22 [AX]
IL DIO CHE HA VOLTATO LE SPALLE
La mazza da baseball di Ares si trasformò in un'enorme spada con l'impugnatura a due mani. L'elsa era un grande teschio d'argento con un rubino in bocca.
«Percy» lo chiamò Annabeth «Mettiti questa. Come portafortuna». Si sfilò la collanina con le cinque sudate perle del Campo e l'anello di suo padre, e gliela legò al collo. «Riconciliazione. Atena e Poseidone insieme»
Percy le sorrise, arrossendo leggermente. Non mi piacque un granchè, non sapevo bene per quale motivo. «Grazie»
«E prendi questa» aggiunse Grover. Gli consegnò una lattina spiaccicata, che probabilmente si conservava in tasca da chissà quanti chilometri. «I satiri sono con te»
«Grover... non so che cosa dire». Infilò la lattina nella tasca posteriore dei pantaloni. Poi mi guardò.
Scossi la testa. «Ares è forza bruta» gli dissi. Allungai due dita e gliele picchiettai sulle tempie, sopra i capelli. «Sai che cosa devi fare»
«Sì» confermò lui con un piccolo sospiro.
Mi sforzai di sorridergli. «So che puoi farcela. Fallo a fettine anche per me»
«Finito con gli addii?». Ares venne avanti, la lunga giacca di pelle nera che svolazzava alle sue spalle, la spada che scintillava come fuoco alla luce dell'alba. «Io combatto dall'eternità, ragazzino. Ho una forza illimitata e non posso morire. Tu che cos'hai?»
«Un ego molto più piccolo» risposi io piatta.
Ares mi puntò contro lo spadone. «Tu sarai la prossima, sorellina»
«Io non ci conterei» fece Percy.
Ares tirò un fendente mirando alla sua testa, ma Percy fu rapido. L'acqua lo slanciò in aria così che potesse catapultarsi sopra il dio, calando la spada durante la discesa.
Però Ares fu altrettanto veloce. Si piegò, e il colpo che era destinato a calare sulla sua spina dorsale fu deviato dall'estremità della sua elsa. «Non male. Non male» commentò con un ghigno. Poi tirò un altro fendente, obbligandolo a saltare sulla terraferma.
Percy cercò di aggirarlo per tornare in acqua, ma Ares sembrava conoscere le sue intenzioni e cominciò a bersagliarlo di colpi così veloci da costringerlo a concentrare tutte le energie solo nello sforzo di non farsi affettare. Continuava ad allontanarlo dalla risacca. Non riusciva a trovare un varco per attaccare. L'allungo della sua spada era molto maggiore di quello di Vortice.
Percy si slanciò intelligentemente in avanti, visto che aveva la spada più corta, ma Ares se lo aspettava. Lo disarmò con un colpo secco, quindi lo respinse con un calcio nel petto, facendolo volare per quasi una decina di metri. Atterrò sul morbido di una duna di sabbia.
«Percy!» gridò Annabeth. Spostò lo sguardo verso il viale che costeggiava la spiaggia. «Accidenti, c'è la polizia!»
Era vero. Erano arrivati con i lampeggianti accesi. Sentii sbattere degli sportelli. «Laggiù, agente!» gridò qualcuno «Vede?»
La voce burbera di un poliziotto disse: «Sembra quel ragazzino visto in tv... che diavolo...».
«Quel tizio è armato» fece un altro poliziotto «chiama rinforzi»
Percy rotolò su un fianco mentre la lama di Ares menava un fendente sulla sabbia. Raggiunse di corsa la sua spada, la raccolse e sferrò un colpo con tutte le forze verso la faccia di Ares, solo per vederselo deviare di nuovo. Il dio sembrava sapere esattamente quello che stava per fare un istante prima che lo facesse.
