CAPITOLO VII - the right hand of God-

«Asso di spade vince, le altre due perdono. Fate la vostra puntata.» Velocemente abili mani mischiavano, su un piccolo tavolo di legno, in una dimenticata strada di periferia, tre carte, mentre tutt'intorno un'esigua ma accanita folla si era radunata per vedere, divertita, un uomo che stava per essere ridotto in mutande.

«Cinquanta bigliettoni su questa.» Disse quest'ultimo, il cui tono di voce alterato rivelava che aveva già perduto ben più di cinquanta dollari.

Lentamente, quelle stesse mani, le scoprirono.

«Cristo!» Esclamò vedendo altri soldi che se ne andavano via dal suo portafogli.

«Ah!Ah! T'ha fregato ancora, non ce la puoi fare.» Disse un corpulento spettatore che stava masticando voracemente un hot dog.

«Sono spiacente signore, non è l'asso di spade, ha perso.» In realtà Tom, vivace settantenne di colore originario di New Orleans, residente nella City da una vita, metà della quale passata tra stenti e fame, non era dispiaciuto per niente. Con quel denaro ci avrebbe fatto ben più della sola giornata, forse tutta la settimana. Sorrise il vecchio Tom, mostrando la sua dentatura perfetta, quasi marmorea, interrotta qua e là da qualche dente d'oro. Ma l'uomo, si sa, è recidivo per natura, e non faceva eccezione neppure quello che stava scommettendo da tutta la mattinata di quel 12 di luglio, il quale non ci stava proprio ad andarsene via senza aver recuperato i suoi soldi, o almeno una parte di essi.

«Voglio giocare ancora.»

«Ma certo, Signore.» Rispose il vecchio riprendendo le tre carte. Fu allora che accadde una cosa che si verificava ormai da circa due mesi ma che in quel momento non sarebbe dovuta succedere: la mano destra cominciò a tremargli, il maledetto Parkinson si stava facendo sentire.

«Fine delle puntate per oggi ragazzi, it's too late, è mezzogiorno ed io devo andare a mangiare.» Mentre si apprestava a chiudere il tavolo cercando di nascondere il suo tremolio, il recidivo sbatté violentemente un pugno sul banco e disse:

«Eh no! Almeno un'ultima giocata me la devi concedere. Pranzerai più tardi, non preoccuparti.» E così dicendo tirò fuori l'ultima banconota da 100.

«Maledizione.» Pensò Tom. In condizioni normali sfilare a quel tizio quell'altra succulenta banconota sarebbe stato un gioco da ragazzi per lui, ma con la mano destra che gli tremava in quel modo non aveva alcuna possibilità. «Fermati! Fermati dannazione!» diceva tra sè e sè, ma la sua migliore amica ed alleata sembrava proprio che non ne volesse sapere. 200 dollari era tutto quello che era riuscito a guadagnare quel giorno, cosa poteva inventarsi per non farseli portare via?

«Allora?!» Fece spazientito l'uomo.

«D'accordo!» Rispose rassegnato il vecchio asciugandosi la fronte madida di sudore. «Ma che sia l'ultima.»

D'un tratto un ragazzo bianco sulla trentina si fece largo tra la folla.

«Permesso, permesso, scusate. Devo dare il cambio a mio nonno, permesso.» E sgomitando arrivò davanti a Tom. Il vecchio non l'aveva notato fino a quel momento in mezzo al piccolo mucchio di gente, forse era arrivato da poco, ma chi era? Sicuramente non suo nipote.

«Ah! Nonno! Scusa per il ritardo la mamma ha detto...» e avvicinandosi all'orecchio di Tom, in modo che nessun altro potesse sentire a parte lui, gli bisbigliò velocemente: «Non ti preoccupare, ho visto tutto, anche la tua mano, lascialo a me questo coglione, ci penso io a spennarlo.»

Tom fu preso un po' alla sprovvista, tentennò per qualche istante poi fece l'unica cosa che poteva fare: fidarsi di lui e stare al gioco.

«Ah nipote caro! È questo che dice la mamma eh?! Che irriconoscente! Sangue del mio sangue, carne della mia carne...»

