IV - Silenzio

"Fu allora che comprese, prima ancora che lui aprisse bocca per dargliene conferma, che non poteva funzionare. Abbassò lo sguardo, l'espressione assente in volto, e annuì. 'Mi dispiace'. Le riuscì solo di aggiungere quello".

«Wow, Violet».

Gli occhi di Lizzie erano raggianti di sincero entusiasmo. Finse di asciugarsi una lacrima con un tovagliolo di carta e tirò su col naso.

«Fa così schifo?» domandò Violet, esitante. «No, perché voglio che tu sia assolutamente sincera con me, Liz. Non me la prenderò se non ti è piaciuto, davvero. E ti capirei pure, se fosse così. Voglio dire, era prevedibile che non potesse funzionare...».

«Avresti dovuto accettare la proposta di Scott» fece spallucce l'amica. «Voglio dire, quando ti ricapiterà di avere tutto quel bendidio sotto mano, Vi? Hai visto che addominali aveva sotto la maglietta? E vogliamo parlare degli occhi grigi? Una cosa che vi accomunava! Dico, non se ne vedono molti di ragazzi con le iridi di quel colore, lo sai? Ci hai pensato, eh, Vi

Violet si portò una mano sulla fronte e alzò gli occhi al cielo.

«Scema» commentò, scagliandole addosso lo strofinaccio con cui stava ripulendo il bancone. Elizabeth schivò il colpo e le destinò un laconico "Gne". Non ottenendo ulteriore risposta, Violet incoraggiò la bionda. «Dai, mi riferivo al romanzo. Chi se ne frega di Sam, Scott, o come diavolo si chiamava! Ci sono cose più importanti a cui pensare, e sto benissimo da sola».

L'amica le indirizzò un'espressione scettica.

«Sei stata tu a chiedermi di essere sincera, no? E penso che ti farebbe bene stare...»

«Smettila. Sembri mia madre» tagliò corto Violet. «"Non lo sai, tesoro, che le endorfine hanno un'azione benefica sullo stress? E tu sei molto stressata. Con l'università, il lavoro, le tue poesie..."» calcò l'ultima parola più del dovuto, in un'inconfondibile - e terribilmente ben riuscita - imitazione della genitrice.

Elizabeth scoppiò a ridere.

«Non ha tutti i torti» osservò, stringendosi nelle spalle. Quindi, intercettando lo sguardo incandescente dell'amica, fece segno di cucirsi la bocca. «Molto bello» cambiò argomento. «Il finale mi è piaciuto tantissimo. Anche se avrei preferito non morisse nessuno stavolta».

«Un libro non è avvincente se non muore nessuno. Possibilmente di morte violenta» le fece notare Violet. «E possibilmente a morire deve essere un personaggio chiave. Uno di quelli a cui il lettore si affeziona dalle prime righe. Vedi la Rowling? O King? Loro hanno capito tutto».

«Soprattutto perché sono diventati milionari» tossicchiò Lizzie.

«Anche» sospirò la bruna. «Ti ho già detto che somigli a mia madre?»

La loro conversazione fu bruscamente interrotta dall'ingresso nel locale del signor Carter, il proprietario del Simon & Garfunkel. Un omone i cui centonovanta centimetri di altezza, moltiplicati per i centoventi chilogrammi di peso, erano più che sufficienti a incutere un certo timore in chiunque avesse il (dis-)piacere di incontrarlo. A Violet piaceva quel gigante buono. Le era stato vicino nei momenti bui e sapeva di poter contare su di lui. Sulle spalle reggeva due sedie, che adagiò sul pavimento con una grazia che mal si sposava al suo aspetto.

«Non sento il mio suono preferito» dichiarò, sollevando un sopracciglio. Quel gesto aveva un significato inequivocabile: "Non vi pago per chiacchierare".

«Alla centottantesima volta non fa più ridere questa battuta, sai S?» lo stuzzicò Elizabeth, staccando lo sguardo dal monitor del pc che aveva di fronte e mettendosi a roteare sullo sgabello che occupava.

«Hello darkness, my old friend...» la ignorò Simon Carter, come sempre di buon umore.

«Silence like a cancer grows...» lo ammonì Violet, ridacchiando. Destinò un'occhiataccia all'amica, ancora intenta a piroettare sullo sgabello. «Forza, Liz. Hai sentito cosa ha detto big S. Torna a lavorare» la incitò.

«Ehi, Stachanov! Essere stata tu a chiedere a me di leggere finale del tuo nuovo romanzo» si lamentò la ragazza in un (malamente) improvvisato accento russo. Si mise in piedi con fatica, barcollando, e fissò lo sguardo su quello di Simon, che continuava a canticchiare, incurante delle sue lamentele. «Mi gira un po' la testa. Ma giuro che non ho bevuto. Solo acqua e qualche frullato» incrociò indici e medi di entrambe le mani dietro la schiena.

«Mi ricordi perché l'ho assunta, Violet?» sospirò l'omone, scuotendo la testa.

«Perché ti fidi ciecamente di lei, e quindi anche di me» rispose la ragazza, agitando l'indice destro a mo' di rimprovero. «Questo sillogismo ha perfettamente senso. La mia professoressa di Filosofia del liceo sarebbe fiera di me» vaneggiò.

