15. Pesci Pony (P)

[12.07.2020 ~ capitolo revisionato ✔]

«Non può dire sul serio!» esclamò Alex non appena Ermes sparì «ci ha davvero chiesto di salvare Luke?»

«Immagino di sì» borbottai.

«Dici che "senza la testa" vale come "salvato"?»

«Che succede?» chiese Annabeth, che ci raggiunse proprio in quel momento «Vi ho sentiti chiamare aiuto!»

«Anch'io!» disse Tyson «Alex strillava: "dei cosi brutti attaccano"!»

«Non vi abbiamo chiamati noi, ragazzi» risposi «nessuno ha attaccato. Stiamo bene»

«Ma allora chi...». Annabeth notò le tre sacche da viaggio gialle, poi il thermos e la bottiglietta di vitamine. «Cosa...»

«Statemi a sentire» dissi «non abbiamo molto tempo...»

Gli raccontai la nostra conversazione con Ermes. Quando ebbi finito sentivo già dei versi striduli in lontananza: le arpie di pattuglia avevano captato il nostro odore. «Dobbiamo compiere l'Impresa» fece Annabeth.

«Ci faremo espellere, lo sai. Fidati di me, di espulsioni me ne intendo»

«E quindi?» disse Alex, inarcando entrambe le sopracciglia «Se falliamo non ci sarà nessun Campo a cui tornare»

«Sì, ma Annabeth ha promesso a Chirone-»

«Ho promesso di tenervi lontano dal pericolo. E posso farlo solo venendo con voi. Tyson può restare qui e dire che-»

«Tyson vuole venire» protestò lui, nello stesso momento in cui Alex diceva: «Viene anche lui».

«No!». La voce di Annabeth era prossima al panico. «Cioè... Percy, per favore. Lo sai che è impossibile»

«Sei tu che sei impossibile!» sbottò Alex «Io Tyson non lo lascio qui da solo! Non m'importa di cosa dite! Se non viene lui, non vengo nemmeno io!»

Sospirai, mettendo da parte le domande riguardo l'odio di Annabeth per i ciclopi.

Il fatto era che una parte di me non voleva portarsi dietro Tyson. Avevo passato gli ultimi tre giorni appiccicato a lui, preso in giro dagli altri ragazzi del Campo e messo in imbarazzo un milione di volte, senza potermi mai dimenticare che eravamo parenti. Avevo bisogno di spazio. E poi, non sapevo quanto ci potesse essere di aiuto, né come avrei fatto a proteggerlo. Certo, era forte, ma Tyson era un bambino in termini ciclopici, con un cervello di sette anni circa. Me lo immaginavo già a dare di matto e a mettersi a piangere mentre cercavamo di sfuggire a un mostro o roba del genere. Ci avrebbe fatti ammazzare. 

D'altro canto lasciare indietro Alex era una pessima, pessima idea. Non c'era nessuno di cui mi fidassi più di lei per guardarmi le spalle. Era una guerriera formidabile; anche Annabeth non era male, ma non era affatto al suo livello. E poi, una piccola parte del mio cervello stava già impanicando al pensiero di partire senza di lei e lasciarla lì da sola. «Non possiamo lasciarlo» decisi «Tantalo punirebbe lui e Alex per la nostra fuga»

Alex sorrise soddisfatta, arpionandosi al braccio di Tyson. «Percy» insistette Annabeth, cercando di mantenere la calma «stiamo andando sull'isola di Polifemo! Polifemo è un clip... un clop...» pestò i piedi per la frustrazione. Con tutto il cervello che aveva, anche Annabeth era dislessica. Saremmo potuti stare lì tutta la notte ad aspettare che pronunciasse la parola "ciclope". «Insomma, hai capito!»

«Tyson può venire...» insistetti «se vuole»

Tyson battè le mani. «Vuole!»

Annabeth mi scoccò un'occhiataccia, ma aveva capito che non avrei cambiato idea. O forse si era resa semplicemente conto che non c'era il tempo di discutere. «E va bene» si arrese «come arriviamo a quella nave?»