«No, un attimo.» Fece l'uomo, rivolgendosi al nuovo mazziere. «Mi stai dicendo che questo è tuo nonno?!»

«Sì, perché?» Rispose il ragazzo iniziando a mischiare le carte come solo un giocatore professionista sa fare, il che rassicurò un po' il vecchio.

«Tu sei bianco... e lui è nero.»

«Sono stato adottato. Vuoi sapere altro della mia vita personale? Ehi! Non sarai mica un fottuto razzista eh?! No perché altrimenti mi rifiuto di farti giocare, te ne puoi anche andare a fare in culo da dove sei venuto.»

«No, no. Me ne frego del colore della pelle, voglio solo fare questa maledetta, ultima, puntata.»

«Va bene! Allora: asso di spade vince, le altre due perdono. Ripeto asso di spade vince. Guardate, signori, guardate.» E fulmineamente posizionò le tre carte coperte sul tavolo. «Dov'è l'asso di spade?»

«Qui.» Disse lo scommettitore indicando la prima sulla destra.

Tom già rideva ancor prima che il ragazzo la girasse perché sapeva che non era quella: era riuscito a fregarlo.

«Ops! Non è l'asso! Ha perso.» E la mostrò al pubblico.

L'uomo sbatté i soldi in faccia al ragazzo, diede un calcio al tavolo ribaltandolo e se ne andò. La piccola folla che si era creata, dopo un paio di minuti di sonore risate e applausi, si disperse.

«Che imbecille!» Esclamò il ragazzo mentre raccoglieva le banconote da terra per porgerle poi al vecchio. Questi ne prese una dal mucchietto da cinquanta e gli disse:

«Tieni, questa è per te. Te la sei meritata.»

«No, non posso accettare, veramente... grazie.»

«Se non fosse stato per te avrei perso tutto. Tieni, insisto, se rifiuti mi offendi.»

Il ragazzo prese i 50 dollari e, sorridendo, disse:

«Che culo! Ora mi mancano solo 499.950 dollari per estinguere il mio debito!»

«Caspita! Una somma modesta. Debito di gioco?» Chiese Tom mentre richiudeva il tavolo.

Il ragazzo annuì.

«E ce l'hai una cifra del genere?»

«Ho questi.» Disse lui sventolando i soldi appena ricevuti.

«Ragazzo, scusa se te lo dico... sei un po' nella merda.»

«Vecchio, non sono un po' nella merda... ci sto affogando. Come va la mano?»

«Sembra che per ora questa canaglia si sia calmata.» Rispose aprendo e poi richiudendo, a fatica, le dita.

«Da quant'è che stai così?»

«Da un paio di mesi... il brutto è che i medici dicono che sia destinato a peggiorare.»

«Non dovresti giocare in queste condizioni, rischi di perdere tutto come ti stava accadendo poco fa.»

«Lo so ragazzo, ma il gioco d'azzardo è l'unico spiraglio di aria che mi è rimasto in questo buco stretto chiamato vita.»

«Ti capisco vecchio.» Poi, guardando all'orizzonte, vide il tizio che aveva scommesso fino a qualche minuto fa che si stava dirigendo a passo svelto verso di loro, guardandosi nervosamente intorno, nero in volto.

«E adesso cosa vuole di nuovo questo rompicoglioni?» Sussurrò il ragazzo al suo nonno fasullo e , continuando: «Senti amico per oggi abbiamo finito. Puoi tornare domani se vuoi.»

L'uomo, una volta arrivato vicino ai due, estrasse un coltello a scatto.

«Ridatemi i miei soldi. So che avete barato. Ridatemeli o vi buco da parte a parte.»

«Ma che barato e barato, brutto stronzo.» Fece il ragazzo, non pensando all'arma puntata contro. «Hai perso regolarmente. Poi te ne eri andato via tranquillo, no?! Perché sei tornato indietro? Che fai, ci ripensi come i cornuti? Più dei soldi io se fossi in te mi preoccuperei per la tua donna, sai? Magari adesso sta scopando con qualcun altro.»

