𝙄𝙏'𝙎 𝘼𝙇𝙇 𝘾𝙊𝙈𝙄𝙉𝙂 𝘽𝘼𝘾𝙆 𝙏𝙊 𝙈𝙀 𝙉𝙊𝙒













ɪ'ᴍ ꜱᴏʀʀʏ, ʏᴏᴜ'ʀᴇ ᴊᴜꜱᴛ ᴍᴀᴋɪɴɢ ᴇxᴄᴜꜱᴇꜱ.

🎡




Aveva dimenticato com'era vivere con la costante presenza della propria migliore amica sempre attaccata al collo. Erano cambiate così tante cose da quando Dalai si era fidanzata con Jungkook che lei stessa aveva perso il conto; i pregressi di Jungkook, il materasso sostituito con uno più grande e il nuovo lavoro di Hien: una posizione che l'aveva costretta a limitare le sue visite con una profonda distanza.

Ma in un modo o nell'altro riusciva sempre a esserci per Dalai, anche a costo di lasciare il suo nuovo ragazzo a casa da solo — il famoso otto che si era trasformato in un undici perché sapeva leccarla bene. E ora riusciva a sentirla squillante e civettuola dall'auto parlante del cellulare mentre svoltava in direzione del parcheggio del negozio.

«Che caldo ragazzi! A saperlo prima mi sarei portata le mutande di ricambio» esordì ad alta voce Hien mentre il suo ragazzo, in sottofondo, le mormorava di abbassare la voce con un probabile rossore d'imbarazzo sulle guance. Dalai alzò gli occhi al cielo: si era trovata un santo a farle da balia nelle veci di fidanzato.

«La finezza non intende lasciare il suo trono a quanto sento, principessa» la prese in giro, spegnendo la macchina, sentì l'altro ridacchiare mentre Hien fece finta di niente. «Sono lo stesso una principessa con o senza fierezza in corpo»

«Finezza Hien. Finezza! Santo cielo» scosse la testa e sentì l'immensa voglia di spaccarsi il cranio sul volante, «La fierezza é tutt'altra cosa, te l'ho spiegato quattro volte!»

«Sì, fa lo stesso» mormorò fregandosene e per nulla toccata. «Sei arrivata?»

Dalai espirò profondamente e annuì per conto suo: «Giusto ora»
«Bene!» strillò, «allora ci vediamo alle tre tra gli spalti»
«Come hai detto?» balbettò Dalai scioccata.
Hien ridacchiò: «Massì! Non te l'ho detto?»
«Dirmi cosa?»
«Che Jungkook ci ha invitato alla gara! Partiamo tra pochi minuti per cercare parcheggio, é stato tenero da parte sua invitare anche la migliore amica della sua fidanzata»

Tenero abbastanza da non dirmi un cazzo.

Sospirò rumorosamente, sentendo gli occhi farsi nuovamente lucidi per l'ennesima volta dopo aver pensato a lui.

Cosa ti aspettavi? Te la sei cercata.

«Oh sì, giusto» mormorò a caso, «Sicuramente mi sarà sfuggito di mente» le mentì con voce vuota.

Dal lato di Hien non uscì nessuna parola, giusto del fastidioso silenzio che le ricordava ogni volta quanto fosse sola in certe situazioni. Però, poco dopo, la sua amica parlò direttamente al suo ragazzo vicino a lei: «Tesoro, mi sono dimenticata una cosa nel bagno, perché nel frattempo non scendi a prendere la macchina dal garage e ti raggiungo?»

Si vede che l'altro acconsentì immediatamente perché spessi passi di scarpe, sbattuti sul legno delle scale, risuonarono su tutta l'acustica. Sentì una porta chiudersi e Hien fece un lungo e grosso sospiro rassegnato, pronta a sbandierare ogni pensiero che le passava per la testa.

«Ancora non ci hai parlato?»
«L'ho fatto» gracchiò fragile, con lo sguardo fisso dritto sul parabrezza, «O almeno ci ho provato ma... mi ha fatto capire che voleva i suoi spazzi»
«Beh,» schioccò la lingua al palato, «gli daresti torto?»

«No! Certo che no, però cazzo» strinse gli occhi e li puntò al tettuccio, già pieni di lacrime, «Mi manca. E sto soffrendo anch'io porca puttana, non è il solo a stare male»

Hien canticchiò in segno di ragione ma la fermò comunque: «Sicuramente non è il solo a stare male tra i due, Dal. Concediti la rabbia e la sofferenza che ti porta questa separazione ma cerca di capirlo; sapere che la propria ragazza non prova le stesse cose che sente per te, dopo un anno di relazione, non é facile da digerire»

«Ma non gli ho detto che non provo le stesse cose. Se non mi piaceva non ci stavo insieme, no!?» ribatté pungolata dai sensi di colpa.
«Dalai,» sospirò, «non gli hai detto nemmeno il contrario» le fece notare.

«Perché in quel momento ero sopraffatta e io—» si fermò, senza trovare le parole giuste per continuare e si spazientì sbuffando, «Mi sono sentita con le spalle al muro; prima la tazza, poi é subentrato il problema della gara, dopodiché il lavoro e infine siamo finiti col parlare di sentimenti. Non connettevo più e avevo la testa che mi stava per esplodere dalla moltitudine di frasi che volevo dirgli per rassicurarlo» il fiato si prosciugò lasciandola a bocca asciutta, «Ma peggio di così non potevo esprimermi, Hien, buttavo benzina sul fuoco. Mi chiedeva una cosa e io gli rispondevo con un'altra. Hai presente gli analfabeti funzionali? Ero l'esempio perfetto! La progenie degli idioti del terzo millennio»

«Non mi sorprende» rispose tranquilla, «Voglio dire, relazionarsi con te é stato come un plus emblematico che ti spacciano per bonus amicizia: "vuoi diventare amica di Ki Dalai?" Dici di sì mentre in realtà ti lasciano al tuo destino, ovvero in balia di una ventiquattrenne frustrata, con grosse incapacità di esternare le proprie emozioni, afflitta da disturbo di depersonalizzazione e che ama trombarsi vergini» blaterò, «É il fattore stronza che fraintende secondo me, sii più gentile e forse avrai più ossigeno al cervello per capire le domande che ti fanno»

«Disturbo di depersonalizzazione? Fantastico, oltre a sociopatica, depressa e psicotica aggiungiamo alla lista il distaccamento del corpo: sono diventata un cadavere» elencò con finto tono sprezzante.

«Diventata? Non lo eri già?»

La bocca della corvina si arcuò verso il basso: «Farò finta che questo discorso non sia mai esistito: sei imbarazzante, anzi lo sono più io che ti ascolto»

«Fino a prova contraria hai sempre seguito alla lettera ogni mio consiglio»

«Ho seguito i tuoi consigli una sola volta e non accadrà una seconda, mi rifiuto di darti credito. Seriamente»

«Allora fai come vuoi: a tuo rischio e pericolo» scioccò la lingua al palato e Hien guardò l'ora sul telefono, «Beh, progenie dei boomers, mi piacerebbe tanto parlare con te e sentire i tuoi dilemmi esistenziali per... la sessantanovesima volta?»

«Numero preso a caso, immagino» esordì ironica.

«Nulla é mai dato al caso in questa vita, ti ho detto che dovevi leggerti quel libro sull'energia spirituale Made in Vietnam»

«L'avrei anche fatto» ribatté seccata, «Se non fosse scritto in vietnamita» le fece notare che quel suo grazioso regalino portato da sua nonna, nel suo ultimo viaggio coast to coast per unire la cultura coreana con quella vietnamita, era pensato per una persona che effettivamente sapesse una lingua diversa dall'hanguel.

«Certo che non ti accontenti mai...»

Dalai ruotò gli occhi al cielo e si leccò le labbra beffarda. «Ti conviene sparire e alla svelta, non ho risolto nulla parlando con te» e si aspettò un'altra battutina da Hien, com'era solita a scambiarsi con lei, mentre invece ribaltò totalmente le sue aspettative.

«Non hai risolto nulla perché mi sono limitata a dirti le cose più fondamentali Dalai, che persino un bambino riuscirebbe a capire» sentì il rumore di una porta in sottofondo e il gracchiare della gente che pullulava in strada — era palesemente uscita di casa —, «Tanto ti ostini a fare di testa tua, librandoti nelle tue convinzioni con finali drammatici da film americani del 2012, mentre ti basterebbe aprire gli occhi, accendere la macchina e partire per quello stadio»

Fu costretta a serrare gli occhi e ingoiare un groppo insipido di dura verità giù per la trachea, con la costante sensazione che la circonferenza per ciò fosse troppo piccola per sopportare un carico del genere; e più ci provava a farlo passare e più il dolore si acutizzava fino a ledere in brandelli le pareti. Un po' come la sua vita ora: piena di mattine fatte di lacrime, di lenzuola che odoravano di niente, di uova non preparate già sul tavolo e cucinate da un bellimbusto dietro al bancone della cucina. Continuava a farsi andare bene questa nuova routine imbevuta di dolore e solitudine dove però prima, quest'ultima, era diventata assente grazie a Jungkook.

Ora era tornata da lei, grattando la porta del suo appartamento senza bussare in modo che capisse immediatamente chi ci fosse dall'altra parte. E tutto questo — diceva lei, ottusa — era nato da una tazza.

«É facile parlare così quando sei infelice, quando vedi la vita senza senso e non hai difficoltà economiche a remarti contro» forse fu troppo acida nei confronti di Hien; il rancore e quella nota grigia che riaffioravano dentro di lei per colpa della depressione che la affogava da anni, non riuscivano a estinguersi quando veniva attaccata sul privato.

Però pensava di avere ragione perché alla fine Hien aveva tutto quello che lei non aveva, ovvero la serenità.

«Può darsi» ammise tranquillamente e per niente toccata dalla corvina, «Ma è altrettanto facile nascondersi dietro a ciò che ci conviene e lamentarsi. L'infelicita per certi aspetti dipende da te, Dalai: sostieni che per essere felice tu debba avere basse aspettative e accontentarti di questo lavoro di merda mentre sfiderei la sorte, giocandomi la vita, che ne troveresti subito un altro se tu lo volessi davvero. Ma, ehi, so che frignare é conveniente però mi chiedo se piangere senza senso in macchina, focalizzandoti sulle cose che non funzionano, perché tu sostieni che sia così, riesca a riportarti magicamente Jungkook» era un discorso lasciato tra l'ironia e la dannata evidenza, un campo dove Hien era consapevolmente brava a pascolare con le parole.

