I - Routine
Se qualcuno fosse passato dalla spiaggia di Wildwood quel sabato mattina certamente sarebbe rimasto stupito.
Stupito è dir poco, visto quel che stava accadendo: una piccola folla di curiosi si era riunita attorno a un lenzuolo bianco.
Niente di eccezionale, direte voi.
Cosa mai può esserci di così interessante in un pallido velo di cotone gettato sulla spiaggia?
Forse i fini granelli di sabbia che lo ricoprono?
O magari il fatto che sia appartenuto a chissà quale nobile europeo ormai defunto (Rasputin? La principessa Sissi?)
No. Nulla di tutto questo.
In effetti non è corretta la frase che abbiamo appena enunciato.
Direi che la forma è fuorviante.
Aspettate.
Ricominciamo.
Una piccola folla di curiosi si era riunita attorno a un corpo.
Così va meglio, non trovate?
Un corpo senza vita.
Sotto quel lenzuolo bianco, in effetti, c'era Sophie McHale. Una giovane ragazza di Wildwood, che tutti conoscevano e ammiravano per le solite doti per cui una diciottenne può attirare l'attenzione di un adulto.
No, non pensate male.
Non quelle doti.
Era una ragazza dolce, disponibile, e soprattutto incredibilmente acuta.
Un vanto per la piccola cittadina del New Jersey, che tutti ricordano soprattutto per le spiagge bianche e il Morey's Piers and Beachfront Water Parks.
Con lei morivano tutte le speranze che un'intera comunità vi aveva riposto.
E ancor più le ambizioni dei genitori.
A meno di un chilometro da quel litorale, Michael McHale stava sorseggiando, serafico, il suo consueto caffè mattutino.
Beveva a piccoli sorsi.
Era anche piuttosto rumoroso, come moglie e figlia non mancavano di fargli notare in più occasioni.
Indossava una cravatta scura su una camicia bianca.
Per lui la colazione era uno dei tanti rituali di una giornata che sembrava ripetersi in loop, con sequenze prestabilite.
Sempre uguale.
Avete presente Sliding doors? O quel film con Sandra Bullock?
Ecco. Esattamente allo stesso modo.
Era un abitudinario, insomma.
Per suo volere, tutti gli orologi della casa avevano le lancette puntate avanti di dieci minuti.
"Meglio arrivare dieci minuti prima che dopo": questo era il suo mantra.
Odiava fare ritardo.
Odiava anche i gatti, a dirla tutta.
Sophie ne aveva adottato uno a otto anni, che amava coccolare quando si sentiva triste. Il felino, ormai abituato a quella che vedeva come una sua piccola routine, passava giornate intere a inseguire topi e ad affilarsi le unghie, per poi raschiare ogni notte, pressoché alla stessa ora, la finestra della camera della ragazza. Senza accendere la luce, Sophie si alzava e, in punta di piedi, schiudeva la finestra quel tanto che bastava perché lui si potesse intrufolare in casa. Qualche fusa di ringraziamento e il gatto balzava sul letto, accovacciandosi accanto a lei. Poco più di tre ore, al termine delle quali, allertata dalla sveglia del cellulare, Sophie spalancava la finestra e lo faceva uscire.
Non era mai stata scoperta.
Ma torniamo a Michael.
Stavamo parlando della colazione.
Be', il rituale prevedeva che a sette - non uno di più, non uno di meno - sorsi di caffè seguissero tre morsi a una fetta biscottata e un bicchiere d'acqua, rigorosamente a temperatura ambiente.
Quella mattina qualcosa andò storto.
La macchina del caffè si ruppe.
Le fette biscottate erano terminate (Helen non era uscita a fare la spesa il giorno prima, e Sophie aveva mangiato quelle che rimanevano).
Il bicchiere gli scivolò dalle mani e si frantumò, riversando il suo limpido contenuto sul legno del parquet.
«Che mattina di merda».
Furono le prime parole pronunciate in casa McHale quell'afoso sabato.
Nel frattempo, al piano di sopra, un gatto nero continuava a dormire, ignaro di ogni cosa.
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