winter sadness
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I fiocchi di neve cadevano fuori dalla sua finestra fluttuando nell'aria in una magnifica e melanconica danza, piroettando su loro stessi, accarezzati dai pungenti venti freddi, illuminati dalla luce fioca di un tardo pomeriggio invernale. Andavano poi a posarsi sull'asfalto, sciogliendosi al primo contatto con esso, imperlandolo di gocce d'acqua, raggruppandosi in torbide pozzanghere.
Elia guardava fuori dalla finestra lo spettacolo dell'inverno. Vedeva le cime degli alberi piegarsi e incurvarsi in lontananza a causa delle raffiche di vento che li colpivano, ed i palazzi rabbrividire per il gelo e stringersi nella loro coperta d'intonaco grigiastro. Il freddo s'infilava in ogni crepa presente sui muri, in ogni piccola intercapedine, sussurrando un'aspra nenia, invitando le persone a non uscire dalle case, a crogiolarsi ancora un po' nel più caldo degli abbracci, o davanti al camino.
Sebbene fossero le sei di pomeriggio, Elia fingeva di dormire. Aveva gli occhi gonfi di pianto salmastro, resi opachi ed annacquati da tutte le lacrime che aveva versato finché non ne era rimasta neanche più una goccia, finché l'unica cosa che rimaneva era il ricordo del loro contatto con la pelle del volto, il loro sapore salato sulle labbra e sulla punta della lingua, il pizzicore che avevano lasciato impresso sotto le palpebre. Occhi rossi, bianchi e neri, che avevano perso ogni scintilla d'emozione, ogni briciolo di passione per la vita. Fingeva di dormire cullato dal fruscio che il vento produceva zigzagando fra i rami semi-spogli degli alberi, dal rumore delle sporadiche auto che sfrecciavano per le strade, dai sospiri stanchi del sole, che ancora si stagliava pallidamente contro la distesa del cielo, un po' restio a cedere il posto alla luna e alle stelle. Lo scorcio di cielo che Elia riusciva a scorgere tra i tetti delle case e il bordo superiore della sua finestra era di un colore che non aveva mai visto prima, in bilico fra il bianco lattiginoso tipico di dicembre e il freddo blu cobalto di una notte in procinto di nascere e discendere sull'intera città. Con lo scorrere frettoloso dei minuti, anche lunghe pennellate di blu scuro iniziarono ad allungare le loro braccia e ad avvolgere le case, stritolandole tra le loro dita affusolate, infilandosi e strisciando per i vicoli più stretti, serpeggiando fra le auto parcheggiate, fra gli alberi e i pali della luce, destreggiandosi come esperti piloti fra i fiocchi di neve che ancora vorticavano nel cielo. Un pittore maldestro iniziò a spruzzare la sua tela con scintille bianche e gialle – la luna non accennava ad apparire.
Elia stese una mano verso l'alto, l'allungò alla volta del soffitto come a volerlo toccare, e sospirò. Gli sembrava così lontano. Tutto gli sembrava così lontano. Girò la testa verso destra solo per trovarsi faccia a faccia con l'intonaco bianco crema della parete della sua stanza. Tirò un altro sospiro lunghissimo, infinito, e tornò a fissare il soffitto. Gli balenò in testa il pensiero che forse era lui quello che si era allontanato da tutto. I suoni della sua città gli arrivavano ovattati alle orecchie – il rumore degli pneumatici che stridevano sull'asfalto pieno di buche, il ticchettio dei tacchi di una donna che passava di fretta proprio sotto la sua finestra, il clangore delle persiane delle finestre che sbattevano, le urla indemoniate del vento che sferzava l'aria.
Giaceva ancora inerte sul letto, come paralizzato, come morto.
Quand'è che la sua vita era andata in pezzi? Quand'è che aveva perso tutto quello che credeva di avere? Quand'è che il luogo a cui sentiva di appartenere si era trasformato in una prigione, in una cella dalla quale era impossibile anche solo tentare di uscire? Quand'è che era rimasto solo, che aveva perso anche sé stesso?
Incapace di trovare una risposta a queste domande, cercò di imprimerle all'interno della sua testa, marchiando a lettere sbilenche le pareti del suo cervello. Più ci pensava e più si addentrava in un eterno labirinto senza uscita, girando inesorabilmente su sé stesso, ritrovandosi costantemente al punto di partenza. E più ci pensava e più una malinconia siderale lo attanagliava, una morsa si stringeva intorno al suo stomaco, le mani della morte lo accarezzavano e poi si serravano attorno al suo collo e lo soffocavano, lasciandolo senza respiro, morente, impotente, incapace di opporsi al dolce sussurro dell'incoscienza. Pensò che forse, se avesse perso i sensi, sarebbe finalmente riuscito a dormire.
Faceva sempre lo stesso sogno, quando riusciva, per miracolo, ad addormentarsi.