Percy si ritirò verso la risacca, obbligandolo a seguirlo. «Ammettilo, ragazzino» disse Ares «non hai speranze. Sto soltanto giocando un po' con te»
Una seconda autopattuglia accostò a sirene spiegate. Le persone che si erano trovate in strada per via del terremoto stavano cominciando a radunarsi. Tra il pubblico mi sembrò di distinguere due o tre individui che si muovevano con l'andatura strana e trotterellante dei satiri. C'erano anche le sagome tremolanti di alcuni spiriti, come se i morti si fossero levati dall'Ade per osservare la battaglia. Sentii il battito di ali di pipistrello che volteggiavano da qualche parte sopra di me; alzai lo sguardo e intravidi le Furie. Avevo ragione: anche altri stavano guardando. Impossibile sincerarsi delle loro intenzioni, però. «Beth, è meglio se ci teniamo pronte» le dissi, tesa.
«Sì, ma non possiamo fare niente» rispose, mentre altre sirene della polizia si avvicinavano «ci sono troppi mortali»
Percy si addentrò ancora di più in acqua, ma Ares fu veloce. La punta della sua spada gli lacerò una manica, graffiandogli l'avambraccio. La voce di un poliziotto col megafono disse: «Giù le pistole! Mettetele a terra. Subito!».
L'arma di Ares mi sembrò che tremolasse, come quella di Percy: a volte somigliava a un fucile, a volte a una spada.
Ares si voltò a scoccare un'occhiataccia agli spettatori, regalando a Percy un secondo prezioso per riprendere fiato. C'erano cinque auto della polizia che un gruppetto di agenti accovacciati, con le pistole puntate nella loro direzione, usavano come protezione. «È una faccenda privata!» sbraitò il dio «Sparite!»
Fece un gesto ampio con la mano e un muro di fiamme rosse divampò fra le autopattuglie. I poliziotti fecero appena in tempo a mettersi al riparo prima che i veicoli esplodessero. La folla alle loro spalle si disperse urlando.
Ares rise fragorosamente. «Torniamo a noi, piccolo dio. È ora di aggiungerti al barbecue»
Sferrò un fendente, ma Percy lo deviò. Si avvicinò e cercò di confonderlo con una finta, ma il dio lo respinse lo stesso. Erano entrambi mezzi sommersi, adesso.
Ares si fece avanti, sogghignando spavaldo. Percy abbassò la lama. Ares alzò la sua.
D'improvviso Percy saltò, sfrecciando come un razzo sopra Ares, sulla cresta dell'onda. Un muro di un metro e ottanta d'acqua investì il dio, lasciandolo a imprecare e a sputacchiare con la bocca piena di alghe.
Percy atterrò con uno spruzzo alle sue spalle e finse di mirare alla testa, come aveva fatto prima. Ares si voltò in tempo per alzare la spada, ma stavolta era disorientato e non riuscì a prevedere il trucco. Percy cambiò direzione, lanciandosi di lato, e conficcò Vortice nell'acqua, infilzando la punta nel tallone del dio.
Il boato che seguì fece impallidire perfino il terremoto di Ade. Il mare stesso arretrò come per uno scoppio, lasciando un ampio cerchio di sabbia umida attorno ad Ares. L'icore, il sangue degli dei, sgorgò da uno squarcio sullo stivale del dio della guerra. Era uno spettacolo agghiacciante.
L'espressione dipinta sul volto del dio della guerra andava ben oltre l'odio. Era dolore, sgomento, incredulità assoluta di fronte all'evidenza: era stato ferito. Si fece avanti zoppicando e borbottando imprecazioni in greco antico.
Poi qualcosa lo fermò. Fu come se una nuvola oscurasse il sole, ma peggio. La luce si abbassò. Suoni e colori si spensero. Una presenza fredda, pesante, sorvolò la spiaggia rallentando il tempo. Infine, l'oscurità avvolse ogni cosa.
Ares sembrava sbigottito. Le auto della polizia bruciavano alle nostre spalle. La folla di spettatori si era dileguata. Noi eravamo immobili sulla spiaggia, scioccati, e osservavamo l'acqua che tornava a rifluire attorno ai piedi di Ares, l'icore dorato che si disperdeva nella corrente. Abbassò la spada. «Ti sei fatto un nemico, piccolo dio» disse «hai firmato la tua condanna. Ogni volta che alzerai la spada in battaglia, ogni volta che ti augurerai il successo, sentirai la mia maledizione. Stai in guardia, Perseus Jackson. Stai in guardia»
Il suo corpo cominciò a brillare. «Percy!» gridai «Non guardare!»