Il Simon & Garfunkel a quell'ora era completamente deserto.
Violet riprese a sgrassare i fornelli e spense le luci in cucina. Il locale era la classica tavola calda americana. Le vetrine erano scurite da una decina di volantini con le offerte e i menù del giorno ("Oggi alette di pollo a soli sette dollari! E la limonata ve la offriamo noi!"). L'ambiente interno era straripante di tavoli, sedie, panche e sgabelli e quel dedalo caotico era abbracciato da un bancone lucido in acciaio, quella sera luccicante, che segnava il confine con le cucine. Violet lavorava come cameriera per Simon da quasi cinque anni. Aveva iniziato a diciotto, più per svago che per necessità economica, e da allora aveva imparato a conoscere tutti i trucchi del mestiere ed era diventata depositaria involontaria delle ansie e dei malesseri di una buona parte della periferia di Newark. Le piaceva parlare, ma ancor più amava ascoltare. Ascoltare e osservare. Nella sua breve esperienza di vita - che molti avrebbero etichettato come "limitata", certo, ma che era diventata preziosa fonte di ispirazione per parecchi dei suoi scritti -, aveva compreso che, se non tutti, quantomeno un abbondante settanta per cento dei problemi di cui si lamentavano i suoi clienti erano autoinflitti. E vi era un che di perversamente masochistico nel modo in cui gli uomini, tutti, si ostinavano a perseverare nell'errore, finendo per venire soffocati dalla morsa a cui si condannavano per scelta, più o meno cosciente. Inclinazione a cui lei non era di certo immune, anche se cinque anni passati dietro a quel bancone, divenuto così familiare, avevano contribuito a crearle una certa corazza.
Quando ebbe finito di spazzare il pavimento, prese il laptop dal bancone e se lo mise sottobraccio. Afferrò dall'appendiabiti il pullover azzurro - che due soli lavaggi avevano allargato più del dovuto - e se lo fece distrattamente ricadere sulle spalle.

«Devo insegnarti a fare la lavatrice» osservò Elizabeth, sbadigliando.

«O magari sono solo dimagrita» buttò lì Violet, stanca. «Vado a dormire. Sono distrutta».

«Sicura di non volere un passaggio?» si offrì l'amica. «Ci metto solo due minuti qui e faccio chiudere a Simon».

Violet scosse la testa.

«Sai che mi piace camminare. Mi aiuta a pensare».

«Lo so. Ma so anche che sono le tre del mattino, e Newark non è proprio il bel paesino idilliaco in cui sei cresciuta».

Violet sospirò e alzò gli occhi al cielo.

«Abito a due isolati da qui».

«Isolati è anche un bell'aggettivo per descrivere le strade di questa città a quest'ora».

«A domani» chiuse il discorso la ragazza, lasciandosi scivolare la porta del locale alle spalle.

L'aria notturna che le scosse i capelli giunse inaspettata come una pugnalata. Faceva piuttosto fresco per essere nel mese di giugno. Non appena scattò il verde al semaforo, Violet attraversò la strada e si strinse con maggior foga nel maglioncino celeste. Mentre oltrepassava il primo dei due incroci che separavano il Simon & Garfukel dal suo appartamento, si diede una rapida occhiata intorno. Non c'era nessun altro in giro per la città a parte lei, e quella semplice constatazione, più che instillarle ansia o spaventarla, le fece sprofondare addosso un angosciante senso di solitudine e irrealtà. Dopo aver vissuto da pendolare per tutto il periodo del liceo, facendo la spola da Ridgeton, suo paese d'origine, a Newark e trascorrendo oltre metà della sua adolescenza sui putridi sedili dei mezzi pubblici, a diciotto anni compiuti, alla soglia della maturità, aveva preso la decisione di trasferirsi in città proprio per colmare quel senso di solitudine. Delle grandi metropoli amava il fatto che, ovunque ti girassi, a qualsiasi ora - o quasi -, ci fosse sempre qualcuno a farti compagnia, e persino in quell'orario improbabile, quando chiunque, ancor più una donna, sarebbe sussultata al minimo rumore e avrebbe guardato con circospezione qualsiasi ombra si fosse mossa nell'oscurità, le sarebbe stato di conforto sapere che c'era qualcuno, oltre a lei, a popolare quei vicoli. Qualcuno di vivo.
Svoltò a sinistra all'ultimo incrocio e imboccò la stretta stradina, semi-illuminata da un lampione singhiozzante e dai pallidi raggi della luna, quella notte piena, che la conduceva dritta al palazzo che era diventato la sua seconda casa negli ultimi cinque anni. A uno dei due lati il vicolo era sormontato da un elegante grattacielo completamente realizzato in vetro, le cui pareti riflettevano la scarsa luce che rischiarava l'ambiente quel minimo che bastava per non dover procedere a tentoni. Una nuova sensazione di freddo - e inquietudine - le attraversò le ossa. Erano davvero a giugno? Quando si voltò ad osservare il suo riflesso sulle finestre del grattacielo, a sorriderle fu il volto di una ragazzina con dei lunghi capelli castano chiaro.

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