Questo faceva male.

Così male che Dalai si ritrovò rossa, coperta di imbarazzo e con un cospicuo disagio a invadergli la mente: «Io...» balbettò scioccata ma venne nuovamente tagliata fuori dal discorso.

«Ah! E la tua preparazione sui percorsi di formazione? Non dovevi averli già iniziati?» un altro taglio sul petto.

Dalai socchiuse gli occhi stanca. Li aprì appena per guardarsi le scarpe ancora circondate dal piano dei pedali. «Sì, dovevo» emise in un vergognoso sussurro, mentre la ferita bruciava. «Avevo trovato qualche occasione ma non rientravo con i ritmi del lavoro»

La vietnamita di fece scappare un sorrisetto impertinente: «Diavolo, non ti facevo così procrastinatrice»

«Vaffanculo, ho sempre seguito e rispettato tutti i miei piani fin dall'inizio!» alzò la voce proteggendosi.

«Mmh sì, ma ad oggi non stai vivendo nessun fottuto sogno per colpa delle tue paure e di questo lavoro di merda, quindi ti costringi a rimandare a domani. Lo fai sempre e guardati ora Dal; sai già dentro di te che Jungkook ha ragione, almeno sul fatto che non ti vuoi concedere il meglio per te»

«Hien... ti prego» ripeté sfinita e martoriata dalle sue parole, ma la sua migliore amica non aveva ancora finito: Dalai aveva bisogno di darsi una svegliata.

Hien scosse la testa mentre aprì lo sportello dell'auto: «Amore potevo chiudere un occhio prima, quando avevi l'autostima di un bradipo pigmeo con la vita sessuale inesistente di un panda; ti davo ragione perché l'uccello del tuo ex aveva le stesse dimensioni di quest'ultimo: corto e inutile alla procreazione della specie» incise un altro taglio; il ragazzo della vietnamita la guardò sconvolto ma lei fece finta di niente, ignorandolo, «Ma ora hai fatto checkpoint dannazione! Ti sei trovata un toy boy bravo, divertente, che ti rispetta, ti ama soprattutto e che a letto sa montarti come un tor—» venne interrotta dalla voce del ragazzo al suo fianco: «Tesoro, quando incontrerò il vostro amico dopo la gara vorrei riuscire a guardarlo negli occhi e congratularmi senza imbarazzo, capisci quello che voglio dire?...» bofonchiò con un colpo di tosse.

«Hai paura che potresti fissargli il cazzo in mezzo alle gambe per quanto é grosso mentre gli stringerai la mano?» il ragazzo rischiò di finire nella corsia opposta dopo che le mani persero per una frazione di secondo il controllo.

«Hien!» urlarono in sincrono Dalai e il suo fidanzato per riprenderla. Ma la piccola schiuse la bocca confusa: «Che c'è!? Ho detto la verità! Dalai, sei stata tu a dirmi che ha un telecomando universale lì sotto!»

«Un- telecomando... universale?» balbettò la domanda il ragazzo, in faccia era sbiancato dopo quella rivelazione.

«Amore non ti preoccupare, mi vanno bene anche i mini ventilatori, sanno fare molto meglio con la lingua» Hien gli accarezzò la guancia con un pizzico mentre lui la guardò con la coda dell'occhio, «Mini ventilatori? Intendi che io...?» ripeté a bassa voce e lo sguardo vacuo.

Dalai, dall'altro capo del telefono, scoppiò: «Togli quel cazzo di auto parlante dal telefono, abbiamo finito per oggi» urlò.

«Ma—» si imbronciò, «Devo ancora finire il mio discorso sulla tua infelicità!»

«Assolutamente no! Non finirai un cazzo e—» balbettò incapace di ribattere, «E vaffanculo!» allontanò il telefono dall'orecchio e chiuse il cellulare sotto le lamentele della vietnamita.

Si mise le mani ai alti della testa e urlò ad alta voce; si agitò, dimenò le mani e prese a calci i pedali dell'auto finché un singhiozzò non uscì dalla bocca. Allora si fermò e guardò il suo riflesso spettinato sullo specchietto retrovisore: era orribile. La sua immancabile bellezza naturale, quel giorno, sembrava essere sparita o nascosta dalle occhiaie viola, le guance scavate e pallide, le labbra screpolate e gli occhi lucidi.

Prese la borsa con forza e furia, lasciò che i piedi stridessero sull'asfalto caldo del primo pomeriggio e sbatté furiosamente lo sportello dell'auto, preparandosi sia fisicamente e mentalmente per lavorare durante un giorno importante. Maledicendo tutte le persone che stavano entrando e uscendo dal negozio infernale sotto un caldo così scoppiettante.

Entrò, spinse la porta e si asciugò in fretta una lacrima. Pronta a ignorare per tutto il giorno il cuore e la testa che si scontravano contro il suo stupido orgoglio.

Ne aveva abbastanza per oggi.





ɪ'ᴍ ꜱᴏʀʀʏ, ɪ ᴊᴜꜱᴛ- ɪ ᴄᴀɴ'ᴛ.


Continuava a pensare di avere tutte le ragioni del mondo per stare male, di odiare il proprio lavoro e respingere legittimamente la distanza che aveva imposto Jungkook tra di loro. L'amore, Dio, quella era una parola grossa, da prendere a coppa in due mani ed essere abbastanza vigili e consapevoli del campo minato nel quale si stava viaggiando; era una responsabilità così importante che Dalai non capiva come Jungkook si sentisse anche solo all'altezza di concepirne la volontà.

Era un fottuto idiota di appena diciannove anni e parlava di amore con una spensieratezza di un poeta cinquantenne nato nel 1800. Ma Dalai di cos'altro doveva sorprendersi da lui? L'aveva sempre saputo e colto coi suoi stessi occhi la veridicità dei suoi sentimenti perché per quanto fosse giovane, ingenuo e sprovveduto, Jungkook aveva un cuore d'oro.

Un cuore fin troppo grande e raro che sentiva di non meritare per colpa delle sue indecisioni e della sua incatenante infelicità. Ed era passata appena un'ora da quando aveva attaccato il turno; se ne stava già nascosta in bagno col sudore sulla fronte per il caldo e gli occhi colmi di voglia di piangere, ma erano giorni che piangeva in quel letto troppo grande per lei. Da sola. E farlo ora sarebbe stata solo un'altra inutile tacca da appicciare alla collezione dei rimpianti.

Non aveva più niente al suo interno, giusto la preoccupazione che riservava per Jungkook, consapevole che per tutti quei giorni si era sicuramente rinchiuso in palestra per non pensare a lei, o al fatto di tornare a vivere sotto il tetto di suo padre o, addirittura, impensierito per la gara. Ma poi scosse la testa e si diede della stupida: Jungkook era un impavido scavezzacollo e al contrario di lei non aveva alcuna paura.

Guardò l'ora e finse di concedersi quei pochi minuti a disposizione per ficcarsi in bocca un cracker e mangiare contro voglia, di fatti era sempre Jungkook che le ricordava di fermarsi un secondo e di riempirsi la pancia. Se fosse dipeso da lei e dal ritmo del suo lavoro sarebbe tornata a raschiare nuovamente il sottopeso sulla bilancia ma, a detta sua, cos'altro poteva fare? Erano anni che era depressa: lo stress, mischiato al dolore, le chiudeva la bocca dello stomaco facendole venire il vomito al solo pensiero di nutrirsi. Mentre la voce dentro di lei le sussurrava bastardamente di starsene stesa nel letto e basta, a luci basse e con le persiane grigie tirati giù fino al pavimento, limitandosi ad alzarsi per svuotare la vescica e respirare silenziosamente.

Era passata un'ora da quando era entrata, immaginava già gli spalti riempiti e la puzza di magnesio sulle mani degli atleti a inondare le tribune sul campo. Non aveva mai assistito a una gara prima d'ora, un po' per colpa del suo lavoro e dall'altro perché aveva sempre avuto il timore di affrontare il padre del suo ragazzo. Ma, ripensandoci ora, se ne sarebbe fregata e avrebbe perso anche la voce pur di farsi sentire da Jungkook in mezzo al prato. Desiderava vederlo correre, prendere la rincorsa per frantumare i sassi sulla pista sintetica in tartan e rimbalzare sull'asse di battuta, sicura di assistere al più bel salto della sua carriera atletica.
Elevandosi in un'altezza che dava l'idea di essere priva di gravità, pronto per qualificarsi come il migliore della squadra e un prodigio per l'olimpionica appena avrebbe affondato il fondoschiena sulla fossa di caduta.

Jungkook aveva una carriera sicura tra le mani, mentre lei che cosa stringeva nel frattempo?

Rideva sfacciata, con le lacrime seccate sotto gli occhi, impegnata ad afferrare il cellulare e tornare a collegarsi col mondo; sembrava che il fato volesse parlargli quella volta e mettere in chiaro le cose una volta per tutte perché arrivò, in quel preciso istante, un messaggio da Jungkook dopo giorni che non si faceva sentire.

Lo sguardo si immobilizzò sul momento e il respiro uguale, il cracker rimase a penzoloni sulle labbra secche e aprì lentamente la chat col suo ragazzo. Rivide la miriade di messaggi che gli aveva scritto e lasciati allo sbando nella totale solitudine: gli aveva scritto mattina e sera per sei giorni di seguito, nonostante non avesse ottenuto mai, per centoquaranta quattro ore, nemmeno una risposta.

Per questo non si aspetta un audio da tre minuti e quindici secondi, senza anticipazioni di niente o una scusa scritta per un ripensamento. C'era solo un'icona colorata racchiusa in un rettangolino contenente che cosa? Rabbia? Delusione? Fastidio? O mancanza?

La scritta online sparì immediatamente, un chiaro segno che Jungkook avrebbe chiuso il cellulare nell'armadietto fino alla fine della gara, finché uno di loro non avrebbe torreggiato sul podio o pianto nelle panchine degli spogliatoi.

Lo azionò immediatamente in preda all'ansia e aspettò in un interminabile silenzio, fatto di respiri ed esitazione, perché forse non voleva neanche parlarci con lei o semplicemente non sapeva cosa dirle.