«Ermes ha detto che ci avrebbe aiutato mio padre»

«E allora cosa stiamo aspettando, Testa d'Alghe?»

«Io posso volare» disse Alex «e posso portare Annabeth con me, volendo»

«No» dissi categorico «tuo padre ti ha detto che devi restare qui. E' capacissimo di colpirti con un fulmine divino se provi a volare e disobbedirgli. L'ha già fatto una volta»

«Ma-»

«Taci» le intimai «devo concentrarmi»

Alex si imbronciò visibilmente, ma mi lasciò fare.

Per me era sempre stata una faticaccia invocare mio padre –invocare, pregare, chiamatelo come volete– ma entrai in acqua. «Ehm... papà?» cominciai «Come va?»

«Percy!» bisbigliò Annabeth «Abbiamo fretta!»

«Ci serve il tuo aiuto» dissi un po' più forte «dobbiamo raggiungere quella nave prima di farci sbranare e via dicendo, perciò...»

All'inizio non successe nulla. Le onde si infrangevano sulla spiaggia come al solito. Le arpie ormai sembravano proprio dietro le dune di sabbia. Poi, a un centinaio di metri di distanza, quattro linee bianche comparvero sulla superficie del mare. Avanzavano veloci verso la spiaggia, come artigli che squarciavano l'oceano.

Quando furono più vicine la risacca si aprì e le teste di quattro stalloni bianchi si impennarono fuori dall'acqua. Tyson trattenne il fiato. «Pesci pony!» esclamò, facendo ridere Alex. 

Aveva ragione. Mentre le creature si accostavano alla sabbia, vidi che erano dei cavalli solo nella parte superiore; le metà inferiori erano di grandi pesci argentati, con le scaglie scintillanti e le pinne caudali dei colori dell'arcobaleno. «Ippocampi!» esclamò Alex «Sono bellissimi». Quello più vicino nitrì, apprezzando il complimento, e sfiorò Alex con il muso, che lo accarezzò con dolcezza. 

«Li ammireremo dopo» incalzai «Andiamo!»

«Eccoli!» stridette una voce alle nostre spalle «Bambini cattivi fuori dalle case! Ottimi spuntini per arpie fortunate». Erano in cinque e svolazzavano in cima alle dune: basse megere grassocce con la faccia tirata, munite di artigli e di ali piumate troppo piccole per la loro stazza. Mi ricordavano un incrocio fra un dodo e un'inserviente della mensa in miniatura. Non erano molto veloci, grazie agli dei, ma se ti beccavano erano micidiali. 

«Tyson!» ordinai «Prendi una sacca!». Stava ancora fissando gli ippocampi con la bocca spalancata. «Tyson!»

«Eh?»

«Muoviti!»

Con l'aiuto di Alex riuscii a farlo sbrigare. Raccogliemmo i bagagli e salimmo in groppa agli ippocampi. Poseidone doveva sapere che Tyson era con noi, perché un ippocampo era molto più grande degli altri tre, perfetto per il trasporto di un ciclope. «Al galoppo!» incitai. 

Il mio ippocampo si voltò e si tuffò fra le onde. Quelli di Alex, Annabeth e Tyson ci seguirono a poca distanza. Le arpie imprecarono e gridarono ai loro spuntini di tornare indietro, ma gli ippocampi sfrecciavano in acqua veloci come acquascooter.

Le arpie svanirono in lontananza e ben presto la spiaggia del Campo Mezzosangue non fu nient'altro che un'ombra scura. Mi chiesi se l'avrei mai rivista, ma in quel momento avevo altri problemi. La nave da crociera adesso incombeva davanti a noi: era il nostro passaggio per la Florida e il Mare dei Mostri.

Cavalcare un ippocampo era perfino più facile che cavalcare un pegaso. Sfrecciammo con il vento in faccia, filando talmente lisci sulle onde che non ebbi quasi bisogno di reggermi. 

Quando arrivammo più vicini alla nave mi resi conto di quanto fosse enorme. Mi sembrava quasi di guardare uno dei palazzi di Manhattan. Lo scafo bianco era alto almeno dieci piani ed era sormontato da un'altra dozzina di ponti, con i balconi e gli oblò illuminati. Il nome della nave era dipinto a lettere nere sotto la linea della prua, illuminato da un faretto. Ci misi qualche secondo a decifrarlo.