Strizzai forte gli occhi e abbassai la testa, mentre Ares rivelava la sua vera forma immortale.
Poi la luce si spense. Ares era sparito. La marea si ritirò, scoprendo l'Elmo dell'Oscurità di Ade. Percy lo raccolse e si incamminò verso di noi.
Quando ci raggiunse sentii sbattere più forte delle ali di pipistrello. Tre malvagie nonnine con dei cappellini di maglia in testa e una frusta infuocata fra le mani calarono giù dal cielo, atterrando di fronte a Percy. La Furia al centro si fece avanti. Aveva le zanne scoperte, ma per una volta non era minacciosa. Sembrava più delusa. «Abbiamo visto tutto» sibilò «e così è vero che non sei stato tu»
Percy le lanciò l'Elmo, che lei afferrò sorpresa. «Restituiscilo al Divino Ade» le ordinò «digli la verità. Digli di revocare la guerra»
Lei esitò, poi si passò la lingua biforcuta sulle labbra verdi e incartapecorite. «Stammi bene, Percy Jackson. Diventa un vero eroe. Perché altrimenti, se mai dovessi capitarmi di nuovo tra le grinfie...». Ridacchiò con voce stridula, assaporando l'idea. Poi lei e le sue sorelle spiegarono le ali, si alzarono in volo nel cielo pieno di fumo e infine scomparvero.
«Terrorizzante» commentò Annabeth.
«Forte!» corresse Grover.
«Sapevo che potevi farcela» dissi io.
Percy mi rivolse un sorriso stanco. «Ragazzi, avete sentito anche voi quella... quella cosa?» chiese.
Annuimmo tutti e tre. «Saranno state le Furie» disse Grover.
Ma sapevo che non era così. Qualcosa aveva impedito ad Ares di ucciderlo, e qualunque cosa fosse era molto più potente delle Furie. Io, Annabeth e Percy ci scambiammo un'occhiata, e capimmo senza parlare.
Percy si fece restituire lo zaino da Grover e guardò dentro. La Folgore era ancora lì. «Dobbiamo tornare a New York» disse «entro stasera»
«È impossibile» replicò Annabeth.
«A meno che non voliamo»
«Vuoi dire che vorresti prendere un aereo? Ovvero fare quello che ti hanno detto di non fare mai se non vuoi che Zeus ti fulmini, e per di più portandoti dietro un'arma più potente di una bomba nucleare?» esclamò Annabeth incredula.
«No» intervenni io, e allungai una mano verso Percy «dammi lo zaino»
Percy me lo passò senza esitare. Avvertivo il potere della Folgore anche senza avere bisogno di toccarne l'involucro, ma non appena lo feci mi servì un attimo per contenere lo shock. Era quello il potere di mio padre, quindi?
«Che cosa vuoi fare?» mi domandò Annabeth.
«Datemi un attimo». Gli diedi le spalle e mi allontanai di qualche passo. «Non venitemi vicino. Non vorrei che vi colpisse»
«Aspetta un momento...»
Chiusi gli occhi e trassi un profondo sospiro. «Padre» chiamai nella mia mente «so che stai guardando. Permettici di volare. Abbiamo ciò che cerchi»
Per un lungo attimo non sentii nulla. Poi la voce austera di Zeus mi parlò. «Vieni, figlia. E fa che non sia un tranello, o ne pagherai le conseguenze»
Aprii gli occhi proprio nel momento in cui un rombo di tuono riecheggiava per la baia. «Ci permetterà di volare» dissi agli altri, girandomi verso di loro «andiamo a restituirgli la Folgore».