«Ciao noona»

Dalai non riuscì nemmeno a trattenersi, portò le ginocchia al petto e si appiattì contro il muro per non crollare e colorare la parete di acqua salata. La sua voce le era mancata; il noona, il respiro mozzato e il suo tono baritonale, ogni cosa le era mancato.

«Spero che tu stia bene...» iniziò con la voce stretta dalla pressione.

«Ora starai sicuramente lavorando e conoscendoti non ti fermerai nemmeno per mangiare qualcosa. Quindi, anche se sentirai questo messaggio stasera, per favore: cerca di mangiare comunque e tieniti in salute, quando stai male non lo fai mai e mi fai incazzare da morire» si interruppe insicuro e si leccò le labbra, «Sono ancora incazzato da morire in realtà...»

Dalai se lo immaginava: la sua frustrazione, probabilmente, l'aveva obbligato a sedersi da solo sulla panchina di legno, scomoda come sempre, pronto a premersi le dita sulle palpebre per alleviare la confusione che gli ronzava in testa. Mentre la rimproverava amorevolmente per le sue pessime abitudini causate dallo stress.

«Ma ripensandoci bene, credo di non essere mai stato arrabbiato con te. Non riuscirei a farlo: non potrei mai fare niente che finirebbe col farti male per colpa mia e... mi dispiace perché sento di averlo fatto lo stesso» la voce divenne più sottile, sicuramente girava gli occhi intorno a sé, perlustrando la stanza senza interesse mentre la gola gli bruciava.

Dalai sussultò amareggiata: «Sono io che dovrei scusarmi con te, Guk» rispose come se potesse sentirla lo stesso; avvertiva le lacrime tornarle a farle visita intorno agli occhi. Mentre il cuore batteva di già.

«E mi dispiace perché sento che ho sbagliato a metterti pressione su cose che alla fine fanno parte della tua vita» ma Dalai prese a negare con la testa ma non fece nemmeno in tempo a commentare che Jungkook ritornò a mormorare, «perché hai ragione noona a dire che sono un ragazzino immaturo, che finge di fare tanto lo spavaldo credendo di sapere come va il mondo, mentre in realtà non so niente. Niente» Dalai avvertì la schiena scivolarle ancora di più verso il basso: si sentiva il peggiore dei carnefici.

Jungkook non era nulla di tutto questo.

Non lo era mai stato, neanche agli esordi quando veniva rifiutato costantemente da Dalai ed era stata lei a renderlo tale con la sua insicurezza e il suo pessimismo. Era stata lei a macchiare con la sua infelicita, stretta tra le braccia, il manto chiaro di Jungkook.

Credette di crollare ancora di più nello sconforto ma un singhiozzo, che non proveniva dalle sue labbra, la costrinse a mantenere il sangue freddo e farsi attenta.

«Però so solo che ho tanta paura noona» Jungkook iniziò a piangere lentamente, aveva la testa nascosta tra il petto e le ginocchia per isolarsi e singhiozzava in un modo agghiacciante, era innaturale sentirlo così. «Ho paura perché sento che non posso farcela. Non posso saltare e non ce la farò mai a entrare nella squadra, io... ho fatto pena in questi giorni, ho provato mille volte ma il salto non viene, non mi viene cazzo!» nell'audio venne registrato un frastuono metallico, un tonfo che fece preoccupare pericolosamente Dalai.

Doveva aver dato un pugno allo sportello di un armadietto e gemiti di rabbia e dolore si diffusero a bassa voce.

«Ci ho provato. Così tante volte che ho odiato persino saltare Dal, lo sai? Tu riesci a immaginarlo? Odiare qualcosa che prima ti riempiva i polmoni per vivere?» Jungkook scosse la testa, si stava prendendo in giro tra una risata sprezzante di sadica ironia mentre il petto cercava invano di soffocare le fitte dei singhiozzi.

«Non posso farlo» mormorò in risposta la mora, rispondendo al vuoto, «Perché non potresti mai arrivare a odiarlo davvero» ma dentro si sé moriva una parte di lei a ogni gemito di strazio che gorgogliava dalla gola di Jungkook.

«Non ne sono all'altezza, é semplice. É sempre stato semplice ma sono stato io, con le mie cazzate, il mio egoismo e l'attitudine da fottuto supereroe, ad aver rovinato tutto, perché ho scelto di buttarmi senza coscienza dalla scogliera più alta per tuffarmi e vivermi un brivido che non mi porterà a niente nella vita. Avevi ragione a sostenere che non bisogna mai puntare al massimo, per essere felici bisogna mirare al basso; abbassare le proprie aspettative giova, accontentarsi di poco é la cosa giusta da fare perché così la realtà fa meno male di una porta in faccia»

«Ma che diavolo...» Dalai sbarrò gli occhi, le parole di Hien gli piovvero addosso come acido bruciante sulla pelle, affogandola di sensi di colpa perché era solo a causa sua se ora Jungkook rischiava la carriera: di lei, dei mal consigli che gli aveva trasmesso e l'insicurezza che la obbligava a fare una vita miserabile. «No, no e no, Jungkook! Non ti permetto di dire queste stronzate per colpa mia!» urlò contro il telefono.

«Ho desiderato il meglio per me, é una vita che lo faccio, ma cosa mi ha portato? Ti ho persa» uscì una risata triste che portò Dalai a riempirsi di brividi angoscianti, «So di averti persa noona, dal momento in cui ho fallito, dal momento in cui ti ho portata a non fidarti e...» strizzò gli occhi. Dirlo ad alta voce e ammetterlo faceva più male di una scarica elettrica puntata al cuore.

«E dal momento in cui non sono riuscito a farti innamorare di me e della bellissima idea che era in porto per noi. Scusami se ora sto piangendo come un dannato coglione ma realizzarlo e ammetterlo allo stesso momento é deleterio» si costrinse a ridacchiare nel pianto, «é fastidioso persino per un ragazzino immaturo come me»

Dalai non riusciva nemmeno più a parlare da quanta forza pressava nel tapparsi la bocca con la mano e non gridare in preda a un attacco di panico.

«Sono arrivato alla fine di tutto questo: ancora qui, in questo spogliatoio che puzza di fogna e mutande sudate, a fingermi pronto per questa assurda cazzata per le Olimpiadi e cazzo...» si tormentò ancora, «le Olimpiadi! Mi viene da ridere solo a pensarci: cosa diavolo avevo in testa? Chi credevo di essere per qualificarmi nella squadra olimpionica e superare gli otto metri? Non ho mai volato così in lungo in vita mia e mai...» deglutì afflitto, mormorando, «mai ci riuscirò. So di essere bravo, so di avere talento, il temperamento costante, il fisico a mio favore e la stamina giusta per fare il salto in lungo, ma non basta noona. Non basta. Non posso più stare tra le nuvole mentre voi state lì, coi piedi per terra a conseguire la giusta normalità, a guardarmi fallire per un sogno che non si avvererà mai. Non voglio più sognare»

«Basta» ripeté Dalai grossolanamente, inghiottita da quell'incubo. Basta Jungkook.

«Non voglio più farmi male. Ti guardo affrontare la vita e ho paura di finire con l'odiare persino i secondi che impiegano le mie palpebre ad aprirsi ogni mattina. Perciò é meglio se lascio cadere questa utopia ancora prima di diventare completamente cieco per colpa dei miei sbagli»

«Tu non centri nulla con tutto questo Jungkook, non farti questo» bisbigliò priva di forze.

«Mi sforzerò di vederla come un incentivo, ecco, non so se mi hai capito. Anche per non commettere più errori, consapevole che continuerò a farne tanti altri...» e ridacchiò con le lacrime agli occhi, scosse la testa dove i fili dei capelli si appiccicavano alla fronte per colpa dell'emozione.

Ma Dalai non fece in tempo a mostrarsi contraria poiché si sentì in sottofondo una voce maschile, arsa per il caldo e dall'agitazione, che chiamava Jungkook da lontano. «Sei pronto? Devi entrare in campo e riscaldarti le ginocchia per la rincorsa» era lontana, probabilmente era anche al di fuori della stanza. Jungkook lì per lì si zittì e respirò lentamente per darsi un decoro; si schiarì la voce: «Sì coach, mi dia un secondo e finisco di chiudere le mie cose»

«Hai due minuti Jeon, poi ti voglio pronto con il culo sul prato»

Mormorò un sì silenzioso, mentre Jungkook riportò gli occhi sul telefono ancora in funzione, accortosi di essere arrivato al terzo minuto del messaggio vocale. Perciò si schiarì la voce e pensò alla conclusione.

«Devo andare ora. Inizia il mio girone e non ho ancora trovato il coraggio di dare la cattiva notizia al coach e lasciare la squadra anche se... non é facile. Sono combattuto. Sono incazzato con me stesso, molto, perché il me impavido e stupido non avrebbe mai mollato senza nemmeno provare. Eppure eccomi qua, noona, a fallire. A fallire come tutti quanti. A fallire in un modo tremendamente facile. A fallire coi piedi per terra, appoggiati all'erba, sono diventato come gli altri e guarderò chi merita veramente di volare; starsene tra le nuvole e puntare alla cima non fa per me» il tono scivolò senza increspature, già imbevuto di dolore ma mascherato dall'ultima risata fittizia della giornata, «almeno non ti farò più del male, perché ti amo immensamente e mi basta questo. Mi basta guardare chi ce la fa dal basso se sono insieme a te, é un dolore che vale la pena portare. Non mi serve a niente stare tra le nuvole se tu non sei con me, Dalai, in questo sogno»

Perché ti amo così tanto noona che il bello si annulla, il sogno sfuma e diviene ragione di te. Parti di te; e dalle nuvole, mi immergo in un mare che di sapore porta il tuo nome e l'odore i tuoi capelli. E il tocco, i tuoi baci.









ᴀɴᴅ ɪᴛ'ꜱ ᴀʟʟ ᴄᴏᴍɪɴɢ ʙᴀᴄᴋ ᴛᴏ ᴍᴇ

Come un violento schiaffo in faccia, un ricordo felice riaffiorò, tra gli incubi di Dalai, tornandogli in mente per ricordare.

Era la festa di inizio primavera, una sera di aprile e l'aria madida di pioggia umida, quando gli amici di Jungkook conobbero per la prima volta Dalai in un modo che non conciliava l'imbarazzo tra età e idee totalmente campate a caso dalla compagnia dell'atleta. Quando ancora la pioggia batteva sui ciliegi, nelle strade del centro, un gruppo di amici mal assortito si rifugiò quasi obbligatoriamente in un karaoke di Gangnam e Dalai, appiccicata alla schiena enorme del suo ragazzo, desiderò sparire.

