V - Il viale dei ciliegi
Non riusciva a prendere sonno.
Si voltò un paio di volte sul fianco destro, poi sul sinistro. Infine si mise supina. Lanciò un'occhiata all'orologio sul comodino e si stupì nel constatare che erano solo le quattro e trenta del mattino. Aveva l'impressione di essere sveglia da ore. Dopo essere rientrata in casa, accolta dal familiare miagolio di uno Stark insonnolito, si era messa in pigiama e fatta sprofondare in fretta sul cigolante materasso del suo letto, abbracciata dal tenue e confortante tepore di un sottile lenzuolo bianco. Fuori esplodevano a intermittenza i bagliori di un temporale. Di tanto in tanto, l'ambiente della sua camera da letto veniva rischiarato dallo sfolgorare dei lampi, seguito, a breve distanza, dal sordo fragore dei tuoni. Quando era solo una bambina, ancor prima che iniziasse l'asilo, suo padre le aveva svelato quello che allora le era sembrato un eccezionale segreto, la cui portata rasentava il magico. "Se ti metti a contare i secondi che separano il lampo dal tuono, capirai a che distanza è caduto il fulmine. Tre secondi equivalgono a un chilometro, sei a due chilometri e così via. Basta dividere per tre il numero dei secondi". Aveva scoperto, negli anni a venire, che la spiegazione di quel curioso rapporto temporale era molto più prosaica e meno portentosa di quel che pensasse allora: la luce viaggia a una velocità di trecentomila chilometri al secondo, mentre il suono, in tre secondi, di chilometri ne compie solo uno. Trecentotrenta al secondo. Spalancò gli occhi e acuì l'udito, attenta. Sei secondi. Circa due chilometri. Sorrise. Un sorriso nostalgico. Il ricordo del genitore non percorreva il labirinto della sua mente da almeno otto anni, ed era così strano che si fosse ritrovata a pensare a lui in un orario così improbabile. Era un brav'uomo, suggerì alla sua mente. Profumava di sigaro. Di sigaro, inchiostro consumato e gomma per cancellare. Quando le accarezzava i capelli, o le sistemava con cura una ciocca scura dietro l'orecchio, quella fragranza, così intensa, le attraversava le narici e sembrava invaderla di un concentrato di sicurezza e famiglia, lavando via ogni traccia, anche la più resistente, di tristezza.
Decise di arrendersi all'insonnia e scattò in piedi. Si strofinò gli occhi con il dorso delle mani, esalando un fragoroso sbadiglio, e si avviò verso la cucina. Stark le destinò un'occhiata di scarso interesse e riprese a sonnecchiare. Violet si versò dell'acqua in un bicchiere e ne sorseggiò il contenuto, meditabonda. Passò in rassegna attraverso l'ampia finestra che dominava l'ambiente le strade sottostanti, che il temporale aveva reso simili a piccoli stagni, ora circolari, ora ellittici, spaziati da strisce rettangolari d'asfalto. In una di quelle pozzanghere scorse il riflesso capovolto del familiare palazzo di vetro. Distolse rapidamente lo sguardo. Il corridoio e le stanze del suo appartamento erano imbevuti di un silenzio pressoché assoluto, che incombeva su di lei come un'inquietante presenza, spezzato dal tenue tintinnio dei singhiozzi di un temporale che stava esalando i suoi ultimi, agognanti respiri. Silenzio che sembrò farsi strada attraverso la sua pelle e da cui si sentì invadere. Si sforzò di deglutire, ma, nonostante avesse appena bevuto due bicchieri d'acqua, aveva la bocca terribilmente asciutta. A poco a poco, non richiesta, si plasmò nella sua mente l'immagine di una ragazza dalla lunga chioma castana. La ragazza del vicolo. Dopo averne scorto il profilo sulle finestre di vetro del mastodontico grattacielo di fronte al suo condominio, Violet si era guardata alle spalle, senza riuscire ad attribuirle un corpo fisico. Aveva così ripreso a camminare, accelerando il passo, più che intenzionata ad allontanarsi quanto prima da quello che, si era convinta (o aveva cercato di farlo), era stato il prodotto di un semplice gioco di luci, reso più realistico dalla privazione di sonno. Adagiò il bicchiere di vetro sul tavolo della cucina e si lasciò cadere sul divano del salotto. Sospirò, cercando di scacciare dalla sua mente i pensieri sgraditi che l'avevano occupata, senza premurarsi di bussare, avvisare o chiedere il permesso prima di entrare. Afferrò il telecomando e accese il televisore, con l'intento di mettere a tacere il silenzio che aveva attorno. Le si parò di fronte il giovane viso del conduttore di un'edizione mattutina del tg (poco più che un ragazzo, in tutta probabilità piazzato lì all'ultimo minuto per sostituire un collega ammalato, a giudicare dal tono insicuro e poco convinto con cui comunicava gli eventi più rilevanti accaduti nel New Jersey nelle ultime ore). Stava accennando al ritrovamento del corpo di una ragazza, la cui identità era ancora in fase di definizione, sulle spiagge di Wildwood, un piccolo comune di poco più di cinquemila abitanti un centinaio di miglia a sud di Newark, che Violet conosceva solamente per il molo e il parco divertimenti a ridosso dell'oceano. A pensarci, l'ultima volta che era stata al Morey's Piers aveva sei o sette anni. Di quella vacanza ricordava soprattutto l'inebriante profumo dello zucchero filato e delle arachidi tostate, misto al più acre aroma di hot dog e patatine fritte, e i numerosi e infruttuosi tentativi del padre di vincerle un peluche, cercando di colpire una decina di barattoli di metallo. E poi i giri in giostra, le risate, la casa degli specchi... secoli prima. Tornò a concentrarsi sul telegiornale. Sembrava che la ragazza trovata morta avesse intorno ai venti anni e che il corpo fosse stato rinvenuto da un gruppo di turisti pochi minuti prima. Quando l'inviata sul posto, la cui chioma rossiccia era scossa dal tenue vigore di un vento estivo, iniziò a diffondere i connotati fisici del cadavere, trapelati dai discorsi concitati degli agenti di polizia locale, Violet aveva ceduto agli inviti di Morfeo ed era sprofondata in un sonno profondo.
