2. La Meriwether
[07.06.2020 ~ capitolo revisionato ✔]
La Meriwether è una scuola "progressista" al centro di Manhattan. Inizialmente non avevo idea di cosa potesse significare, ma poi Percy aveva cercato di spiegarmelo: in soldoni, quella non era una scuola normale. Ci sediamo su delle poltroncine a sacco invece che ai banchi, non ci davano i voti e i professori venivano al lavoro con i jeans e le magliette dei concerti rock.
Insomma, la mia prima esperienza "normale" non era "normale". Mah. Comunque, visti i disturbi di cui io e Percy eravamo affetti, forse era meglio che fosse così.
La nostra prima ora, quell'ultimo giorno, era inglese. Tutta la scuola aveva letto un libro che si intitolava "Il signore delle mosche", in cui dei ragazzini naufragavano su un'isola deserta e davano di matto.
L'avevo letto? Ah, neanche per sogno. Ero meno abituata di Percy a leggere roba non in greco antico, quindi la mia dislessia era un po' peggio della sua. Sally mi aveva spronata ad esercitarmi, e l'avevo ascoltata, davvero, solo che... be', in quella gabbia di matti che era la Meriwether a nessuno fregava che avessi effettivamente letto il dannato libro. Perchè sbattersi, allora?
Comunque, per l'esame finale, gli insegnanti ci spedirono in cortile a trascorrere un'ora senza la supervisione degli adulti per vedere cosa succedeva e se avevamo compreso il libro.
Quello che successe fu una spettacolare gara a chi tirava su più mutande tra quelli di seconda e di terza, due sassaiole e una partita di pallacanestro in stile rugby. Il bullo della scuola, Matt Sloan, dirigeva la maggior parte delle attività. Non era né grosso né forte, però si comportava come se lo fosse. Aveva gli occhi come quelli di un pitbull, i capelli flosci e neri e si vestiva sempre con della roba costosa ma sciatta, come se volesse dimostrare che se ne fregava dei soldi di famiglia. Aveva uno dei denti davanti scheggiato dalla volta in cui era andato a farsi un giro con la Porsche del paparino ed era finito contro un segnale di ATTENZIONE: BAMBINI. Mi ricordava spaventosamente Clarisse, il che da solo non mi aiutava a trovarlo simpatico. Avevo voglia di dargli una lezione da una vita, ma Percy me lo impediva ogni dannata volta, sostenendo che dovevamo tenere un profilo basso.
Sloan era andato avanti a tirare giù mutande a tutti per un bel po', almeno finché non fece l'errore di provarci con Tyson.
Tyson era l'unico senzatetto della Meriwether. Stando a quello che eravamo riusciti a capire, i genitori lo avevano abbandonato quando era molto piccolo, probabilmente perché era così... ehm, diverso. Era alto due metri e grosso come l'Abominevole Uomo delle Nevi, ma piangeva un sacco e praticamente aveva paura di tutto, incluso il suo riflesso. Aveva la faccia un po' deforme, dall'aria brutale. Un altro fatto strano era che, per qualche ragione, non riuscivamo a guardarlo più in su dei denti storti. Aveva una voce profonda ma parlava in modo buffo, come un bambino molto più piccolo, forse perché non era mai andato a scuola prima di venire alla Meriwether. Portava dei jeans strappati, sudice scarpe da ginnastica numero cinquanta e una camicia di flanella a quadri bucata. Puzzava come un vicolo di New York, perché era là che abitava, nello scatolone di un congelatore dalle parti della Settantaduesima.
La Meriwether l'aveva adottato come progetto di educazione civica, in modo che tutti gli studenti potessero sentirsi buoni. Purtroppo, la maggior parte di loro non lo sopportava. Una volta scoperto che era un bonaccione, nonostante la forza enorme e l'aspetto spaventoso, avevano iniziato a prenderlo brutalmente in giro. In pratica i suoi unici amici eravamo io e Percy, e questo significava che il nostro unico amico era lui. Avevo sempre pensato che avesse qualcosa di strano -no, non strano in senso "normale", anche se lo era. Strano in senso... be', "mitologico". Non riuscivo ad inquadrarlo per bene. Puzzava, sì, ma non come un mostro, più come... non lo so, una creatura marina? Era molto strano, ma non aveva mai dato segno di volerci ammazzare. Quindi stavo tranquilla, pensando che probabilmente mi sbagliavo e basta.