Era stata un'idea di Jungkook — un'idea abbastanza del cazzo — quella di infrangere il muro tra lei e il circolo della cricca di facce da scemi in un convivio che aveva solamente l'aria del paradossale, anzi, un viaggio su Plutone sembrava una cosa ben più realizzabile che passare interminabili ore con un gruppo di adolescenti arrivati alla frutta.

Ma come poteva dirgli di no dopo che i suoi amici avevano insistito fino alla nausea per conoscerla? E con tutta la pazienza del mondo: perché cazzo in un karaoke a Gangnam? Non le pesava il fatto che il giorno dopo avrebbe dovuto ricoprire il turno dalle otto alle due, l'annoiava il pensiero di dover conoscere gente nuova con cui non aveva bisogno di condividere altro — era già obbligata a farlo con l'ossigeno.

Fatto sta che conobbe in vesti più normali e consone Park Jimin (l'idiota che ammicca), un affascinante ventenne con il potere di far calare le mutande a chiunque con una sola occhiata felina, abbastanza educato all'inizio da presentarsi senza un coro di risatine da circo sotto i baffi, a differenza degli altri. Avrebbe acquistato più punti accettazione/decenza se non avesse tentato di provocarla con un tono husky da porno divo.

Il saluto passò dopodiché a Jane (la bimba inquietante scappata da Walt Disney); in realtà la scoprì vispa e intelligente. Troppo intelligente per accodarsi a quei cromosomi mancanti e mentalmente deviati a parer suo: Jane aveva una profondità filosofica molto personale e intricata, faticava a stento a vederla come una classica diciottenne perché era vittima dei supplizi della Chaebol.

In realtà, il gruppo di Jungkook, era pieno di mezzi Chaebol; per quanto potesse sembrare irreale, quel collegamento si aggrovigliava grazie al loro status sociale di alta borghesia e doveva essere una cosa comune nella loro vecchia e prestigiosa scuola
privata. Erano tante persone che vivevano la propria vita come Jungkook, con l'amara consapevolezza che prima o poi il divertimento da fancazzismo sarebbe finito per sopraggiungere un dovere inimmaginabile.

Jungkook gliel'aveva anche accennato, tra i bisbigli soffocati a cena con i noodles in bocca, che tra di loro c'era chi se la viveva meglio, sperperando e ostentato la propria posizione come i due idioti con la faccia da scemi, e chi peggio come Jimin. Dove tra problemi famigliari e personali aveva perso un anno di scuola, costruendosi una maschera da non-mene-fraga-un-cazzo in modo da non soffrire. E Jungkook lo capiva, perché anche lui rientrava nel gruppo di chi se la viveva peggio.

Mentre Jane era un mistero per loro, non parlava mai dei suoi problemi e non ti faceva entrare nella mente neanche sotto tortura; quella sera, quando la conobbe per la seconda volta, fu il motivo principale per il quale Jimin si sarebbe meritato un pugno sui coglioni dopo aver definito Dalai una cougar-noona, essendosi accalappiato un toy boy come testa di nuvole.

Jane lo fulminò in un'occhiata talmente letale da far accapponare la pelle e Dalai pensò, ingenuamente, che tra i due ci fosse una sorta di relazione. Forse Jimin era quello che poteva sapere meglio qualcosa su di lei, più di chiunque altro. Ma aveva toppato alla grande e interagendo con la chimica di entrambi aveva capito che tra i due il coglione era Jimin: non vi era altro se non una... strana sintonia spacciata per amicizia.

E Jane poteva essere vispa, furba ed enigmatica quanto voleva, ma Dalai era nata donna ed era anche sufficientemente empatica da notare il fastidio velato che cercava di nascondere ogni volta che Jimin ci provava con le donne o con chiunque respirasse intorno a lui.

Poi c'erano Kim Junho (l'idiota con la pubertà tardiva) e Lee Rian (faccia da scemo) due soggetti che all'incirca condividevano lo stesso quadro del podio per i futuri casi umani destinati a uscire i propri uccelli nei DM di Instagram. Se non parlavano e si limitavano semplicemente a respirare potevano definirsi quasi gradevoli. Ma erano un paio di rospi che Dalai poteva ingoiare e sopportare pur di affrontare quelle dannate ore al karaoke e ammazzarsi di soju da sola con Jimin — gli unici a essere completamente maggiorenni del gruppo.

Consolidata questa triste realizzazione, Dalai sprofondò in uno dei tanti divani della sala sotto i lampi primaverili del temporale rocambolesco. La piega d'intramezzo del sofà sembrava deturparle il culo fino a risucchiarla per un oltre mondo diverso dal presente. Magari sarebbe stato classico e più confortevole per lei, sicuramente, anche se ogni cosa sarebbe stata meglio che assistere all'idiota con la pubertà tardiva sbattere un light stick, lontanamente originale, delle New Jeans come un bambino di cinque anni alla prima lezione di tennis.

Ah e il bambino ovviamente doveva essere cieco per equipararlo.

«Non ti piace molto il karaoke vero?» da sotto le luci blu e viola della stanza insonorizzata, Jane la squadrò con un sorrisino interrotto da una cannuccia stretta all'angolo della bocca. «Da cosa l'hai capito?» le chiese ironica, con la voce abbastanza alta da surclassare I Am The Best delle 2NE1 rivisitata da faccia da scemo e Jimin.

«Dal momento in cui Rian ha proposto questo locale» le rispose, azzeccandoci in pieno. Dalai sollevò un sopracciglio e le fece lei una domanda puntigliosa: «Risulto una stronza impertinente se ti ripropongo la stessa domanda? Mi sembri l'unica normale» e lo disse apposta perché persino Jungkook l'aveva mollata lì da sola per sganasciarsi di risate e patatine davanti allo schermo.

«Hai ragione» accennò con il capo, scuotendo il caschetto moro, «il karaoke non mi fa impazzire. Mi sanguinano le orecchie per la maggior parte del tempo e la stanza puzza di testosterone e sudore dopo trenta minuti»

«Per l'amor del cazzo» imprecò a bassa voce e in dialetto, «É disgustoso»

Jane rise e le diede ragione: «Lo é, ma alla decima volta te ne fai una ragione e sopraggiunge l'istinto di sopravvivenza. L'adrenalina ti tappa il naso»
«Decima volta?» sbottò scioccata, «Jungkook deve passare sul mio cadavere per riportarmi qui. Decima volta un cazzo»

«É forte questo tuo temperamento» disse interessata e divertita, allungò un gomito sullo schienale del divano sotto un'occhiata confusa di Dalai. «Mmh?»
«Il tuo dialetto. La schiettezza e l'attitudine di Jeolla che c'è in te, é figo. Hai molta personalità»

«Oh,» scioccò la lingua senza parole, «grazie?» le stava dicendo che era divertente per i suoi modi grezzi, da scaricatrice di porto e campagnoli?

«Rilassati» la tranquillizzò con un aplomb raffinato e invidiabile, «É un dettaglio importante che ad oggi, certi individui, tendono a dimenticare in una donna» lanciò uno sguardo penetrante ai quattro che ciondolavano in mezzo alla stanza, puntandolo alla schiena ampia del penultimo sulla destra, «si concentrano ormai solo su qualità discutibili. Ma senza farne una questione di stato, col rischio di trasformare questo posto in una sala di dibattito, prendi le mie parole come un sincero complimento» staccò gli occhi con un'ombra vuota e finse un sorriso, attaccandosi al bicchiere analcolico, «Jungkook é un ragazzo fortunato ad averlo colto»

«Lo dici quasi come se averlo fosse un problema. Anche tu hai sembri avere una personalità particolare, quindi non è lo stesso un complimento?» la domanda le uscì dalle labbra senza pensare. Di fatti sbarrò gli occhi e si maledì internamente, sentendosi ancora più stupida dopo aver visto la mascella sottile di Jane tendersi per un secondo.

La più piccola finì il suo sorso senza guardarla, posò il bicchiere sul tavolino e tornò a fissare un punto a caso. Dalai si sentì in colpa per averla turbata così tanto con quella domanda: «Scusami. Sono stata indelicata»

«Non lo sei stata» la guardò con uno strano sorriso, un po' flebile, «Sei razionale, un po' come me. Anch'io faccio questo effetto agli altri, é normale. Non scusarti»

Dalai annuì per cortesia e si guardò le mani strette sopra i jeans: quella sera stavano capitando solo canzoni vecchie di qualche decennio, sbaragliarono anche una canzone dei BigBang con un urlo goliardico e salti sgraziati.

«Posso... farti una domanda Jane?»
«Dipende dal tipo di domanda» le rispose con un ghigno. Dalai arricciò le labbra in un broncio e protestò: «Almeno tu dammela una soddisfazione questa sera!»
«Va bene! Va bene! Spara»
«Perché Jane?» le chiese, «Perché questo nome?»
La mora ridacchiò sottile e socchiuse gli occhi: «Mi dispiace ma questa é una domanda alla quale non posso rispondere. Per lo meno non in questa sera e né in questa storia»

Dalai ruotò gli occhi al cielo ma non insistette, perciò gliene fece un'altra.

«Allora perché vieni qui, al karaoke, se non ti piace? Stando con persone estremamente diverse da te, non ti senti fuori posto? Sei praticamente perfetta»

«Dalai-ssi... essere diretti non giustifica l'altro a essere insensibili» la ribeccò con un'occhiata divertita, cosa che portò anche Dalai a sorridere. «Ma me lo devi: scegli a quale delle due rispondere»

Jane emise un finto broncio: «Sei più furba e sadica di quanto mi aspettassi»

La mora scavò un sorriso sotto i baffi e ringraziò che Jane non avesse il potere di leggere nel pensiero o rimarrebbe sconvolta da quanto sadica poteva diventare a letto con Jungkook.

«Lo prendo come un complimento»

«Già» gorgogliò Jane, facendo scemare il divertimento dal viso, «Comunque, va bene. Risponderò alla tua domanda»

«A quale?» si drizzò curiosa.