PRINCIPESSA ANDROMEDA

Attaccata alla prua c'era un'enorme polena (una figura femminile alta tre piani) vestita con un chitone greco e scolpita come se fosse incatenata alla nave. Era giovane e bella, con i capelli neri lunghi e sciolti, ma sul suo viso era dipinta un'espressione di assoluto terrore. Come si fa a scegliere una principessa urlante per abbellire la prua di una nave da crociera? Ricordavo il mito di Andromeda e di come i genitori l'avessero incatenata a uno scoglio per sacrificarla a un mostro marino. Forse aveva preso troppe insufficienze o roba del genere. Comunque, il mio omonimo Perseo l'aveva salvata appena in tempo e aveva trasformato il mostro in pietra usando la testa di Medusa. 

Quel Perseo lì vinceva sempre. Ecco perché mamma mi aveva dato il suo nome, anche se lui era figlio di Zeus come Alex e non di Poseidone come me. Il Perseo originale era uno dei pochissimi eroi dei miti greci ad avere un lieto fine. Gli altri erano tutti morti... dopo essere stati traditi, sbranati, mutilati, avvelenati o maledetti dagli dei. Mamma sperava che avessi ereditato la sua fortuna. A giudicare da come mi era andata fino a quel momento, non ero molto ottimista.

«Come saliamo a bordo?» gridò Annabeth per farsi sentire al di sopra del rumore delle onde.

Gli ippocampi, però, sembravano sapere di cosa avevamo bisogno. Sfilarono lungo il fianco destro della nave, attraversando facilmente la sua grossa scia, e si accostarono a una scaletta di servizio fissata allo scafo. «Prima tu» dissi ad Annabeth. Lei si gettò la sacca da viaggio sulle spalle e afferrò il primo piolo. Quando si fu sollevata sulla scaletta, il suo ippocampo nitrì un saluto e si tuffò sott'acqua. 

Annabeth cominciò ad arrampicarsi. Lasciai che salisse qualche piolo, poi mandai Alex -che però non si aggrappò alla scaletta. Fluttuò nell'aria. «Guardo se la via è libera» mi disse, iniziando a salire e oltrepassando la nostra amica. Strinsi la mascella, ingoiando tutti gli insulti che avrei voluto rivolgerle. Le avevo detto di non volare.

Salii sulla scaletta. Alla fine in acqua era rimasto solo Tyson. Il suo ippocampo gli stava regalando una serie di salti mortali e capriole all'indietro, e Tyson si divertiva tanto che la sua risata riecheggiava fin sul fianco della nave. «Tyson, shhht!» lo rimproverai «Muoviti, amico!»

«Non possiamo portare Arcobaleno?» chiese, mentre il suo sorriso svaniva.

Lo fissai. «Arcobaleno?». L'ippocampo nitrì come se il suo nuovo nome gli piacesse. «Ehm... dobbiamo andare» dissi «Arcobaleno... be', lui non può salire le scalette»

Tyson tirò su col naso e seppellì la faccia nella criniera dell'ippocampo. «Mi mancherai, Arcobaleno!»

L'ippocampo rispose con un nitrito lamentoso, e avrei giurato che stesse piangendo. «Forse lo rivedremo» suggerii.

«Oh, sì, per favore!» esclamò Tyson, rimettendosi subito dritto «Domani!»

Non gli promisi nulla, ma alla fine lo convinsi a salutare il suo amico e ad afferrare la scaletta. Con un ultimo nitrito triste l'ippocampo Arcobaleno fece una capriola all'indietro e si tuffò in mare.