Sally si era lamentata con la scuola un milione di volte dicendo che non facevano abbastanza per aiutarlo. Aveva chiamato i servizi sociali, ma non succedeva mai nulla. Gli assistenti sociali dichiaravano che Tyson non esisteva. Giuravano e spergiuravano di essere andati nel vicolo che gli avevamo descritto e di non essere riusciti a trovarlo. Ma come si faceva a non accorgersi di un ragazzino gigante che viveva dentro lo scatolone di un congelatore? Mah.
Comunque, Matt Sloan gli si avvicinò di soppiatto alle spalle e cercò di tirargli giù le mutande. Tyson entrò nel panico. Scacciò Sloan con una manata decisamente un po' troppo forte: Sloan fece un volo di cinque metri e finì incastrato nel copertone dell'altalena. Io e Percy lo fissammo a bocca aperta. «Per tutte le folgori...» borbottai allibita.
«Sgorbio!» strillò Sloan «Tornatene nella tua scatola!»
Tyson cominciò a singhiozzare. Crollò a sedere sulla sbarra di uno dei giochi dei piccoli, coprendosi la faccia con le mani, e il metallo si piegò sotto il suo peso. «Ritira quello che hai detto, Sloan!» gridò Percy.
Lui si limitò a sogghignare. «Perché te la prendi tanto, Jackson? Tu e tua cugina potreste avere degli amici se non vi metteste sempre a difendere quello sgorbio!»
«Già, e tu potresti essere un po' meno idiota se avessi un cervello» mi lasciai scappare, digrignando i denti.
«Ah! La muta allora sa parlare!» esclamò uno degli imbecilli, un tizio alto quanto una zampa di Grover e brutto come il suo posteriore «Notevole, per una stupida come lo sgorbio!»
Mi chiamavano "la muta" perchè, anche se provocata, mi costringevo a non rispondere mai. Se l'avessi fatto avrebbero pianto per una settimana intera -sempre che non decidessi di cavargli gli occhi con dei cucchiaini da caffè. Dei, non immaginate quanta fatica facevo.
Dopo mesi di vessazioni, però, ero quasi arrivata al limite. Strinsi i pugni e feci per andare lì a pestarli uno per uno, ma Percy mi afferrò il polso e mi trattenne al suo fianco. «Lascia perdere quell'idiota» mi disse.
Notai che osservava attentamente il gruppo, e mi chiesi perché. Guardandoli capii: in effetti sembrava che la sua piccola banda di incapaci avesse acquistato qualche membro in più. Sei, almeno, e grandi e grossi almeno tre volte me. Ero piuttosto sicura di non averli mai visti prima. «Ci vediamo a ginnastica, Jackson» gridò Sloan «sei morto»
«Dovresti lasciare che lo frigga per bene» brontolai mentre si allontanava, dando qualche colpetto sulla spalla di Tyson per cercare di confortarlo. Non aveva ancora smesso di piangere.
«No. E poi hai visto quanti erano?» rispose lui, scuotendo la testa.
«Ma per favore!» esclamai, alzando gli occhi al cielo «Mi basterebbe soffiare per far saltare via la testa a Sloan, Percy, e lo sai!»
Alla fine dell'ora, il professore di inglese uscì a ispezionare la carneficina. Dichiarò che avevamo capito Il Signore delle Mosche alla perfezione. Avevamo tutti passato il suo corso e da grandi non avremmo mai e poi mai dovuto diventare delle persone violente. Sloan annuì con la faccia seria e poi rivolse a Percy un ghigno malevolo.
Dovemmo promettere a Tyson di comprargli un panino al burro di arachidi in più a pranzo per farlo smettere di singhiozzare. «Tyson è... è uno sgorbio?» chiese.
«No» giurò Percy a denti stretti.
«È Matt Sloan lo sgorbio» aggiunsi io «non tu, ragazzone»
Lui tirò su col naso. «Siete buoni amici. Mi mancherete il prossimo anno se... se non potrò...». Gli tremò la voce. Non sapevamo se l'avessero invitato a tornare anche per l'anno successivo. Chissà se il preside si era almeno preso la briga di parlargliene. A dire il vero non sapevo nemmeno se fossi tornata io. «Non ti preoccupare, campione» disse Percy «andrà tutto bene»
L'esame successivo era scienze. La professoressa Telsa ci disse che dovevamo mescolare sostanze chimiche finché non riuscivamo a fare esplodere qualcosa. Tyson era il compagno di laboratorio di Percy, mentre la mia era una ragazza di nome Melanie. Aveva grossi occhiali spessi in equilibrio precario sulla punta del naso, piccoli occhi azzurri e una montagna dei capelli castani più crespi che avessi mai visto in vita mia -l'incubo di ogni figlia di Afrodite, in pratica. Aveva cercato di rivolgermi la parola una volta sola, ma le avevo risposto così male che... be', credo che avesse un po' paura di me. Cosa voleva? Che le presentassi Percy, perchè apparentemente era troppo timida per farlo da sola e aveva una cotta per lui.
