CAP XIII -requiem for a dream-
Isabel era una bambina prodigio.
A cinque anni sapeva già leggere e scrivere.
A sei cominciò a collezionare valanghe di 10 in tutte le materie scolastiche.
A sette le misero in mano un flauto traverso.
A otto le organizzarono il suo primo concerto da solista davanti a più di trecento persone, tutte accorse a vedere il vanto di mamma e papà Lombard. I genitori, entrambi di buona famiglia, facevano parte di un'associazione culturale che si occupava di salvare quei teatri che rischiavano di chiudere i battenti per fallimento. Ma di quell'associazione e della cultura a loro non importava molto, erano solo alla ricerca di rispetto e desiderosi che la gente, in giro, parlasse bene di loro. Questa volta l'obiettivo era il teatro Phoenix, e l'evento della serata la loro figliola, che avrebbe eseguito diversi brani di musica classica, primo tra tutti l'Ave Maria di Schubert.
Quella sera salì sul palco purpureo, sommersa dagli applausi di incoraggiamento della folla. Alle sue spalle venne fatto scendere, adagio, un crocefisso enorme in legno sorretto da tre funi, il quale rimase sospeso a mezz'aria dietro di lei.
Quel palco era troppo grande... e lei troppo piccola.
Quella che le avevano affidato era una responsabilità troppo grande, e le sue spalle sempre troppo piccole per sopportarne il peso. Nella sua mano stringeva con vigore quel flauto traverso e, se fosse stata un po' più forte, pensava, l'avrebbe spaccato davanti a tutti i presenti.
Perché ad Isabel, di essere un prodigio, non interessava proprio.
Perché Isabel era una bambina, prima di tutto.
Rimase in silenzio per i 20 minuti più lunghi della sua vita.
Il padre cercò di esortarla senza voler nascondere nella sua voce un misto di vergogna e rammarico per ciò che stava accadendo. La gente cominciò ad alzarsi e ad andarsene via, richiedendo al botteghino i soldi del biglietto.
Il Phoenix fallì.
Ad Isabel toccò anche sentirsi dire, dal direttore del teatro, un sarcastico:
«Grazie, eh?»
«Niente più televisione, né cartoni animati.» Le disse adirata la madre quel pomeriggio, mentre tornavano a casa. «Quella roba ti rimbambisce il cervello. Da oggi in poi dovrai leggere un libro in più al mese e andrai dal maestro di musica quattro volte a settimana anziché due.»
«E raddoppierai le ore di esercitazione giornaliera.» Rincarò la dose il padre.
«Che umiliazione!» Continuò la madre portandosi le mani alla bocca per mangiucchiarsi le unghie. Quel gesto era tipico di lei quando era nervosa.
«Con che coraggio potremo presentarci ancora in associazione?» Fece rivolta al marito, il quale non seppe darle una risposta.
Lei aveva voluto dare una lezione ai suoi, castigarli. Perché a otto anni una bambina deve giocare con le bambole, a pallavolo, a nascondino, scherzare con le amiche, non deve sempre studiare, studiare e studiare. Ma della sua lezione i suoi non avevano capito nulla e, alla fine, l'unica ad essere castigata, fu lei.
I genitori, a causa del loro lavoro che li teneva impegnati fuori casa per quasi tutto il giorno, non erano molto presenti. Ma, per fortuna, c'era il nonno a farle compagnia. A Isabel il nonno piaceva perché tutte le volte che la vedeva stanca di suonare o di studiare, le diceva:
«Vieni qui.»
La faceva sedere sulle sue gambe ed iniziava a raccontarle storie fantastiche di mondi lontani, oppure portava dvd di film western, genere che lui adorava, e li vedevano insieme. Lui, neanche fosse un orologio, riusciva ad addormentarsi puntualmente dopo la prima ora di film per risvegliarsi, altrettanto puntualmente, alla scena del duello finale. E come se non avesse mai smesso di vederlo, sobbalzava sulla poltrona dicendole:
«Guarda!» E cominciava a dire le battute degli attori prima che questi le pronunciassero. Le conosceva tutte a memoria.
Un pomeriggio, stanca di provare l'ennesimo esercizio, gli domandò:
«Nonno... perché devo sempre suonare?»
Lui abbassò la testa, facendo scivolare sulla punta del naso gli occhiali, se li tolse, deponendoli nel contenitore di cuoio che aveva al collo, chiuse il libro che stava leggendo, e le rispose:
«Non ti piace?»
«No, non ho detto questo...» disse cominciando a dondolarsi «... è che vorrei ci fosse anche altro al di là della scuola e della musica.»
Lui, pensieroso, si accarezzò i baffi col pollice e l'indice diverse volte.
«Questo lo hai mai detto ai tuoi?»
«No, tanto non capirebbero...» e, stropicciandosi l'orlo della sua gonnellina blu, sbuffò.