C'era un uomo. Un uomo che lo chiamava incessantemente, e continuava a ripetere il suo nome, scadendo bene ogni lettera, come per assicurarsi di farsi udire da Elia. Quella voce gli faceva accapponare la pelle, sentiva i brividi di terrore puro scivolare giù dalla nuca fino alla base della schiena e poi afferrargli le ginocchia e scuoterle violentemente. Non riusciva mai a smettere di tremare. Era una voce che ben conosceva, ma che per quanto si fosse sforzato non era mai riuscito ad identificare – era una voce che apparteneva a qualche fantasma del suo passato, uno spirito iridescente che tornava ad infestare la sua mente ogni qual volta gli fosse possibile, che lo tormentava e lo faceva contorcere dalla paura, e strillava per farsi conoscere. Era un presagio di morte che gli tendeva la mano.
Poi sentiva un telefono squillare e strillare e urlare da una stanza lontana della sua memoria. Vuole a tutti i costi che si risponda, e allora continua a chiamare a gran voce per ricevere attenzioni, si sgola, ma Elia lo ignora, fa finta di nulla. Il battito del suo cuore accelera e corre, l'intero cuore sembra voler fuggire via dal petto, bucare la cassa toracica e scappare per le strade della città, abbandonare lo scheletro vivente a cui appartiene, lasciarsi dietro quella putrida carcassa incapace di provare sentimenti tangibili, per poi trovarsi un nuovo proprietario. Ma chi mai vorrebbe un cuore di seconda mano, un cuore indurito da anni di solitudine ed abbandono? E cosa sarebbe Elia senza un cuore? Sarebbe un manichino, non diverso da un automa, non diverso da un pezzo di carta strappato e dimenticato per terra, trascinato via dal soffio del vento invernale. Una paura viscerale lo attanaglia e rimescola il suo intestino, un senso di oppressione cosmico prende possesso del suo corpo e lo guida a piccoli passi verso la pazzia. Un senso di vomito risale dalle profondità del suo stomaco, la bile ha un sapore acido e disgustoso in bocca, si mischia alla saliva e alle bestemmie che stanno lì, schiacciate contro il palato e incastrate tra i denti, troppo schive ed inibite per venir fuori in un solo fiato. Vuole solo svegliarsi da questo eterno incubo infernale. Poi di nuovo il telefono squilla in lontananza, e tutto quello che Elia riesce a sentire è il rombo crescente che quel rumore metallico produce nelle sue orecchie, riecheggiando contro i suoi timpani, minacciando di farli sanguinare. Forse sarebbe meglio essere sordo, non sentire nulla, non provare quest'angoscia, pensa. Che poi, a lui, del telefono non importa neanche così tanto. Non vuole nemmeno sapere cos'hanno da dirgli quelli che hanno telefonato. Mentirebbe se dicesse che in realtà non lo immagina già, quello che vogliono dirgli. Lo sa già, se lo aspetta, e non muore di certo dalla voglia di sentirselo sputare con rabbia in un orecchio. Sei morto, Elia, sei morto. È questo quello che vogliono dirgli. È inutile che ti struggi tanto, Elia, sei già morto da tantissimo tempo. E non te ne sei nemmeno reso conto. Hai continuato ad ignorare la realtà, stregato dalle tue fantasie, trascinato in un mondo fasullo basato sui tuoi ricordi ingannevoli. Lo sapeva già. Eppure l'idea di sentirselo dire apertamente lo gettava in uno stato di terrore malsano: sentirselo dire significava renderlo reale, dare un peso fisico a quelle parole, che finora non aveva avuto il coraggio neanche di pensare per intero. Ed una volta uscite dalla bocca del suo interlocutore avrebbero spaccato la cornetta, si sarebbero infilate direttamente nel suo orecchio destro, avrebbero risalito strisciando la strada fino al suo cervello, e lì sarebbe rimaste, in un eterno rimbombare e risuonare, una cantilena che l'avrebbe condotto sull'orlo della pazzia.
Era poi vero quello che dicevano? Era davvero morto? Era davvero senza speranza? O si stava solo illudendo d'essere morto? Di nuovo era assillato da interrogativi senza risposte.
A questo punto si svegliava sempre. Si tirava su a sedere di scatto, ancora traballante per l'angoscia, una mano portata al volto per assicurarsi di essere ancora vivo, di essere ancora in grado di toccare quella prigione di carne in cui era destinato a rimanere. Sbatteva gli occhi e sentiva scorrere fra le lunghe ciglia delle perle di sudore, il suo respiro era affannoso e tremolante, e scacciava via i demoni che avevano infestato il suo sonno. Fuggivano e andavano strisciando a nascondersi nei sogni di qualcun altro, oppure semplicemente si ritiravano nell'ombra cinerea che il suo corpo proiettava sul pavimento scarsamente illuminato dal bagliore della luna che entrava dalla finestra. Probabilmente sgusciavano sotto al suo letto o dentro al suo armadio, e lì attendevano in agguanto, digrignando i denti, affilandosi gli artigli, pronti a farlo a pezzi con il più ampio dei sorrisi stampato sul loro volto inumano. Dopotutto, erano demoni. E si sa, i demoni traggono forza dalle paure degli uomini incapaci di combatterli. Ed Elia, la forza per combattere i suoi demoni non l'aveva mai avuta: se ne stava sempre lì, sdraiato supino, con gli occhi spalancati, in attesa che quelli arrivassero a strappargli il cuore, che già batteva impazzito. Sentiva i muscoli fremere e tremare incostanti, e dentro di sé un sentimento che partiva dalla base della schiena lo scuoteva e lo invitava a correre, correre via, più forte che poteva, fino a sentire le ossa delle gambe dolere per il troppo sforzo.