«Alla seconda» continuò sentendo la gola secca e prese un altro sorso, «al perché continuo a starmene qui nonostante io non centri nulla. In qualche modo mi sento più viva e presente. Non fraintendermi, amo starmene per i fatti miei, sono un'amante della solitudine e non ho alcuna sindrome dell'abbandono. Però, stando con loro, questo rapporto mi fa sentire meno schematica e una persona normale con un cervello altrettanto normale, senza aspettative predilette dall'ansia. Quando tuo padre é un amministratore delegato intrappolato da sistemi di numerazioni da tutta la vita, rende il proprio cappio al collo anche il tuo ed é difficile uscirne illesi. Come lo è... tornare a essere quello che si era prima»

Quella fu la prima volta che Dalai percepì la vita in negativo di un Chaebol. Non era così stupida da pensare che i problemi coinvolgessero solamente le persone normali come lei e aveva visto Jungkook piangere almeno un paio di volte da solo per colpa di suo padre, ma la sua non era nemmeno una famiglia così facoltosa come quella di Jane. Aveva osservato attentamente i capi pregiati agghindati intorno alle sue spalle piccole e sottili, le unghie perfettamente curate, sentito l'odore dei migliori cosmetici sulla sua pelle da un metro di distanza e l'eleganza innata con la quale inzuppava il suo lessico impeccabile. Jane proveniva da un rango così elevato che era impossibile per gli altri non accusare disagio.

Erano dettagli che dopo tanti anni aveva imparato a vestire come un'abitudine e non dipendeva più dal suo volere; le era stato impartito il fondamentale ruolo di catturare gli sguardi degli altri per imprigionarlo con la sua ricchezza, tenendoli lontani dai suoi occhi privi di emozione.

Così era impossibile notare quanto fosse triste in realtà.

«E stando con loro ci riesci, non é vero?» le chiese in punta di piedi, provando un forte senso di tristezza per lei che aveva solo diciotto anni ed era già incatenata al suo cognome.

Jane annuì lentamente, apprezzando infinitamente il distacco emotivo di Dalai in quell'istante: era sufficientemente sveglia da non farle morali inutili su quanto fosse fortunata ad avere una vita costruita nella ricchezza e, al contempo, ingrata per lamentarsi e basta.

E Dalai sospettava che Jane avesse imparato a tenersi dentro tutto il male per sé e non sentirsi in qualche modo sminuita da chi era meno fortunato di lei, perché anche se aveva l'oro al posto del pane era comunque umana e meritava di piangere in silenzio per stare meglio.

La capiva, perché Dalai era uguale a lei su quel fronte e fu come vedersi in una vita speculare; uno specchio nel quale poteva vedere la vita che aveva sempre desiderato e sognato con un finale inaspettato. Perché la vita aveva un retrogusto dolce amaro e raramente ti consentiva la felicità senza pagare in pegno almeno una cospicua sofferenza.

«Esatto. É divertente se pensi al fatto che prima del piano di Jimin, su come farvi riappacificare, io e Jungkook non ci parlavamo neanche. É grazie a loro se ora sto meglio. Sono amici sui quali posso contare» mormorò con un mezzo sorriso.

L'altra rimase senza parole: «Davvero? Vuoi dire che non conoscevi nessuno di loro prima di quel momento? Neanche Jungkook?»

«Eh già» ridacchiò, «Esilarante vero?»

«Abbastanza» disse dandole ragione, «Quindi il merito va principalmente a Jimin...»

«Sì, mi aveva convinto a fare quella cazzata e io mi stavo annoiando, ecco perché ho accettato. Sapevamo entrambi che Jungkook non sarebbe riuscito a toccarmi neanche sotto tortura» ribadì mettendo le cose in chiaro con Dalai: il loro era stato un appuntamento finto.

«Ma voi... Lui...» non sapeva come inoltrarsi nel discorso, «C'è qualcosa tra te e Jimin?» le scappò dalle labbra ma bastò lo sguardo vitreo di Jane a farla raggelare.

La vide mettersi una ciocca fuori posto dietro all'orecchio e pungolarsi la guancia con la lingua mentre tornava a guardare Jimin da lontano. Ancora impegnato a saltare, a bere e cantare con il resto dei ragazzi, per accorgersi di un paio di occhi da cerbiatto acquosi addosso.

«Tu mi piaci Dalai-ssi, provo grande rispetto nei tuoi confronti» ma il tono con cui iniziò a parlare calò con freddezza, «e rendi Jungkook felice, quindi la mia stima può solo che aumentare e apprezzo quello che fai per lui»

«Grazie... io—»

«Ma se c'è una cosa che apprezzo con difficoltà, anche con le persone che fondamentalmente non c'entrano nulla con questa storia, é che mi si chiedi di lui quando é palese che esiste una connessione, per quanto questa sia sconosciuta e intricata. So che io e te andremo d'accordo in futuro, perché in un certo senso siamo molto più simili di quanto pensiamo, però non introdurti in qualcosa che io stessa non voglio accettare. Non cercare di leggere questa pagina della storia» la guardò e si sforzò di sorriderle appena, minimizzando il problema, «é il capitolo più noioso del libro. Ci sono pagine ben più interessanti di questa»

Sentì un brivido percorrerle il retro della schiena fino alla punta della testa, la freddezza con cui pronunciò quella frase insieme al palese astio per la storia — come l'aveva chiamata lei — la stordì al punto da fare marcia indietro e sgonfiare il suo portamento sicuro. Era tipico di lei non farsi mettere i piedi in testa da nessuno, specialmente se questa era una ragazzina di appena diciotto anni, ma sentiva di doverlo accettare e restarsene al suo posto.

«Ma certo» pronunciò tranquillamente, «Rispetterò il tuo desiderio e se mai volessi un giorno... affrontare il capitolo più noioso del libro con me, sentiti libera di farlo. Magari lo troverò interessante»

Sul suo volto comparì un sorriso sincero e lo apprezzò, «Grazie Dalai-ssi»

«Chiamami semplicemente per nome, il formalismo lo faccio usare solamente a Jungkook quando mi rompe i coglioni»

«Beh!» liberò una risata divertita, «Allora preparati perché é arrivato quel momento della serata»
«Che cosa vorresti dire? Quale momento?»
«Il momento più divertente della storia, uno dei miei capitoli preferiti dove é grazie a lui se vengo al karaoke per sentirli cantare»
«Oh mio Dio, non vorrai dirmi che...»
«Esatto. É arrivato il momento di Jungkook e il suo assolo»

Una cosa era sicura: se Jungkook non si fosse intestardito a dieci anni con l'intenzione di iscriversi ai corsi juniores di atletica leggera, avrebbe di sicuro accettato l'idea di sfondare nel mondo della musica e diventare un idol. Anche se quella non era la serata giusta per cantare canzoni serie — in realtà non lo era mai se usciva da solo con la cricca — era comunque calata la mezzanotte e una palla da discoteca luminosa aveva iniziato a brillare da un momento all'altro per dare un sound anni 80'.

«Ma che cazzo...» sussurrò con la bocca completamente spalancata mentre i due idioti, che affiancavano Jungkook, iniziarono a spalleggiarlo tra gli schiamazzi.

Provò a parlare, per chiedere qualche informazione, ma Jimin zittì tutti quanti mettendosi in mezzo alla sala; i capelli luccicavano di sudore mentre le labbra scintillavano ricche di saliva dopo essere state inumidite con la lingua. Al suo fianco, Jungkook ansimava frenetico ed era palese che in lui, come in tutto il suo corpo costruito geneticamente per mangiare in testa ai comuni mortali, fosse pieno di adrenalina.

«Testa di nuvole!» lo chiamò a gran voce dal microfono per poi indicarlo, «É giunto il tuo momento!» e i due idioti strillarono come scimmie in attesa di un paio di banane sotto il naso.

Ma Jungkook, con un sorriso divertito sul volto e i con capelli appiccati leggermente sulla faccia negò con la testa: «No, oggi no Jimin-Hyung. Ti ricordo che abbiamo un ospite speciale e non voglio diventare single stasera»

«Single?» ripeté Jimin sghignazzando e guardò Dalai con la coda dell'occhio, «Andiamo, al massimo la nostra cougar-noona ti lascerà a secco»

«Jimin!» lo riprese Jungkook con uno sguardo tagliente mentre lanciò uno sguardo di scuse a Dalai, imbarazzata e chiaramente innervosita seduta sul divano accanto a Jane. «Non chiamarla così, te l'ho già detto»

«Ah ecco, il problema era il cougar-noona e non il fatto che non inzupperai il biscotto» continuò con il suo solito tono impertinente e malizioso facendo rotolare dalle risate i due idioti.

«Jimin» lo fulminò Jane seccata, «Stai esagerando»

«Dai ragazzi un po' di umore! Siete troppo seri—»

«Jimin!» alzò la voce Jane e Jimin sembrò chiudere finalmente la bocca e guardarla con gli occhi sbarrati, «ti ho detto di smetterla. Chiudi quella bocca» e Jimin, sotto gli occhi di tutti, compresi quelli curiosi di Dalai, sembrò fare un lungo sbuffo scocciato, ma acconsentì.

«Dio, che rompi palle... lascio la palla a te testa di nuvole» mollò il microfono sul petto di Jungkook con una sonora pacca e sprofondò accanto a Jane.

«Qualcuno può spiegarmi che cosa sta per succedere?» chiese a denti stretti Dalai, ben mascherata con un falso sorriso perché aveva una gran voglia di prendere a pugni il migliore amico del suo ragazzo.

Jungkook si mise a fissarla con le guance ustionate dall'imbarazzo: «Vogliono che io canti»
«E quindi?» Dalai non coglieva il problema, «Hai strillato finora, lo fai da tutta la vita, cosa cambia dalle altre volte?»
«Ma noona...» borbottò mangiandosi le parole offeso, «Pensavo che ti piacesse il mio stile»

Dalai fece ruotare gli occhi al cielo e tuonò: «Yah! Jungkook, tagliamo la testa al toro e sputa il rospo!»

L'idiota con la faccia da scemo si mise in mezzo: «Si piscia addosso perché non vuole cantare la sua canzone preferita davanti a te» ma la mora storse la bocca scettica.

«Cristo!,  guardare i vostri flaccidi culi che ballano le Girls' Generation era imbarazzante» disse smontando tutto l'entusiasmo di Rian e tornò a fissare Jungkook, «Che differenza c'è dalle solite cretinate che metti dalla playlist trap coreana di Spotify? Questa non insulta la madre di nessuno?» domandò con lecita ironia sotto le occhiate divertite di Jimin.