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Secondo i notiziari di Los Angeles l'esplosione sulla spiaggia di Santa Monica era stata causata da un folle che aveva fatto fuoco su un'auto della polizia, colpendo accidentalmente un condotto del gas che si era danneggiato durante il terremoto.
Il folle in questione (aka Ares) era lo stesso uomo che aveva rapito Percy e altri tre ragazzini, tra cui io, a New York, portandoci poi a spasso per tutta la nazione durante dieci giorni di odissea del terrore.
Il povero piccolo Percy Jackson non era un criminale internazionale, quindi. Aveva causato i disordini su quell'autobus del New Jersey cercando di scappare dal suo aguzzino (in seguito, dei testimoni avrebbero giurato di aver visto l'uomo vestito di pelle sull'autobus: "Perché non me lo sono ricordato prima?").
Era stato il folle a causare l'esplosione sull'arco di St Louis. Dopotutto un ragazzino non ci sarebbe mai riuscito.
Una cameriera di Denver aveva visto l'uomo minacciare le vittime fuori dal suo ristorante, aveva fatto scattare una foto a un amico e poi aveva informato la polizia.
Alla fine, il coraggioso Percy Jackson aveva sottratto una pistola al suo aguzzino a Los Angeles e si era battuto con lui in un duello sulla spiaggia. La polizia era arrivata appena in tempo. Ma nella spettacolare esplosione, cinque autopattuglie erano rimaste distrutte e il rapitore era fuggito. Non c'erano stati feriti. Percy Jackson e i suoi tre amici erano sani e salvi sotto la custodia della polizia.
Furono i giornalisti a fornirci tutta la storia. Noi ci limitammo ad annuire, a sembrare piagnucolosi ed esausti (non fu affatto difficile) e a recitare la parte delle vittime davanti alle telecamere. «Voglio soltanto» disse Percy, soffocando le lacrime «rivedere il mio amato patrigno. Ogni volta che lo vedevo in tv e sentivo che mi chiamava "piccolo delinquente", sapevo... in qualche modo... che le cose si sarebbero aggiustate. E so che vorrà ricompensare ogni singola persona di questa meravigliosa città con un elettrodomestico del suo negozio in omaggio. Ecco il numero di telefono...»
Poliziotti e giornalisti erano così commossi che fecero una colletta, procurandoci quattro biglietti sul primo volo per New York. Mi augurai che Zeus facesse fede a quanto mi aveva detto e che ci facesse volare tranquilli, ma non fu facile per niente: il decollo fu un incubo. Ogni minima turbolenza era più spaventosa di un mostro greco. Percy non staccò le mani dai braccioli finché non atterrammo sani e salvi all'aeroporto La Guardia, nonostante avessi anche provato a rassicurarlo. Capii che era di mio padre che non si fidava, non di me -e a maggior ragione.
La stampa locale ci aspettava fuori dalla dogana, ma riuscimmo a evitarla grazie ad Annabeth, che con il berretto invisibile in testa depistò i giornalisti gridando: «Sono laggiù, alla yogurteria! Svelti!», per poi raggiungerci al ritiro bagagli.
Ci separammo al posteggio dei taxi. Annabeth e Grover tornarono alla Collina Mezzosangue per riferire a Chirone quello che era successo, mentre io accompagnai Percy per la conclusione dell'Impresa: saltammo su un taxi e partimmo in direzione di Manhattan.
Trenta minuti dopo entravamo nell'atrio dell'Empire State Building. Con i vestiti laceri e le facce scorticate dovevamo proprio somigliare a dei vagabondi. Non dormivamo da almeno ventiquattr'ore buone.
Ci avvicinammo alla reception e Percy disse: «Seicentesimo piano».
Il portiere stava leggendo un grosso libro con l'immagine di un mago sulla copertina. Ci mise un po' per sollevare lo sguardo. «Non esiste un piano del genere, giovanotto»
«Abbiamo bisogno di un'udienza con Zeus» insistette lui.
Il portiere gli elargì un sorriso vacuo. «Come hai detto, prego?»
«L'hai sentito» replicai tranquilla io. Sapevo perfettamente che quello non era un mortale, e stava facendo un pessimo lavoro a nasconderlo.