Tutti in quella scuola credevano che fossi la cugina di Percy, perché Sally per potermi iscrivere si era spacciata per mia zia. A pensarci bene non è che la cosa fosse poi così lontana dalla realtà, visto che Zeus e Poseidone erano effettivamente fratelli, ma le parentele "divine" non funzionavano come le parentele "mortali" -insomma, pensate ad Ares e Afrodite, o Afrodite ed Efesto... stesso padre, tutti e tre. Comunque, le avevo risposto poco garbatamente di stargli alla larga. La motivazione ufficiale che avevo dato a Percy era tenerla al sicuro, vista la nostra natura e i pericoli a cui eravamo sottoposti. In fondo, ma davvero in fondo, sospettavo di sapere la vera motivazione -che comunque non avrei mai e poi mai ammesso apertamente, nemmeno a me stessa.
Tyson aveva le mani decisamente troppo grandi per le minuscole fialette che dovevamo maneggiare. Fece cadere per sbaglio un vassoio di sostanze chimiche dal bancone, causando una specie di nube atomica arancione nel cestino dei rifiuti. Dopo aver evacuato il laboratorio e chiamato la squadra di rimozione dei rifiuti tossici pericolosi, la professoressa Telsa si complimentò con lui e Percy, affermando che avevano un talento naturale per la chimica. Erano stati i primi a prendere il massimo dei voti al suo esame in meno di trenta secondi.
A scienze sociali, mentre disegnavamo latitudini e longitudini su una mappa, Percy aprì il quaderno e guardò la foto che c'era dentro: Annabeth in vacanza a Washington. Indossava un giubbetto di jeans sopra la maglietta arancione del Campo Mezzosangue; i capelli biondi erano tirati indietro con una bandana. Stava davanti al Lincoln Memorial con le braccia incrociate e aveva un'aria estremamente soddisfatta, come se l'avesse progettato lei.
Annabeth mi mancava molto, e mi sentivo un po' in colpa per come ci eravamo lasciate al campo alla fine dell'estate. Lei, comunque, non aveva dato segni di essersela presa: mandava continuamente foto tramite posta elettronica. Percy stava per chiudere il quaderno quando Sloan allungò la mano e strappò la foto dagli anelli. «Ehi!»
Sloan scrutò la foto e sgranò gli occhi. «Impossibile, Jackson. Questa chi è? Non può essere la tua-»
«Ridammela!» esclamò Percy. Aveva le orecchie in fiamme.
Sloan passò la foto a quei bambocci dei suoi amici, che sogghignarono e cominciarono a strapparla per farci dei proiettili da sputo. Erano dei ragazzi nuovi, probabilmente in visita, perché indossavano tutti delle stupide targhette della segreteria con su scritto "CIAO! MI CHIAMO...". Dovevano avere un senso dell'umorismo discutibile, perché le avevano compilate con dei nomi strani, tipo: SUCCHIAMIDOLLO, MANGIATESCHI, SPARAPROIETTILI e ZOTICO JOE. Nessun essere umano si chiamava così. «Questi ragazzi si trasferiscono qui il prossimo anno» si vantò Sloan, come se la cosa dovesse spaventare Percy «scommetto che loro possono pagarsi la retta, a differenza del tuo amico ritardato»
«Lui non è ritardato» ringhiò Percy, iniziando ad agitarsi. Anche lui stava pericolosamente raggiungendo il limite. L'acqua nella bottiglietta che avevo sul banco iniziò a tremare. Senz'altro era opera sua. Allungai una mano e strinsi quella di Percy sotto il banco. Mi guardò confuso, e gli feci cenno verso la bottiglia. L'acqua, un secondo dopo, smise di agitarsi.
«Sei un perdente, Jackson. Meno male che la prossima ora porrò fine alle tue sofferenze» disse Sloan.
Poi suonò la campanella. Mentre uscivamo, Percy si bloccò all'improvviso. Guardò verso gli armadietti, confuso. «Che c'è?» gli chiesi.
«Mi pare di aver sentito...» iniziò lui, ma la folla in uscita dalla classe ci trascinò verso la palestra e lui non finì mai la frase.
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