La cougar-noona ci sa fare con le parole.

Ma Jungkook era troppo imbarazzato per risponderle con sincerità, perciò Jimin cambiò canzone col telecomando e lo puntò dritto sul sensore digitando una canzone in inglese: «Non credo che Céline Dion si trovi in quella playlist noona, non é una che insulta le madri»

Oh mio Dio.

«Céline che!?—»

It's All Coming Back To Me Now era ormai partita e tutti loro, compresa Jane stessa, si alzarono gridando e muovendo le braccia in alto in un lento ondeggiamento. Accesero le torce, misero occhiali da sole nonostante fosse notte e iniziarono a farfugliare le prime parole del testo; mentre Jungkook scoppiava a ridere, grato del fatto che avessero provato a farlo sciogliere e godersi appieno il suo momento.

Cosa successe dopo fu un enigma. Jane, in precedenza, disse che possedeva qualsiasi cosa volesse o qualunque diamante incastonato sull'oro rintanato nelle cassaforti della sua dimora; perciò Dalai si era chiesta che cosa ci facesse lì dentro, in quel tugurio di salatini scadenti e unti, sotto finte luci stroboscopiche di una palla da discoteca che girava in mezzo alla sala, con persone che a malapena parlavano un coreano grammaticalmente perfetto e un fan boy di Céline Dion grosso come un armadio.

Niente andava bene, Dalai lo sapeva, lo capiva e non poteva respirare un'aria diversa dalle sue auto conclusioni, quindi: che cosa spingeva la perfezione a cercare un'imperfezione così decadente, anzi, umana?

Umana.

Sbarrò gli occhi, contemplando con la vista e la memoria del cuore quanto di quel momento divenne prezioso per lei.

Jungkook stava cantando una canzone del vecchio millennio con una interpretazione intima; i ragazzi si erano appoggiati alle sue possenti spalle per affiancarlo, pronti a ridere in un inglese che di anglosassone aveva ben poco e forse inesistente, ma cosa importava? A chi importava in realtà?, quando in mezzo a te avevi il supporto e il calore umano di un gruppo che ti mostrava parti di vita che pensavi di odiare?

Prendeva note giuste e stonava qualche volta in punti irraggiungibili, date le doti canore della cantante canadese, eppure rideva con gli occhi lucidi mentre sentiva il testo — tutt'altro che semplice — invadergli il cuore, sbracciando e passando il microfono ai suoi amici. Dalai girò lo sguardo verso Jane e la vide meravigliosa nel suo sorriso, con gli occhi lucidi e una spensieratezza mai sentita addosso nonostante non facesse la sua vita.

E durante il ritornello, di quella che di lì andare divenne la loro canzone speciale, Jungkook si girò a guardarla per allungare un braccio e farle cenno di venire da lui: perché lui gliela stava appena dedicando.

Baby, baby
If I kiss you like this
And if you whisper like that

Sussurrò e sentì la mano del ragazzo afferrare la sua quando lo raggiunse al centro in mezzo a loro, come parte di quel gruppo anche se era la prima volta che li vedeva. Questo era il bello, la meraviglia dell'essere umano. Abbracciati al tutto. Confortati dal niente. Ma spensierati dalla forza dei loro giovani cuori che, nonostante tutto, non volevano mollare.

Giovani che potevano godersi solamente una serata del venerdì sera a Gangnam per dimenticare chi fossero in realtà.

E con un cuore che Dalai pensava di non aver più da tempo ormai. Eppure ora stava battendo sotto le scosse livide delle corde vocali di Jungkook che vibravano come flussi fino al petto ampio.

It was lost long ago, but it's all coming back to me
If you want me like this
And if you need me like that

Jungkook la stringeva forte al suo corpo con l'intenzione di dedicarle la parte migliore di sé: quando si sentiva triste lui sarebbe stato lì accanto a lei, quando cercava il respiro dopo l'inferno lui sarebbe stato il suo vento, quando si sarebbe sentita pronta ad amare davvero lui sarebbe stato l'uomo che meritava.

It was dead long ago,
but it's all coming back to me

It's so hard to resist,
and it's all coming back to me

Anche da lontani e anche se il futuro avrebbe deciso di dividerli un domani, erano sicuri che un amore così grande sarebbe rimasto indissolubile nel tempo. Angoli di foto che non si sfocheranno mai perché al solo ricordo di quelle mani strette alla sua vita, i baci giovani delle sue labbra rosee, le notti passate ad amarsi e il rispetto che avevano l'uno per l'altra, attimi che sarebbero rimasti impressi come il fuoco sulla pelle.

I can barely recall, but it's all coming back to me now.

Iniziò a cantare anche lei, sorridendo sulla spalla dell'uomo che stava imparando ad amare mentre Jane venne stretta vicino a lei e tutti gli altri ammucchiati in un cerchio.

Questo era un inno per loro: per Jungkook era la benedizione del suo amore e del bene che augurava a Dalai. A lei che meritava di ricordare solo cose belle, di guardare il sole senza chiudere le palpebre e annusare il profumo della primavera fresca e bagnata. Di chiedere di più, di pretendere di più da lei stessa senza mai accontentarsi del minimo. A lei che, come tutti loro, meritava di avere un motivo per amare la grezza e spartana umanità senza includere la perfezione per almeno un venerdì sera sperduto in un karaoke di Gangnam. Un incentivo a ricordare che tutto, al solo ricordo, sarebbe tornato indietro da lei per farla stare meglio e che niente sarebbe stato, in realtà, impossibile da superare se vissuto insieme e senza paura.

But it's all coming back

Come quella notte piovosa di primavera, tra lampi e maldicenze, tutto poteva tornare in mente.

And if you do it like this
It's all coming back to me now.

Tutto poteva far tornare in mente il motivo dell'amore di Ki Dalai nei confronti di un giovane immaturo e innamorato come Jeon Jungkook.

E come previsto tornò lentamente a farle visita, accarezzandola e dandole forza.








ᴡʜʏ?


Pensava di fare una cosa figa — cosi aveva creduto.

Guardava la terra rossa della pista con il vomito a puntargli la gola e pronto a fargli fare la più pessima della figure in campo. Era un atleta agli esordi del professionismo e sentiva comunque la vescica scoppiargli sotto le mutande come a dieci anni, in attesa a bagnargli le palle davanti a tutti.

Non guardava nemmeno i suoi compagni di squadra praticare la dura rincorsa di quaranta metri in mezzo al centro dello stadio, né lo stacco, né il volo e l'atteso atterraggio definitivo, sentiva di non avere lo spirito per fare niente.

Il suo coach accanto a lui imprecava e abbassava il cappellino sulla fronte per mascherare il disappunto che provava verso i suoi ragazzi: voleva portare una squadra alle qualificazioni ma di questo passo avrebbe portato un bel pugno di niente e infortuni. Non erano pronti, nessuno lo era tranne il bastardo ragazzino seduto nella panchina dietro di lui caduto in catalessi da quando era uscito dagli spogliatoi.

Coach, non è che può farmi saltare per ultimo? — lo pregò all'inizio senza entusiasmo sotto il suo sguardo scettico. Ma con un sospiro aspro glielo permise e lo ficcò in panchina.

Non era da lui avere quell'atteggiamento; aveva paura perché a malapena parlava o interagiva durante le sue provocazioni per smuoverlo a dare il meglio. Jeon Jungkook, la sua punta d'oro e cima d'orgoglio, sembrava una cellula morta retta dalle ginocchia flesse in angolo retto.

«Jeon! Dannazione!» urlò dopo aver visto uno dei suoi ragazzi lì nel mezzo a chiedere un time-out perché sentiva le gambe molli, il coach si girò verso l'altro che aveva appena chiamato: «Ti sei reso conto che stai per gareggiare in una delle gare più importanti della tua vita o no!?»

«Sì lo so coach» biascicò senza distogliere gli occhi da terra. Da quella prospettiva si potevano vedere le prime goccioline di sudore a scivolargli giù dalla cute corvina a causa del torrido caldo che puntava su di lui.

«Lo sai?» ripeté incredulo e una risata finta si spezzò, «Lo sai? E allora perché ti vedo—» si morse le labbra afflitto fermandosi, strinse gli occhi lucidi ed esausti e si piegò in basso per raggiungerlo e scuotergli le spalle, «Perché non ti vedo saltare come un coniglio a causa dell'adrenalina? A sostenere i tuoi compagni quando falliscono? O a—»

«Perché non posso farlo signore» usò per la prima volta, da quando si allenava con il coach, la parola con il non.

Impossibile — schizzò in testa il coach.

«Perché? Perché non puoi farlo? Ti sei fatto male!?»

«Perché non sono capace di farlo» pronunciò, mentre sentiva gli occhi farsi ancora lucidi e si vergognava di farsi vedere così dall'uomo che lo aveva spronato a diventare il migliore da quando era un bambino. Colui che gli aveva insegnano a non mollare mai nella vita e ora gli stava dimostrando l'esatto contrario.

Il coach era rimasto visibilmente scosso da quella confessione; la bocca schiusa era un chiaro di segno di come i collegamenti neurali fossero in procinto collegarsi per emettere una risposta.

«Jeon che stai dicendo?» uscì abbastanza indelicato ma era plausibile da parte sua sentirsi così spaesato.
«Quello che ho detto» continuò Jungkook alla fine, «Non posso farlo»

Ci fu un silenzio rotto dallo spiker della gara e dei giudici che nel frattempo presentavano i concorrenti delle altre leghe. Il coach si alzò con le mani dentro le tasche e lo guardò dall'alto: «Alzati» gli disse, «alza la testa e guardarmi» ordinò ancora.

Jungkook strinse le palpebre e si morse nervosamente le labbra; sollevò il collo e incontrò gli occhi persi e cupi del coach. L'uomo studiò le lacrime ormai asciugate intorno ai bulbi da cerbiatto del suo allievo, notando quanto fosse stanco e attanagliato da un tono cagionevole in volto.

«Stai dicendo che vuoi ritirarti dalla gara?» domandò senza peli sulla lingua.

Sentirlo da un'altra persona faceva ancora più male per Jungkook, a fatica riusciva a sostenere la sua auto disapprovazione figuriamoci quella del coach.

«Non posso farlo»

«Cazzate! Fanculo a queste stronzate, ti sto chiedendo se vuoi ritirarti dalla gara e non se sei in grado di farcela o no!» scattò alzando di un tono la voce e questo portò Jungkook a dare di matto.