La scaletta conduceva a un ponte di servizio pieno di scialuppe di salvataggio gialle. C'era anche una zona chiusa a chiave che Annabeth riuscì a forzare con il suo coltello e una buona dose di imprecazioni in greco antico. Immaginavo di dover sgattaiolare in giro come un ladro, dato che eravamo clandestini, ma dopo aver controllato un po' di corridoi e aver sbirciato da un balcone un grande viale costeggiato di negozi chiusi, cominciai a capire che non c'era nessuno da cui nascondersi. Insomma, va bene che era il cuore della notte, ma avevamo attraversato metà della nave senza incontrare anima viva. Passammo davanti a una cinquantina di cabine e non udimmo neanche un suono provenire dall'interno. «È una nave fantasma» mormorai.

«No» obiettò Tyson, giocherellando con la bretella della sua sacca da viaggio «puzza»

Annabeth si accigliò. «Io non sento nulla»

«I ciclopi sono come i satiri» spiegai «riescono a sentire l'odore dei mostri. Non è vero, Tyson?»

Lui annuì, nervoso. Ora che eravamo lontani dal Campo Mezzosangue, la Foschia aveva alterato di nuovo il suo viso. A meno che non mi concentrassi a lungo sembrava avere due occhi anziché uno solo. «Okay» disse Annabeth «allora, che odore senti di preciso?»

«Di qualcosa di brutto» rispose Tyson.

«Fantastico» brontolò lei «ora sì che è chiaro»

«Dacci un taglio» le intimò Alex brusca « e comunque sento qualcosa anche io. Non ho idea di cosa sia, ma sono abbastanza sicura che su questa lattina galleggiante ci siano dei mostri»

Già, dimenticavo troppo spesso che Alex aveva un fiuto più sviluppato del normale. «State all'erta» dissi.

Uscimmo sul ponte dove c'era la piscina. C'erano file di sedie a sdraio vuote e un bar chiuso con una tenda a catenelle. L'acqua della vasca mandava un bagliore inquietante, fluttuando avanti e indietro con il movimento della nave. Sopra di noi, da prua a poppa, c'erano altri livelli: un muro da arrampicata, un minigolf, un ristorante con bancone girevole, ma nessun segno di vita. Eppure percepivo qualcosa di familiare. Qualcosa di pericoloso. Avevo la sensazione che se non fossi stato così stanco e svuotato di adrenalina dopo quella lunga notte, avrei saputo riconoscerlo. «Ci serve un nascondiglio» proposi «un posto sicuro per dormire»

«Dormire» concordò Annabeth, sfinita. Esplorammo qualche altro corridoio finché non trovammo una suite vuota sul ponte nove. La porta era aperta e la cosa mi colpì: era strano. C'era un cestino di dolcetti al cioccolato sul tavolo, una bottiglia di sidro frizzante in fresco sul comodino e una mentina sul cuscino, con un biglietto scritto a mano che diceva: "Buona crociera!".

Aprimmo le sacche da viaggio per la prima volta e scoprimmo che Ermes aveva davvero pensato a tutto: vestiti di ricambio, beauty case, razioni da campo, una bustina di plastica chiusa piena di contanti e perfino un sacchetto di dracme d'oro. Era riuscito a infilarci l'incerata di Tyson con i suoi attrezzi e i suoi pezzi di metallo e il berretto dell'invisibilità di Annabeth, cosa che li rincuorò parecchio. «Io e Alex saremo nella stanza accanto» disse Annabeth «voi ragazzi non bevete né mangiate nulla»

«Pensi che questo posto sia stregato?»

«C'è sicuramente qualcosa che non torna» disse Alex.

Chiudemmo la porta a chiave. Tyson crollò sul divano. Armeggiò per qualche minuto con il suo progetto –che si rifiutava ancora di mostrarmi– ma ben presto cominciò a sbadigliare. Riavvolse l'incerata e si addormentò. Io mi misi a letto e guardai fuori dall'oblò.

Mi sembrò di sentire delle voci in corridoio, come dei bisbigli. Sapevo che era impossibile: avevamo attraversato tutta la nave e non avevamo visto nessuno, ma le voci mi tennero sveglio. Mi ricordavano la mia gita negli Inferi, il rumore degli spiriti dei morti quando ti passavano accanto. Alla fine però la stanchezza ebbe la meglio.

Mi addormentai... e feci il sogno peggiore di tutti. 

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