Queste parole non migliorarono la situazione, anzi la peggiorarono drasticamente. Quella che lui difatti chiamava la sua donna non lo era affatto, con 1000 dollari chiunque poteva averla, una puttana d'alto bordo insomma, ma lui ne era innamorato. Era un piccolo spacciatore e i 400 dollari che aveva perduto al gioco facevano parte del gruzzoletto che ogni anno metteva da parte per concedersi una sola notte con lei, 365 giorni di risparmio per 2 ore di sesso che lui erroneamente mischiava con un po' d'amore. Doveva riaverli, inutile provare con le buone, con le cattive sarebbe stato molto più facile e veloce. Urlò:

«Non parlare così di lei, hai capito!» E avvicinò la lama a pochi millimetri dalla gola del ragazzo.

Tom diede un colpetto con il gomito a suo nipote e gli disse:

«Facciamo quel che dice, guardalo in faccia: è fuori di sè... inutile parlarci. La vita vale molto di più di qualsiasi cifra.»

«Bravo vecchio.» Disse l'uomo che allontanò il coltello e porse il palmo della mano in avanti:

«Su forza, sto aspettando.»

Ma quello che ricevette non furono i suoi soldi, bensì un pesante colpo dietro le spalle, dato tra capo e collo. Cadde a terra non riuscendo a guardare in volto chi glielo aveva inferto, svenendo nel giro di pochi secondi, ma quel tempo gli bastò per udire un:

«Tutto bene gente?»

Un "tutto bene" che non avrebbe dimenticato al suo risveglio.

Un secondo salvatore aveva soccorso il vecchio Tom, anche questo mai visto prima. Sui 27 anni d'età, capelli castani, occhi idem, 1.73 metri, con un bastone tra le mani.

Buttò il legno e rivolgendosi ai due:

«Ehi! Dico a voi! Tutto ok?»

«Cavolo che mazzata che gli hai dato, mi hai ricordato il grande Joe DiMaggio quando faceva un home run!» Disse Tom e chinandosi toccò con l'indice e il medio il collo dell'assalitore, poi rivolgendosi al nuovo arrivato disse: «È ancora vivo non preoccuparti. Grazie mille, sembra che oggi io sia benedetto dal Signore.»

«O dalla Dea Fortuna!» Disse il finto nipote. «Comunque grazie anche da parte mia. Non penso avrebbe avuto mai le palle per utilizzare quel coltello, ma nel dubbio è stato meglio non rischiare.»

«Ho sentito che vi stava minacciando, che vi voleva rapinare. Era troppo concentrato su voi due, così ne ho potuto approfittare. Chiamiamo la polizia?»

«Ma stai scherzando?» Rispose Tom «Così mi levano il denaro e magari mi sbattono dentro per gioco d'azzardo. No, no, lascia stare. Anzi, accertiamoci che nessuno abbia visto la scena.»

I tre diedero una rapida occhiata intorno... due, tre persone nel raggio di parecchi metri e ognuna di queste camminava per la sua strada come se nulla fosse accaduto, molto probabilmente nessuno aveva visto e, se anche lo avesse fatto, aveva deciso che quelli non erano affari dei quali impicciarsi.

«Bene, sembra tutto a posto. Comunque non ci siamo ancora presentati: Bill Will, molto piacere.» Disse quest'ultimo porgendo la mano verso il giocatore più giovane.

«Il piacere è tutto mio. Marc Evans: l'uomo con una settimana di vita.» Si presentò l'altro ridendo.

«Non hai l'aria del malato terminale...» disse Bill.

Come no! Invece ho una malattia gravissima chiamata the Boss. L'unica cura è una montagna di soldi che, purtoppo, non ho.»

«Accidenti! Proprio col boss dei boss dovevi indebitarti?» Chiese Tom, che conosceva il criminale per la sua pessima fama.

«E chi sarebbe costui?» Fece il nuovo arrivato.

«Se non conosci the Boss probabilmente non solo non sei della City, ma neanche di questo stato.» Intervenne Marc.

«Infatti non lo sono. Sto qui per una persona, motivi personali...» lasciò in sospeso.

«Meglio non conoscerlo, fidati!» Disse Marc «Un mafioso. Il peggiore. E tu vecchio? Ho sentito qualcuno del pubblico che ti chiamava Tom, è questo il tuo nome?»

«Sì. Molto piacere ragazzi: Tom Young, ma tutti mi conoscono come GodHand.»