Si alzò in piedi, «Cosa importa!? É la stessa fottuta cosa!» esordì maleducato sovrastando il coach con la sua altezza. Ma il vecchio aveva visto temperamenti più duri e sbarbini dei suoi: stava semplicemente frignando.

«Togliti quel ciuccio dalla bocca Jeon quando parli con me» lo rimise in riga e lo vide, in quegli occhi furenti di frustrazione, perdere per qualche secondo la sua sicurezza, «Non é la stessa cosa: un conto é avere le palle e le idee chiare sulle proprie decisioni. Vuoi ritirarti? Va bene, fallo» indicò col braccio il lato vuoto per andarsene e Jungkook lo seguì con lo sguardo in silenzio.

«L'altro é essere idioti al punto da rinunciare a un'occasione del genere che capita una solo volta nella vita Jungkook» lo chiamò per nome e gli mise un dito davanti agli occhi, «Una sola, perché predici il tuo insuccesso da dei capricci ormonali mentre sono qui con te per cercare di non farti fare la cazzata più grossa della tua vita, invece di consolare il fallimento di tre quarti della squadra»

«Non sono capricci ormonali» ribatté stringendo i pugni.

«Ma hai paura» lo zittì con un sorriso canzonatorio, «Da quando ti conosco non ti ho mai visto avere paura in questo sport quindi, ora non starò qui a chiederti che cosa ti abbia portato a pensare a questa grossissima stronzata del "non posso farlo". Ne parleremo un'altra volta con più calma e sarò il primo a darti una mano, ma non puoi decidere di non farlo senza nemmeno provarci. Non a te, merda» gli mise una mano sulla spalla mentre guardava gli occhi di Jungkook versare le prime lacrime di frustrazione, «Non al campione più forte che potrebbe seriamente vincere l'oro un domani alle Olimpiadi» il coach fece scivolare la mano e lo guardò disperato.

Non sapeva che cosa fosse successo a quel ragazzo ma non poteva privarsi di ciò che era destinato a fare: a vincere e a volare.

Jungkook fece per mormorare qualcosa ma venne bloccato da una voce in sottofondo; mano a mano si elevava così tanto da sopraggiungere al coach e quest'ultimo allungò gli occhi dietro le sue spalle schioccando la lingua al palato.

«Credo che uno dei tuoi capricci ormonali sia qui, Jeon»

Jungkook vide le labbra del coach muoversi e dirgli qualcosa, ma la mente cercava di registrare quella voce angelica e delicata al contempo, intrisa di disperazione. La sentiva avvicinarsi e pensava: no, è impossibile. Alzò le spalle e girò il volto di tre quarti.

Vide una cascata di capelli loro farsi vicino e sbracciarsi finché non arrivò davanti alle balaustre pubblicitarie che limitavano l'esterno del campo e le tribune piene di gente. Abbassò gli occhi, dopo aver scorso le braccia agitate verso il cielo, guardando infine il volto di chi stava cercando la sua attenzione.

La vide e sentiva come se il respiro fosse tornato a circolare in mezzo si suoi polmoni. Sentiva come gli alberi avessero ripreso il movimento danzante del vento tra le foglie. Sentiva gli altri gridare. Sentiva le suole dei suoi rivali scavare la sabbia durante il rintocco del salto. Sentiva il sole bruciargli la fronte. Sentiva i suoi amici urlare il suo nome dalla cima degli spalti, con lo striscione in suo onore, mentre tutto tornava come prima.

Era bastato ricordare i suoi occhi, la sua voce, il battito del suo cuore perché tutto gli sia tornato in mente. Bastava il ricordo a far riaffiorare la vita.

Dalai aveva rivoltato la stanza del suo spogliatoio circa una mezz'ora prima, lasciando il posto di lavoro appena concluso l'audio, mentre Mira la guardava orgogliosa della sua decisione. Mandò al diavolo tutto e dopodiché si infilò in macchina per raggiungere il suo fottuto ragazzo immaturo.

Piangeva mentre guidava e rideva al contempo pensando a quanto fosse uno stupido idiota. Erano entrambi dei colossali idioti in realtà e si completavano alla meraviglia.

Ci mise più di venti minuti per arrivare allo stadio, superò i limiti del codice stradale con la musica a tutto volume e mollò in un posto qualsiasi la macchina per scappare lungo uno dei tanti padiglioni di quel mastodontico plesso. La luce alla fine del tunnel fu la conferma che fosse nel posto giusto; le grida, lo spiker sportivo e la puzza di magnesio aleggiavano nell'aria proprio come aveva immaginato poco prima.

Guardò in mezzo al campo, nonostante il suo anello elevato, per scorgere Jungkook. Ma c'erano così tanti ragazzi lì dentro che per poco non ebbe un collasso.

Dovette ringraziare Hien perché era solo grazie a lei — insieme alla sua brutta abitudine di tenere il cellulare attaccato alla faccia — se ora sapeva i posti delle tribune. Scese lungo le scale fino al parterre in basso e fu lì che vide Hien, Jimin, Jane e i due idioti scemi, insieme ad altra gente, scuotere le teste preoccupati per le sorti del loro amico.

Si catapultò sudata su di loro, in tenuta da lavoro e con lo sporco tra i capelli, urlando a squarciagola. «Ragazzi!» si piegò per prendere un bel respiro.

Jane la vide e sbarrò gli occhi, seguita da Jimin: «Che ci fai qui?» dissero in sincrono. Hien la guardò vittoriosa schiacciata al sedile con soddisfazione.

«Deve essersi svegliata» esordì al posto suo e prendendola in giro, «Credevo che ti ci volesse di meno per arrivarci, iniziavo a temere di vederti fare la cazzata più colossale del mondo» continuò a parlare ma Dalai non si era fatta tutta quella strada per sorbirsi le angherie di Hien.

«Dov'è Jungkook!?» domandò allarmata rimettendosi in piedi, «Ha già saltato?»

Jimin scosse la testa in una smorfia: «Ancora no. Ma é agitato, suo padre non è nemmeno venuto e doveva  aver saltato due turni fa, ma continuano a rimandare e non capisco perché» espirò annoiato.
Dalai si morse il labbro e imprecò, «Io so il perché e se non mi sbrigo a parlare con quel deficiente manderà all'aria tutto quanto!» allungò il collo per intercettarlo. Jane indicò col dito la panchina coperta dal sole e la studiò profondamente.

Vide un ragazzo moro in piedi a discutere con un uomo col cappello, Jungkook era vestito con una tuta bianca e azzurra aderente da mostrargli ogni muscolo del corpo, regalando a quella curva il suo culo marmoreo e indistruttibile.

«É laggiù. Vicino al suo coach e—» la vide partire in quarta ma le afferrò la mano per fermarla.

Dalai si girò fulminea verso di lei venne ricoperta da un'occhiata malevola. «Aspetta!» fece un lungo sospiro prima di parlare, «Fermati. Sappiamo tutto quanto: Jungkook ce ne ha parlato e se sei qui, al posto di lavorare, deduco che finalmente tu abbia aperto gli occhi»

Dalai guardò la sua mano stretta poco sopra il suo polso e poi lei. Gonfiò il petto e la staccò mostrandole di che pasta fosse fatta: «L'ho fatto. Ora se permetti devo andare a scusarmi così da impedire che quel coglione faccia la più grande cazzata della sua vita»

«E lo ami?» chiese esitando, preoccupata per il suo amico mentre Jimin, al suo fianco, le metteva un braccio intorno alla vita per tranquillizzarla.

«Jane...» sussurrò Jimin al suo orecchio
«Lo ami!? Sì o no?» insistette Jane senza ascoltarlo, ammorbidendosi di poco sotto il tocco protettivo di Jimin.

Non sarà mica che quei due...

A quel dettaglio nuovo e ignoto Dalai fece un sorriso furbo, togliendosi dalla bocca le ciocche scappare dalla coda alta mentre sentiva le guance frizzare per colpa dell'aria che asciugava il sudore.

«Te lo dirò più avanti Jane, magari un giorno non tanto lontano o forse prima, dipenderà da te: quando avrai voglia di raccontarmi quel capitolo noioso del libro» vide i suoi occhi sbarrarsi e le guance imporporarsi sotto lo sguardo confuso di tutti quanti, Jimin compreso, ignari della loro vecchia conversazione, «sarà allora che io ti racconterò il mio finale»

Tra lo stupore di Jane, Dali riuscì a leggerci un sorriso nato all'angolo della bocca e allora la lasciò finalmente andare verso il suo destino.

«Solo... non spezzargli il cuore. Non se lo merita, qualunque cosa tu scelga di fare»

«Non commetterò lo stesso errore due volte, é la persona più importante della mia vita quindi fidati di me»

Si scambiarono uno sguardo d'intesa, nel loro complesso intrecci di vite parallele, per poi allontanarsi dalla parte opposta dove Dalai, libera nel cuore e nell'anima, era pronta per affrontare quel capitolo nel migliore dei modi.








8.1



Era lì davanti a lui.

Ora lui era lì davanti a lei.

Entrambi consapevoli di essere in mezzo al mondo ma a nessuno dei due importava. Importava a Jungkook il come si ritrovò con le mani ancorate alla sbarra per allontanare la sicurezza dal corpo della sua ragazza. Via via dannazione, lasciatela stare!, continuava a gridare e finalmente si ritrovò con le braccia di Dalai attaccate al collo, i petti in collisione e gli occhi grondanti di parole.

«Sei un idiota!» iniziò lei facendolo rimanere di stucco e abbracciandolo da mozzargli il fiato, «Un assordo, merdoso e immaturo idiota che non sa mai di cosa sta parlando!» strillò contro il timpano.

«Noona, io...–»

«Così idiota da darti così poco credito, sminuendo ciò che sei e la tua passione per colpa di sciocca come me!»

«Noona» questa volta gli occhi di Jungkook si ammorbidirono non appena vide le lacrime uscire dai suoi occhi.