Ma rimaneva lì, fermo immobile.
Che poteva fare, dove poteva andare? C'era un posto che l'avrebbe accolto, un luogo dove avrebbe potuto ricominciare una nuova vita da zero? Un luogo dov'era sempre estate, e la neve non cadeva mai volteggiando fuori dalla sua finestra, dove il vento non faceva sbattere le ante delle finestre e non gli faceva saltare il cuore in petto, un luogo dove il gelo dell'aria non penetrava fin dentro le ossa e gelava il sangue che scorreva lento nelle sue arterie e nelle sue vene. Un posto dove il sole scaldava la sua pelle e intiepidiva tutti i rancori e i rimorsi legati al passato, picchiava sull'asfalto e lo faceva brillare, cuoceva le suole delle scarpe e stringeva la città in un abbraccio rassicurante. Esisteva un luogo del genere? Elia fantasticava e la sua mente correva lontana come una gazzella nella prateria, scattava curvando tra gli alberi bassi e i cespugli spinosi, saltava oltre ruscelli e fiumi, invincibile. La sua mente correva mentre il suo corpo rimaneva attaccato per terra, incollato al letto, agganciato a quella notte invernale, con lo sguardo vacuo perso nello squarcio di cielo blu scuro che riusciva a scorgere al di fuori della sua finestra. La luna faceva capolino tra i tetti dei palazzi più bassi, ancora troppo timida per mostrarsi completamente al mondo vestita della sua ritrovata forma sferica. Una luna piena che brillava lontanissima, la cui luce era più fioca di quella dei lampioni che illuminano ad intermittenza le strade con raggi azzurri e arancioni. Una luna piena di sogni e speranze, che aspirava a diventare luminosa come il sole, quel sole che ammirava da lontano anche quando il cielo schiariva, con cui sognava di ballare un valzer e poi bere un bicchiere di vodka. Una luna che strillava come una matta rincorrendo i suoi multiformi desideri irraggiungibili. Elia pensò di non essere poi così diverso da lei, mentre la fissava salire lentamente fino a stagliarsi al centro del cielo notturno. Il tempo sembrava dilatarsi e saltellare all'interno della sua stanza, vorticando e incurvandosi, piegandosi fino a spezzarsi – le ore sembravano secondi e i minuti parevano giorni.
Saranno state forse le quattro del mattino, ed Elia sentiva le palpebre pizzicare dalla stanchezza, pesanti come macigni premevano sulle cornee e lo invitavano a farsi cullare dal tepore delle lenzuola e a farsi così trascinare nel mondo dei sogni. Non c'era verso di opporre resistenza ad una richiesta sussurrata con tanta dolcezza e in modo tanto convincente. Con un sospiro tremolante si abbandonò alle braccia dell'incoscienza, e nel giro di pochi minuti scivolò in un sonno profondissimo, lasciandosi alle spalle i pensieri di una giornata – o forse di un'intera settimana, o ancora un'intera vita.
Nel buio dei suoi sogni, un uomo chiamava il suo nome ed un telefono in lontananza urlava per farsi sentire.
"Buonanotte."
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volevo commentare questo pezzo che ho scritto più di un mese fa, in un periodo un po' doloroso della mia vita, ma non riesco a trovare delle parole adatte per farlo. non c'è neanche una canzone che possa accompagnarlo. prendertelo così com'è, nudo, spoglio e brutale, nella sua forma più reale. a volte fa anche bene prendere le cose così come sono realmente.
ogni tanto ritorno a pubblicare su questa raccolta per la pura e semplice necessità di alleggerire il peso che grava sul mio cuore, o per cercare di allentare la morsa che mi stringe lo stomaco.
con la consapevolezza che probabilmente non lo leggerà praticamente nessuno - esclusa me medesima, che ogni tanto ci torno per cercare conforto - posso dire che contiene un frammento molto grande della mia anima, che ultimamente risulta spezzettata e frastagliata. penso si noti. a volte va così e basta, credo. tutto quello che posso fare è prendere la vita così come viene, accettarla e cercare di trarre il meglio anche dalle esperienze più brutte, penso sia quello che ho sempre fatto e non conosco un altro modo per andare avanti.
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