Evans strabuzzò gli occhi e disse, quasi balbettando:

«N-Non sarai mica quel Godhand?!»

Il vecchio Tom inspirò, si impettì e, stirando il suo gilet marrone cacarella con ambedue le mani, fiero che qualcuno, dopo tanti anni, lo avesse riconosciuto, disse:

«Ebbene sì, ragazzo!»

Marc si gettò a terra, inginocchiandosi in segno di adorazione e rivolgendosi a Bill tirandolo per la camicia:

«Su, forza, anche tu!»

«Ma dai, non esagerare. E chi sarebbe?»

«Tu non sai chi hai di fronte. Stai parlando con una leggenda del poker. Godhand il campione, è da ragazzino che sentivo parlare di te, ho sempre voluto conoscerti. E' vero! Tom Young, era quello il tuo vero nome.»

Il vecchio, ridendo, prese per le spalle Marc e, tirandolo su, gli disse:

«Dai, non sono mica un dio.»

«Per me sì! Lo sei sempre stato.» E alzandosi «Ti posso chiedere un paio di cose?»

Intanto, nel frattempo, Bill prese il cellulare e fece una telefonata, che però non andò a buon fine:

«Ancora spento, cazzo!» Pensò rabbiosamente a voce alta.

Tom gli lanciò uno sguardo interrogativo

«Tutto bene?»

«Non vi preoccupate per me» disse Bill «sono un po' nervoso, tutto qua.»

«Dimmi figliolo, se posso ti risponderò volentieri.» Fece il vecchio rivolgendosi a Marc.

«La prima domanda è sul tuo stile di gioco. Ho visto alcune vecchie registrazioni di tue partite, e in diverse mani, ho notato che, anche se avevi delle buone carte, non andavi, e quando ciò avveniva era matematico che tra i giocatori del tavolo c'era qualcuno con un punto maggiore del tuo... come se sapessi in anticipo le carte dei tuoi avversari. Come facevi?»

«E la seconda cosa?»

«Eri all'apice, avevi accumulato una montagna di soldi, poi... sparito da un giorno all'altro senza lasciare tracce. Alcune leggende narrano che ti ritirasti a vita privata e che ti sposasti abbandonando tutto. C'è chi dice che lasciasti gli States per questo... ma cosa ti successe in realtà?»

Sentendo quelle ultime parole il volto di Tom ci mise un istante per passare dal gioviale al cupo. Marc, accorgendosi di ciò, disse:

«Se non ti va di rispondere, essendo cose tue personali, non preoccuparti. Anzi scusa se te le ho chieste.»

«No, figliolo, non preoccuparti. Ma cerchiamo un posto dove metterci seduti, sono un po' stanco.»

«Questo lo porto io, Tom.» Disse Bill prendendo il tavolo sottobraccio.

«Ti ringrazio ragazzo, più in là c'è un parco con delle comode panchine, che ne dite?»

I tre raggiunsero una zona verde situata nel bel mezzo del caos della città. Al suo interno delle persone anziane guardavano i propri nipoti che giocavano a calcetto su di un piccolo campo sterrato privo di porte, sotto il sole cocente. Quando sarebbero diventati anziani quei bambini avrebbero, a loro volta, portato lì i loro nipoti a giocare. Tom si sedette su di una panchina situata all'ombra di una grande quercia e fece cenno agli altri due di fare lo stesso. Bill non raccolse l'invito e rimase in piedi, trepidante, posando il tavolo accanto al vecchio. Quest'ultimo si toccò la barba bianca e cominciò a raccontare:

«Ho quasi 72 anni, la vita mi ha dato tutto e mi ha tolto tutto. Quello che sentirete, da adesso in poi, che vogliate crederci o no, è la pura verità.» Inspirò profondamente, come un nuotatore che si prepara ad entrare in apnea, dopodiché rilasciò l'aria e con essa le parole. «Io sono originario di New Orleans, i miei mi misero al mondo quando quella guerra bastarda stava per finire. Crebbi con tutto l'amore che degli ottimi genitori possono dare al proprio figlio. Quando compii 8 anni mio padre mi regalò un pallone da football, mia madre un libro, "Moby Dick", e il buon Dio mi donò il potere

«Ovvero?» Interruppe Bill non riuscendo a nascondere un'occhiata di mal oculato scetticismo.

