo una figura di vapore, Clarisse trasalì. «Ci siamo capiti?»
Le campane d'allarme suonarono di nuovo. Udii avvicinarsi delle voci -ufficiali che gridavano l'ordine di preparare i cannoni. Mi allontanai in silenzio dalla grata e raggiunsi Annabeth, Alex e Tyson in controcoperta. «Cosa c'è che non va?» mi chiese Annabeth «Un altro sogno?»
Feci cenno di sì, ma non dissi nulla. Non sapevo cosa pensare di quello che avevo appena visto. Mi turbava quasi quanto il sogno di Grover. Cosa intendeva dire Ares con ''non puoi portare Alexandra, dille di no''? Era di quello che aveva parlato con Clarisse? Voleva mollarci?
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