Erano passate le sette quando risollevò le palpebre. Le ore trascorse sul divano del salotto in un'innaturale posizione l'avevano lasciata indolenzita e dovette stirare gambe e braccia per qualche minuto prima di riuscire a muovere qualche passo. Versò dei croccantini nella ciotola di Stark, che in tutta risposta le rivolse un miagolio di ringraziamento, si scaldò del latte nel microonde e lo mescolò a del fumante espresso, appena preparato. Sorseggiò la bevanda in veranda e rimase per qualche istante seduta, immobile, la tazza calda in mano, a osservare il panorama che le si stanziava di fronte. I contorni diritti, muti, della città dei mattoni, la sua città, le rivolsero il consueto buongiorno. L'aria fresca di un mattino soleggiato le accarezzò il viso, strappandole un sorriso. "E torno a pensarti, anche se non vorrei. Torno a pensare a te. Mentre affondo nel soffocante tepore di un mattino di giugno, trascinata in basso dal mio peso, quello stesso peso che mi rende viva, prima di accorgermi di non saper nuotare": scarabocchiò questi versi sulle pagine di un diario (il diario, che da anni conservava gelosamente in un incavo della parete della veranda, ben nascosto). Dopo aver fatto una rapida doccia, indossò un paio di leggins neri e una t-shirt bianca e uscì di casa, zaino in spalla, armata di penna, bloc notes, bottiglietta d'acqua, cellulare e auricolari. Giunta al Branch Brook Park, ebbe inizio la sua consueta corsa mattutina, scandita dalle piacevoli note di The Blower's Daughter di Damien Rice. Adorava quel parco. Amava percorrerlo da cima a fondo, rapita da quello stato di trance indotta dallo sforzo fisico, che ti impediva di pensare e ti permetteva di godere appieno di ogni singolo frammento di immagine ti si stagliasse di fronte, per quanto indistinto e sfocato fosse. Come era abituata a fare, si fermò a riprendere fiato nel viale dei ciliegi. Svuotò metà del contenuto della bottiglia d'acqua e inspirò profondamente, inalando quel tipico e dolce profumo di fiori che inondava l'ambiente. Attraverso le secolari chiome degli alberi filtravano i raggi di un sole che quel giorno prometteva temperature infernali.
«Mondo di sofferenza:
eppure i ciliegi
sono in fiore».
Due grandi occhi grigi, in parte nascosti dalla visiera di un cappellino, le sorrisero. Un sorriso imbarazzato. Per qualche strano motivo le venne da pensare alle endorfine e allo stress.
«Kobayashi Issa» chiarì il ragazzo, col chiaro intento di rompere il silenzio che seguì all'haiku.
«Violet» ironizzò lei, scrollando le spalle e porgendogli la mano destra.
Scott scoppiò a ridere.
«Trovi divertente il mio nome?» lo sfidò, fingendosi infastidita.
Il ragazzo non si scompose, anzi continuò a sorriderle. Indossava un paio di pantaloncini blu scuro e una canottiera nera.
«In effetti lo è, se pensi che siamo in un parco, circondati da fiori».
«Non so tu, ma io dovrei riprendere la mia corsa» tagliò corto Violet. Rimise la bottiglietta nello zaino e se lo gettò sulle spalle.
«Non devi andartene solo perché sono arrivato io» la bloccò Scott, visibilmente mortificato. «So che a quest'ora ti piace stare qui a scrivere e non volevo, cioè non voglio, disturbarti. Vado via io».
Quando lo vide allontanarsi, le baluginò in mente l'idea che forse era stata scortese. O forse era stato lui quello scortese, e anche un po' (molto) inquietante, con quell'osservazione sulle sue abitudini mattutine. Be', ormai era troppo tardi per ripensarci. Rimase lì ancora per qualche minuto, la schiena contro la ruvida corteccia di un ciliegio, gli occhi chiusi, a riflettere su tutto e niente in particolare. Non le riuscì di scrivere nulla. L'apparizione della notte passata era lontana anni luce dai suoi pensieri quando, prima di rientrare a casa, com'era sua abitudine, scambiò qualche parola con Jim, il proprietario dell'edicola su Clifton Street, e acquistò una copia fresca di stampa del Jersey Journal.
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