«Ovvero...» riprese un po' scocciato Tom «la capacità di poter vedere il futuro di una persona, attraverso il tocco della mia mano destra. Non so perché questo avvenne, e perché a quell'età. Col tempo capii che molte cose nella vita non devi chiederti "perché" succedono, accadono e basta, punto.» E guardando i due, prima che potessero proferire parola, li anticipò dicendo: «Se voi pensate che questo sia cool, come dite voi giovani, vi sbagliate di grosso. All'inizio pensavo anch'io che fosse una gran cosa: vedendo in anticipo le domande che mi avrebbe fatto la maestra studiavo poche righe anziché paragrafi interi, sapere cosa sarebbe piaciuto ad una ragazza e cosa no mi permetteva di far breccia direttamente nel suo cuore e nelle sue mutande. A poker, conoscendo mano per mano i punti dei miei avversari, potevo vincere ogni partita.» Si fermò per pochi secondi, il tempo di vedere lo sguardo sbigottito di Marc.

Poi riprese:

«Ma non è cool affatto sapere prima di tutti che tuo padre avrebbe contratto un male incurabile e che sarebbe morto nel giro di pochi mesi, che la scuola che frequentavi sarebbe crollata, seppellendo sotto le sue macerie i tuoi amici, che la donna che amavi in realtà non amava te ma i tuoi soldi, e che ti avrebbe sposato solo per quello, trascinandoti qui nella City, e riducendoti sul lastrico...» Posò la mano sul piccolo tavolo di gioco e, accarezzandolo come fosse un cane fedele, disse: «Vedere queste cose era, per me, come viverle due volte.» gli occhi gli si fecero lucidi, la voce tremolante, ma si trattenne. Emise un paio di finti colpi di tosse per riprendersi, e continuò: «Quando, da bambino, provavo ad avvertire qualcuno sul non fare una cosa o sul non andare in un determinato posto, puntualmente non venivo mai ascoltato. Non è che la gente pensava che io fossi pazzo, la fervida immaginazione di un ragazzino è sempre giustificata agli occhi di un adulto, ma, inconsciamente, nessuno ammetterebbe mai che il mio, il tuo, il suo futuro, come quello di tutti, potrebbe essere scritto da qualche parte.»

«Potrebbe?» Domandò Bill.

«Sì, potrebbe.» Rimarcò Godhand. «Se mio padre avesse fatto un check-up all'ospedale prima che le sue condizioni si fossero aggravate, se i miei amici non fossero andati a scuola quel giorno... se la gente mi avesse creduto, avrebbe avuto l'opportunità di cambiare il proprio destino.»

«E questa lei che ti ha tolto tutto?» Chiese Marc.

«Lei la conobbi al primo World Series of Poker, che si tenne nel casinò Riverside a Reno, nel Nevada, nel lontano 1968.» Inspirò nostalgicamente, fece una pausa che sembrò durare anni, tutti quelli in cui aveva sofferto, poi riprese «Dovevi essere cieco per non notarla: non una donna, ma una dea. Fortuna, era questo il suo nome... la mia Dea. Me la ritrovai all'ultimo tavolo in finale, le lasciai vincere tutto, iniziammo a conoscerci, e io cominciai ad amarla. Lei mi convinse a seguirla nella sua City dove ci sposammo un anno dopo. Nel '70 chiese il divorzio: lo ottenne e io le lasciai di nuovo tutto, compreso il mio cuore.» Una lieve brezza rinfrescante accarezzò, per qualche minuto, i tre. Poi il vecchio Tom si alzò in piedi sgranchendosi la schiena e disse: «Questa è la mia storia, senza fronzoli, senza ricami...non sono mai stato bravo a raccontare qualcosa.»

«É ancora qui nella City?» Chiese Bill.

«Sì.»

«E non l'hai più vista?»

«No.»

Da 39 anni Tom sapeva dove abitava la persona che amava, e da 39 anni non la vedeva.

«E questo potere lo hai ancora?» Domandò Marc.

