III - Futuro
Helen McHale aveva un imperdonabile difetto: era diversa.
Non rispettava lo stereotipo della madre di provincia: apprensiva, attenta e protettiva erano tre aggettivi che non le si addicevano minimamente.
Un metro e sessantasette, quarantasei chilogrammi e mezzo. Occhi color lapislazzulo, espressione decisa in volto, incorniciata da una folta chioma scarlatta.
Amava indossare tute e abiti da ginnastica. D'altra parte, dedicava al jogging almeno due ore ogni giorno.
Dall'alto dei suoi quarantatré anni - compiuti da neppure un mese, come si ostinava a ripetere, se qualcuno le faceva domande sulla sua età -, poteva dire di averle viste veramente tutte. Cresciuta in una famiglia che Michael definiva "poco raccomandabile", sin da bambina aveva capito che nella vita nessuno ti regala mai nulla.
E mai aveva preteso regali da nessuno.
Alle porte del college, quando tutti i suoi compagni di liceo, Michael incluso, sapevano già che maschere e panni avrebbero indossato da adulti, lei si sentiva nuda. Non aveva la minima idea di cosa le riservasse il futuro, né se ne preoccupava più di tanto.
Di una sola cosa era certa: non avrebbe avuto figli.
Non che avesse qualcosa contro i bambini: anzi, adorava strapazzarli di coccole. Tuttavia detestava che quegli esseri umani in miniatura fossero così ingenui e vulnerabili.
La sua infanzia era stata talmente buia che non ne aveva mai parlato con anima viva.
Neppure con la famiglia che era riuscita a crearsi.
Sì, perché Helen McHale, contro ogni aspettativa e previsione, all'età di venticinque anni aveva avuto una bambina: Sophie.
Saggezza.
Tutte le volte in cui lei le aveva chiesto dei nonni materni, Helen aveva virato la conversazione verso altri argomenti, adducendo scuse poco credibili. Un giorno erano morti, il giorno successivo si erano trasferiti in Europa... insomma, alla fine la piccola Sophie si era arresa all'omertà della madre, ripetendo a se stessa che ci fossero validi motivi dietro al suo ostinato e inviolabile silenzio. Dopotutto, Helen non le nascondeva mai nulla (anche particolari che avrebbe preferito ignorare), e la figlia faceva altrettanto con lei.
Era la persona di cui più si fidava al mondo.
Aveva quarantatré anni, dicevamo. Quarantatré anni e un solo mese. Eppure, neanche una microscopica ruga le solcava il volto.
Nulla.
Metà della popolazione femminile di Wildwood era convinta (o dichiarava di esserlo, complice il senso di insicurezza tipico delle casalinghe disperate) che la sua eterna giovinezza fosse merito della chirurgia plastica; l'altra metà... be', badava poco all'aspetto di Helen: o aveva più di settanta anni, o meno di quaranta.
Comprensibile.
Anche quell'afoso sabato pomeriggio la donna indossava la sua uniforme: tuta blu scuro, canotta bianca, sneakers nere. Gli occhi erano nascosti da lenti scure, che celavano alla vista le iridi chiare, ma nulla potevano contro il dolore che esse racchiudevano: chiunque avrebbe potuto notare, su entrambi gli zigomi, lo scheletro di innumerevoli lacrime. Scendevano lentamente, a intervalli regolari, ma con costanza. Qualcuno, forse uno dei tanti vicini di cui a stento conosceva il nome, le aveva porto un fazzolettino di carta lungo la strada. Helen aveva ringraziato, più per educazione che per altro, e l'aveva afferrato senza sollevare lo sguardo da terra. Lo teneva stretto con sé alla mano destra, il pugno chiuso, le dita serrate come le spranghe di una gabbia. Perfettamente asciutto.
Non aveva intenzione di usarlo.
Asciugarsi le lacrime sarebbe stato un affronto, si ripeteva. Un'offesa. Un insulto al dolore che provava, e che non aveva intenzione di nascondere in alcun modo.
Di ben altro orientamento era l'uomo che le stava accanto, e che di tanto in tanto le sussurrava all'orecchio - senza successo - che il dolore era "una faccenda privata", e tale dovesse rimanere.
Ma Michael era fatto così, lo sapeva bene: sarebbe folle pensare di poter cambiare qualcuno.
Superata la forca caudina dei vicini di casa, Helen era salita sulla Chevrolet nera di suo marito e si era lasciata cadere sul sedile posteriore.
Era distrutta.
Che senso aveva più vivere?
Andare in ospedale, all'obitorio della città, per riconoscere un corpo, quello che senza ombra di dubbio era l'esile corpo di sua figlia?
La sua unica figlia.
La sua sola ragione di vita.
Era di certo lei.
Quando quella stessa mattina, solo poche ore prima, si era svegliata per la sua solita corsa e non l'aveva trovata a letto, nella sua stanza, Helen aveva capito tutto. Mai era successo, in diciassette anni, che Sophie rientrasse a casa più tardi delle due di notte.
Senza telefonare.
Senza mandare un messaggio.
Nulla.
Che senso poteva mai avere tutto quello?
E con chi o cosa mai se la sarebbe potuta prendere lei, da sempre atea convinta?
Con se stessa?
Sì, probabilmente era stata colpa sua.
Non avrebbe dovuto permettere a sua figlia di uscire con un ragazzo di cui a malapena conosceva il cognome.
Un ragazzo senza famiglia, come lo era stata lei.
Uno di quei ragazzi a cui una madre normale, ragionevole, non avrebbe neppure consentito di varcare la soglia di casa.
Che le era passato per la mente quando le aveva detto di sì?
Quando era stata lei, lei sola, a convincere uno scettico Michael che quell'appuntamento avrebbe fatto bene a Sophie.
Che l'avrebbe aiutata a distrarsi. Che sarebbe servito a sua figlia, così stressata per lo studio in vista del college.
Così preoccupata per il suo futuro.
Così...
Non ce la faceva.
Sentiva lo sguardo del marito puntato addosso.
Poteva percepire nel suo silenzio una chiara eco di accusa.
No.
Non poteva riuscirci.
«Io non vengo».
Il suono della portiera dell'automobile che veniva aperta fece seguito a quella laconica dichiarazione.
Non sarebbe andata in obitorio.
Prese a camminare, a passi svelti, guidata dall'incedere solo in apparenza casuale delle proprie gambe.
Sarebbe andata alla stazione di polizia di Wildwood, a meno di un chilometro da casa sua.
Non aveva alcuna intenzione di starsene seduta con le mani in mano ad asciugarsi le lacrime, nella speranza che le indagini portassero a qualcosa.
Non credeva nella giustizia, né tantomeno si aspettava che al mondo potesse esistere qualcosa di giusto. Aveva intenzione di collaborare con gli agenti, quello era certo.
Voleva trovare qualcuno.
E, una volta trovato quel qualcuno, colpevole o meno che fosse, non aveva dubbi su quale sarebbe stato il passo successivo.
Non avrebbe esitato.
Non aveva più nulla da perdere.
D'altra parte, Helen era diversa.
Era quasi tramontato il sole quando, arrivata a destinazione, lo vide.
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