«Immaturo! Sei un immaturo del cazzo, Jeon Jungkook; un immaturo che mi ha svegliato per mesi interi alle sette della mattina per i suoi allenamenti mattutini. Un immaturo che continua ancora a sbattere quelle fottute uova senza avere prima un piano di cucina in mente. Un immaturo che ha voluto comprarmi un letto nuovo e più grande per farmi dormire meglio la notte. Un immaturo che spera che io non mi accorga che fuma di nascosto sotto il mio naso» singhiozzò stringendo le mani dietro il suo collo tra i ciuffi di capelli umidi, «Sei un immaturo che ha la stupida ossessione per le canzoni di Céline Dion e che per colpa tua ora le so tutte a memoria»

Jungkook la strinse più forte a sé impaurito che potesse scivolargli via dalle mani. Doveva essere un sogno.

«Ma sei anche l'unico immaturo che ha smosso il mondo per avermi, mettendomi sempre al primo posto quando dovevi esserci tu lì sopra al podio. Quindi non posso permetterti di mandare tutto all'aria per colpa delle mie paure»

«Noona...» la interruppe sussurrando roco, tanto da farle venire i brividi, «Che cosa ci fai qui?»

«Sono qui per dirti tutto quello che sei in realtà: un dannato coglione, ma non sei uno che ha paura. Sei il fancazzismo fatto in persona ma non uno che molla» gli spiegò arrabbiata mentre vedeva l'insicurezza negli occhi di Jungkook nata per colpa dei suoi drammi.

«Fallirò» insistette asciugandole le lacrime da sotto gli occhi e baciandole il naso con dolcezza, «Lo so già»

«Cosa importa?» gli chiese supplicante e questo lo fece gelare, «Salta Guk, l'importante é sempre stato quello fin dal principio: staccare i piedi dall'erba e vivere lontano da tutti in un mondo che meriti. L'adrenalina pura nel corpo» respirò, «il vuoto che ti sale nel ventre fino a inghiottirti per diventare un aquila» espirò.

«Dove lì sopra, sulle nuvole, sei tutto e al contempo niente. Tre secondi di follia, respiri impulsivi e silenzio» quelle erano le sue parole quando doveva descrivere la sua passione agli altri, «É quello che importa davvero Guk, sorridi mentre sei sulle nuvole, il resto non conta. Né questa stupida gara, né la pressione e né le mie paure. Ma solo tu»

E se mi vorrai io sarò lì sopra con te.

«E ti amo, Guk. L'essermi innamorata di un immaturo che manda a monte il proprio futuro per amore viene aggiunto alla lista del perché sono qui»

«Tu» la voce di Jungkook si incrinò fino a collassare, alzò il mento verso l'alto e chiuse gli occhi mentre piccole lacrime lucide gli bagnavano la pelle. Rafforzò la presa su di lei, rilasciando finalmente il suo dolore verso il fondo per abbandonarlo. Premette la fronte contro la sua tempia singhiozzando: «Non dirmelo solo per convincermi a fare quel salto, né per farmi contento perché non potrei sopportarlo. Riconosco di averti spinta oltre i limiti per colpa delle mie insicurezze»

«E io ho fatto la stessa e identica cosa con te» gli rispose afflitta, massaggiandogli la cute, «Dico sul serio Guk, sono sincera» lo guardò dritto negli occhi pronta a dimostrargli la sua verità, sentiva il cuore del ragazzo battere furioso come il suo sotto le sue mani.

Sorrise e, avvicinandosi, gli accarezzò lentamente le guance per asciugarle proprio come aveva fatto lui poco prima. «Ti amo. Ti amo così tanto e non ho più paura di cosa voglia dire questo per me. Che sia infinito o fino a domani mi va bene, andrà bene, perché ho scoperto che averti lontano da me fa molto più male e molta più paura di amarti incondizionatamente» fece una pausa mentre le mani tremavano sotto gli occhi emozionati di Jungkook, «e scoprire di amarti così mi rende viva. Ho lasciato il lavoro, ho sforato il limite di velocità per raggiungerti e ho urlato in mezzo alla gente e, dannazione!, lo rifarei ancora. Per te, sempre»

Jungkook cercava di formulare frasi di senso compiuto dentro di sé, ma era così sconvolto, felice e innamorato di quella donna, che a malapena riusciva a ricordarsi il suo stesso nome. Aprì la bocca per sussurrarle che anche lui avrebbe fatto lo stesso, amarla fino a quando il suo cuore fosse incastonato dentro al suo petto e il cielo rimasto azzurro, ma un'orda di grida si elevò proprio in quel momento: un altro aveva saltato, ora mancava solamente lui.

«Jeon»

Entrambi si girarono e videro il coach a qualche metro di distanza con le mani in stanca: «Odio fare il guastafeste ma é il tuo turno, non possiamo più rimandare» fece un cenno educato a Dalai che venne prontamente ricambiato e tornò a guardare Jungkook, «Hai deciso cosa fare?»

Jungkook sapeva già la risposta in cuor suo, dopotutto aveva bisogno di sicurezza e di tornare a crederci come una volta. Il pensiero di non entrare in categoria continuava a frullargli in testa ma sentiva che si stava assopendo. Però aveva la sua noona accanto a lui, aveva un motivo ben valido per dare il meglio di sé.

«Io...» esitò. Guardò il meraviglioso volto di Dalai e sentì le farfalle sbocciargli nel suo stomaco, «Lo farò. Salterò coach» L'uomo annuì solamente ma fece un sorriso tremante, sintomo che doveva allontanarsi o si sarebbe messo a piangere e in mezzo a quei poppanti.

«Vai Guk, vola» Dalai gli accarezzò il petto con amore, guardando ogni dettaglio davanti sé per non dimenticarlo più, dal piercing argentato sul labbro agli occhi color notte. «Io sarò qui ad aspettarti» e anche se dovesse succedere, di perdere la via e dimenticarsi, ci sarà sempre qualcosa che farà scattare in loro il ricordo dell'altro. Tutto torna in mente. Tutto torna indietro.

Quello era stato il ti amo più intimo e speciale che avesse potuto donargli, senza dirglielo con parole convenzionali e aprendogli il cuore.

«Mi guarderai noona?» gli afferrò la mano un'ultima volta prima di andare.

Lei la strinse, «Dall'inizio alla fine, fin quando non sarai lassù. Ho bisogno di te per dare un finale al nostro capitolo» Jungkook sorrise e Dalai lo lasciò libero.

Andò nel mezzo e un coro per il campione in carica bruciò per l'intero campo.

Jeon Jungkook quel giorno saltò esattamente otto metri e uno; durante la rincorsa accumulò così tanta energia da stipulare una velocità perfettamente graduale e costante con le ginocchia ben alte. Tre appoggi perfetti a busto eretto prima dello stacco e dopodiché il volo.

Ce l'aveva fatta.

Dalai non lo aveva mai visto volare prima di allora, Jimin le disse che quel salto fu strabiliante dal punto di vista tecnico e da quello artistico indescrivibile a parole. Si pentì di essersi persa ogni gara: vide i muscoli delle gambe sollevare il peso del suo corpo con un'elevazione portata avanti dal muro addominale del suo busto. Una tecnica tutta sua come quella di ogni atleta, ma il suo equilibrio sembrava un talento naturale.

We forgive and forget and it's all coming back to me now

Quando Jungkook fu in volo Dalai sentì le note di It's All Coming Back to Me Now aleggiare intorno al cuore, vivendosi quella canzone in maniera ultraterrena. E continuò a esserci nel momento dell'atterraggio: tutto accadde molto velocemente e Jungkook distese le gambe in una completa estensione prima di atterrare nella sabbia senza cadere all'indietro.

It's all coming back to me now

E solo allora, con le gambe sporche di sabbia e il sudore appiccicato un po' ovunque, gli venne detto che aveva saltato esattamente otto metri e uno, divenendo l'atleta con la distanza più lunga raggiunta nella sua categoria. Aggiudicandosi, sotto un palese shock, il primo posto sul podio, una medaglia d'oro intorno al collo e l'accesso per le qualificazioni delle prossime Olimpiadi.

And when you kiss me like this

Ma la durata sul podio fu breve perché, preso dall'euforia, si buttò a capofitto verso l'unica persona di cui aveva realmente bisogno in quel momento. Andò dalla sua noona, la baciò con gran trasporto facendole mozzare il fiato, mentre lei era pronta ad accoglierlo a braccia aperte con la medaglia che tintinnava sul torace. Stropicciò i suoi vestiti con le mani rapide e la spinse contro il suo corpo atletico fino a sollevarla oltre la sbarra con una sola presa.

And when I touch you like that

Dalle sue labbra a petalo uscì uno strillo per la mancanza di gravità e venne ruotata in tondo più volte finché Jungkook non si fermò, ridendo, piangendo e sognando in mezzo a tutti i suoi amici più cari, la squadra di atletica che si congratulava applaudendo per il suo successo, il coach e la sua ragazza sollevata come una sposa tra le braccia.

Appiccò la fronte contro la sua, ansimando e lucido in volto, Dalai socchiuse dolcemente le palpebre per viverlo.

It's all coming back to me now

«Ho sempre detto che ho un debole per le regine con cuore nero»

«E io per gli immaturi vergini che si fingono playboy» rispose e Jungkook ridacchiò, singhiozzò commosso quando i ricordi del passato tornarono a fargli visita e la guardò aprendo gli occhi. «Ti amo. Ti amo così tanto noona»

And if you do it like this

«Ti amo così tanto anche io, testa di nuvole»

«Dimmi che é questo il finale che volevi per il tuo libro»

It's all coming back to me now

«É il migliore che potessi avere» lo spinse verso di sé in mezzo alla bolgia e gli diede un lungo bacio, fu infinito e quando si staccarono lei riprese fiato dicendogli, «Mi hai portato lontano in modo che non soffrissi più, proprio come hai promesso il giorno in cui abbiamo fatto l'amore la prima volta» sussurrò, «ora sono qui con te»

«Qui dove, noona?» le chiese attendendo finalmente quel momento dopo tanto tempo.

Dalai sorrise, guardò in alto dritto verso il cielo e parlò.

And if we

«Tra le nuvole»
















☁️𝘛𝘩𝘦 𝘌𝘯𝘥☁️




















HB al nostro bambinone ❤️😭😭😭

Non potevo non pubblicare l'ultimo capitolo di Immature nel giorno del suo compleanno, mischiando tanto dramma, pianti e felicità 😭

OVVIAMENTE LA TAZZA È STATA RIPARATA E CONSEGNATA ❤️‍🩹 Jk cucciolino

Siamo arrivati alla fine ma non mi dilungherò troppo perché ci sarà un capitolo a parte per i ringraziamenti❤️

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