«Sì, ma ora è differente. Prima le cose mi apparivano con una nitidezza unica, era come guardare le figure di un libro illustrato, ora invece ciò che vedo è sfocato, difficile da interpretare...sarà la vecchiaia.» Disse ridendo. «E ora, se permettete, vediamo se questo povero anziano può sdebitarsi un'ultima volta con voi due per ciò che avete fatto.» E si avvicinò a Marc toccandogli la spalla con la mano destra, quella stessa che fino a mezz'ora fa tremava come una foglia, e che ora era ferma e immobile su di lui.

«Guarda, non devi Godhand, non preocc..»

«Zitto!» Fece Tom portandosi l'indice alla bocca, poi chiuse gli occhi.

Pochi secondi dopo li riaprì:

«Non puoi andare via... tuo fratello è nei guai, ha bisogno di te.»

Marc scattò in piedi «Che cosa hai visto?»

«Le immagini, come ti dicevo pocanzi, non sono più così chiare, ma ti sentivo piangere, ti disperavi per non essere riuscito a riappacificarti con lui, dicevi che oramai era troppo tardi, ti maledicevi per essere scappato via dalla City... per averlo lasciato morire.»

A quelle parole un brivido, veloce come un fulmine, gli percorse tutta la schiena e il ragazzo iniziò a sudare freddo nonostante i 39 gradi all'ombra.

«Qual era il suo nome?» Chiese a Tom.

«Steve.»

Marc si sedette di peso sulla panchina. Matt... tra migliaia di nomi quello era proprio il cazzo di nome di suo fratello, quante possibiltà aveva il vecchio di indovinare? Poche, pochissime, forse nessuna.

«E ora tu...» disse avvicinandosi all'altro che, titubante, fece un paio di passi all'indietro per allontanarsi dalla mano di Tom, «... Bill.» Ma fu quel modo di pronunciare il suo nome, così familiare, con la stessa cadenza e dolcezza con il quale veniva pronunciato dalla madre o dal padre, che lo fece fermare. Lo aveva appena conosciuto, quel vecchio biscazziere di colore, eppure, in quel momento, i 28 minuti che aveva passato con lui, sentendolo e chiacchierandoci, gli parvero allungarsi. E così il tempo si dilatò nel tempo e i 28 minuti divennero 28 anni, ma per un istante, un attimo, e in quell'attimo Bill si lasciò toccare dalla sua mano.

Tom guardò il ragazzo con fare serio e quando parlò il suo fu più un ordine che un consiglio.

«Devi tornare nella tua piccola cittadina, ragazzo. Qua puoi andare solo incontro a guai più grandi di te.»

Bill non riusciva ancora a credere a ciò che Tom gli aveva raccontato. Il potere, e tutte quelle baggianate sul futuro, per il ragazzo suonavano più come la favoletta della buonanotte da raccontare ai bambini, che una storia vera.

«Quella ragazza, Ilary, ti trascinerà in un sacco di guai.» Disse Tom appoggiandosi alla quercia.

Di Ilary non ne aveva mai parlato: fine della favoletta.

«E non rispondere alla telefonata.» Continuò il vecchio.

«Quale?» Domandò Bill.

«Quella che stai per ricevere.»

Erano le dodici e trenta, i bambini se ne erano andati via con i loro nonni da una decina di minuti, il vento non soffiava più. Dappertutto, nel parco, echeggiava un profondo silenzio. Quel momento poteva apparire. da lontano, come una foto: ogni cosa era ferma, immobile, quasi perfetta. Ma per uccidere la perfezione a volte basta poco, la suoneria di un cellulare ad esempio... quello di Bill: era Ilary.

«Lascialo squillare...» Fece Tom, quasi adirato nei confronti del ragazzo. «Perché non te ne vuoi andare via?»

«Tu...» rispose Bill cercando di trovare velocemente le parole «che vedi il futuro delle persone, quando incontrasti Fortuna...sapevi già come sarebbe andata a finire vero?»

«Sì...»

«E perché la sposasti?»

«Perché l'amavo.» Disse mestamente lui volgendo il suo sguardo verso il cielo di luglio.

«Vecchio, ti sei risposto da solo. Per lo stesso motivo io non posso non risponderle» e aprendo il cellulare:

«Pronto...»

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