L'uomo mi lanciò una lunga occhiata. «Ci vuole un appuntamento. Il Divino Zeus non riceve nessuno senza preavviso»
«Oh, davvero?» feci io con un sorriso freddo «Fagliela vedere, Percy»
Lui si sfilò lo zaino dalle spalle e tirò la zip. La guardia sbirciò dentro e per qualche secondo osservò il cilindro metallico senza capire cosa fosse. Poi ci arrivò, e impallidì. «Questa non è-»
«Sì invece» garantì Percy «io forse non riesco a maneggiarla, ma la mia amica, qui» e indicò me «è figlia di Zeus. Vediamo se riesce?»
«No! No!». Scese scompostamente dalla sedia, frugò sul bancone alla ricerca di una scheda d'accesso e ce la consegnò. «Inserite questa nella serratura elettronica. Assicuratevi che non ci sia nessun altro in ascensore»
Seguimmo le sue istruzioni. Non appena le porte dell'ascensore si chiusero, Percy infilò la scheda nella serratura. Un attimo dopo scomparve e sulla console apparve un nuovo pulsante, di colore rosso, con su scritto "600". Lo premette e aspettammo.
Si diffuse una musica di sottofondo. "Raindrops keep falling on my head". Poi finalmente le porte scorrevoli si aprirono.
Uscimmo sullo stretto vialetto di pietra sospeso in aria. Sotto di noi c'era Manhattan, vista dall'altezza di un aeroplano. Di fronte, una candida scalinata di marmo si attorcigliava attorno a una nuvola, librandosi verso il cielo. Sopra le nuvole si ergeva il picco decapitato di una montagna, con la sommità coperta di neve. Abbarbicate lungo i versanti c'erano dozzine di eleganti palazzi (una città di ville) tutti provvisti di portici e colonnati bianchi, terrazzi dorati e bracieri di bronzo che scintillavano di migliaia di fuochi. Le strade si arrampicavano con un tragitto folle e tortuoso fino in cima, dove il palazzo più grande di tutti brillava sullo sfondo candido della neve. Qua e là, appollaiati precariamente, spuntavano giardini rigogliosi di ulivi e cespugli di rose.
Era una città dell'Antica Grecia, solo che non era in rovina. Era nuova di zecca e piena di vita, come doveva essere Atene duemilacinquecento anni fa. Percy era a bocca aperta, e non potei fare a meno di ridacchiare. «Bella, eh?»
«Com'è possibile che ci sia tutto questo» e indicò scompostamente con le mani l'ambiente circostante «proprio sopra Manhattan? Non sembra vero...»
«Ho pensato la stessa identica cosa quando sono venuta qui per la prima volta» gli dissi, dandogli una pacca sulle spalle «dai, andiamo»
Ci incamminammo verso la sommità. Ninfe dei boschi ci lanciarono olive dai loro giardini in un coro di risatine. Gli ambulanti del mercato ci offrirono le loro mercanzie: lecca lecca all'ambrosia, uno scudo nuovo e una copia originale del Vello D'Oro, scintillante di strass, "come quello visto alla Efesto-tv". Le nove muse accordavano i loro strumenti per un concerto nel parco, circondate da un capannello di spettatori: satiri, Naiadi e un gruppetto di bei ragazzi, forse delle divinità minori. Nessuno sembrava turbato per l'imminente guerra. In effetti sembravano tutti allegri, come per un giorno di festa. Molti si voltarono a guardarci, parlottando fra loro.
Iniziammo a inerpicarci su per la strada principale, verso il grande palazzo che si ergeva sulla vetta del monte: una copia inversa del palazzo degli Inferi. Mentre laggiù dominavano il nero e il bronzo, qui tutto scintillava d'argento e di bianco.
L'ultima scalinata terminava su un cortile interno. Superato questo, saremmo entrati nella Sala del Trono. «Sei pronto?» gli chiesi, lanciandogli un'occhiata.
Percy sospirò profondamente. «Facciamolo» mi rispose.
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