«Vedi, piccolina...» Le fece lui teneramente. «Tuo padre e tua madre non sono cattivi... solo un po'... » e rimase in sospeso, senza riuscire a trovare una parola che potesse essere non troppo offensiva. «È che... se avessero avuto anche solo la metà dell'intelligenza che hai tu quando erano giovani... le loro vite, ora, non sarebbero così...vuote. Sempre alla ricerca dell'effimero, del consenso sociale.» Sbuffò, poi le sorrise. «Ma, per fortuna, tu hai ereditato tutti i geni del tuo nonnetto.» Disse facendole il solletico.
«Dio ti ha dato un dono! Non lasciare che gli altri ti portino ad odiare una delle cose più belle che esiste su questo mondo.»
«La musica?» Chiese.
«Sì! La musica è magia, è il linguaggio degli Dei, è poesia, è matematica. Può essere racchiusa in mille parole e in nessuna, non te ne dimenticare mai.»
Lei gli diede due baci sulle guance.
«E non preoccuparti... parlerò a mamma stasera.» E le sorrise.
«Che cosaaa?» Urlò la madre dalla cucina, Isabel si avvicinò alla porta socchiusa per ascoltare. «Tu vuoi venire ad insegnarmi come educare mia figlia?»
«Calmati Sonia, non ho mai detto questo.» Le rispose lui pacatamente. «Ma ha otto anni, è anche giusto che...»
«Non dirmi quello che è giusto o no! Come puoi?» Sbatté qualcosa di indefinibile di coccio e dal rumore che ne seguì, la piccola capì che doveva essere andato in frantumi. Sputò tutto il suo veleno:
«Il gran professore, sempre in giro a fare convegni e conferenze... non eri mai a casa, ci lasciavi sempre sole... a me e mamma. Che ne vuoi sapere di come crescere una bambina?»
«Perché mi dici questo?» La voce del nonno era affranta, la piccola non lo aveva mai sentito così.
«Perché, papà? Perché te lo meriti! Non so se l'hai capito, ma in questi tempi maledetti non c'è più tempo per i tuoi poeti e le tue utopie...» prese una pausa, poi il solito, fastidioso, rumore di unghie mangiate, caratteristico della madre «... sarebbe meglio per tutti noi che tu non vedessi Isabel per un po' di tempo.»
«Non puoi farmi questo.»
«Sì che posso!» Disse lei innervosita.
«Ma io quella piccola la adoro, per me è troppo importante... è la mia nipotina...»
«Ciao, papà.» E quando aprì la porta si trovarono di fronte la piccola Isabel.
«Te ne vai via, nonno?»
«Sì, bella mia.» Disse abbracciandola.
«Domani torni?» Domandò guardandolo con i suoi occhioni.
Se una bambina con un quoziente intellettivo di 210 domanda una cosa del genere dopo aver sentito tutto, lo fa solo per testare quanto sarebbe stata stupida e menzognera la risposta della madre. E difatti:
«Il nonno ti saluta. Parte. Per qualche tempo non lo vedrai.»
«E dove vai?» Le chiese.
Lui prese il cappello dall'appendiabiti e le rispose:
«A casa mia.»
Passarono tre settimane. Vista la forzata assenza del nonno i genitori pensarono di affidare Isabel ad un'odiosissima badante di 50 anni di nome Szymborska: alta, massiccia, bionda, originaria della Polonia. Aveva perennemente un'espressione seria, e Isabel era certa che se mai avesse dovuto ridere, sicuramente le sarebbero venuti dei crampi alla mandibola. Szymborska la sorvegliava nei suoi compiti, le cucinava dei cibi insipidi, e faceva sì che la piccola, quotidianamente, rispettasse le sue due ore di esercitazione. "Ordine e disciplina" questo era il suo motto, forse le uniche due cose che le avevano insegnato nella vita e quindi le uniche due cose che poteva insegnare. Ogni tanto il nonno le telefonava, ma l'arpia arrivava sempre ad attaccarle il telefono esortandola:
«Dai, forza! Hai perso già troppo tempo.» Cinque minuti per lei erano troppo tempo.
Un giorno la madre chiamò Isabel a casa dal lavoro, dicendole che la tata si era ammalata e che quel 13 di luglio, non sarebbe potuta venire. Le fece mille raccomandazioni, sottolineando che doveva stare attenta a non fare questo e quello, che era una bambina matura e che si fidava di lei. Qualcuno dall'altra parte la chiamò e lei dovette tornare alle sue scartoffie, salutandola sbrigativamente. La piccola fece subito il numero del nonno, ma gli rispose la segreteria telefonica. La voce sul nastro diceva:
«Al momento non sono presente, se volete lasciate un messaggio, se sei la mia nipotina lasciami un bacio... ti voglio bene angioletto.»
Le faceva strano parlare ad un apparecchio elettronico ma, sapendo che poi il nonno l'avrebbe ascoltato, disse:
«Anch'io te ne voglio, mi manchi tanto.»
Casa del nonno distava qualche isolato dalla sua, a piedi ci avrebbe impiegato pochi minuti, ma i suoi non l'avevano mai fatta uscire da sola. Era una decisione che doveva essere ponderata. Al di là dell'avventura di andare a trovarlo, pensava anche alle conseguenze che avrebbe potuto far scaturire quel suo gesto, in special modo nella madre.
Ad ogni azione nella vita corrisponde una reazione.
Doveva pensarci bene. Certo, la voglia di rivedere il nonno era tanta... ma anche la paura. Senza contare il fatto che fuori sembrava stesse per venire giù una tempesta.
Isabel stava lì tutta concentrata sul da farsi quando udì uno schianto provenire dalla strada.
Non seppe per quale motivo ma, quasi d'istinto, prese il suo flauto traverso e si affacciò dal balcone. Vide che due macchine, una un taxi, l'altra un'auto sportiva nera, erano andate l'una contro l'altra. La parte anteriore delle due era accartocciata come una lattina, nessun segno di vita sembrava provenire dall'interno dei veicoli.
Da una parte, a cento metri di distanza, un uomo giaceva sul ciglio del marciapiede, dall'altra un ragazzo e una ragazza si alzarono da terra. Alcuni di quelli che stavano osservando la scena dalle loro abitazioni presero il telefono chiamando il 911.
Il ragazzo si incamminò verso il taxi. Lei lo prese per mano, cercando di tirarlo a sè disse:
«No, Bill! Andiamocene via da qui... lontano da tutto e da tutti, solo io e te.»
Isabel vide il ragazzo sorridere, un sorriso amaro come il fiele.
«Stavolta sono io a dirti che non posso. Io devo aiutarlo!»
Uno dei due netturbini andò con il ragazzo, l'altro si diresse verso la macchina sportiva. Una piccola fiamma cominciò a divampare da ciò che restava del motore.
I due tirarono fuori il corpo del tassista: respirava ancora.
«Meno male... sei ancora vivo.» Disse lui rasserenato.
Poi...
Vi fu uno sparo, e la gente vide il netturbino che stava presso la macchina nera, cadere a terra privo di vita. Un uomo di mezza età, con una notevole ferita sulla fronte, venne fuori dando un calcio alla portiera. In mano aveva una pistola, ancora fumante dalla canna. Tutti coloro che stavano vedendo la scena si ritirarono in casa, tranne Isabel, che rimase lì dov'era ad osservare. Il primo soccorritore scappò via. Il ragazzo trascinò il tassista vicino a lei, facendolo sdraiare per terra, poi la accarezzò. Il viso della ragazza sembrava lo stesse implorando per qualcosa. Lui la rassicurò. Poi lei si mise a rovistare nella borsetta e ne tirò fuori una Colt e gliela diede.
Il ragazzo andò a fronteggiare l'uomo.
Tutti e due sembravano essere arrivati al limite delle loro forze. Ad Isabel sembrava di stare ad assistere ad uno di quei film western che tanto piacevano al nonno, in cui alla fine c'era il duello tra il bandito e lo sceriffo.
«Perché non ci lasci in pace?» Strillò il ragazzo.
«Come posso lasciarvi in pace, maledetti? Lei mi ha strappato via l'unica persona alla quale tenevo.» Urlò l'uomo vacillando per un attimo, rimanendo in piedi a fatica.
«E tutte quelle vite che tu hai strappato ai loro cari?» Rispose con lo stesso tono.
«Basta!» Fece lui. «Ognuno nella vita decide di percorrere una strada, ed io ho scelto questa.»
La tensione si poteva quasi tagliare con un coltello: da un momento all'altro la piccola poteva distintamente avvertire, che i due l'avrebbero fatta finita. Fu allora che siricordò di aver portato con sé il suo strumento,lo portò alla bocca e cominciò a suonare una musica che lei stessa aveva composto, che non aveva fatto sentire ancora a nessuno. Era dolce e triste al tempo stesso, vi aveva messo dentro tutta la sua anima. Liberò la melodia nell'aria, che raggiunse anche i due per strada, i quali rimasero per un istante rapiti da quel suono. Poi, d'un tratto, si guardarono dritti negli occhi, capendo che la fine di quella musica sarebbe stato il segnale. Isabel cercò di prolungarla più che poté, ma l'ultima nota, che rimase sospesa per qualche secondo, arrivò.
Due BANG echeggiarono nell'aria.
L'uomo di mezza età cadde sulle ginocchia per poi riversarsi a faccia in giù, una chiazza rossa iniziò a spandersi da sotto il suo collo. Anche il ragazzo, che era stato colpito, andò a terra. Le sirene della polizia iniziarono a sentirsi in lontananza.
Isabel ripensò a ciò che gli aveva detto il nonno, che la musica era magia.
E in quel momento decise che avrebbe continuato a suonare per sempre.
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