21. (𝕱𝖆𝖜𝖓)

Il primo istinto, alla visione delle frecce che calavano dall'alto, fu di proteggere entrambi: Devon le si era lanciato contro per frapporsi tra lei e la parete di pietra. Un paio di punte acuminate avevano fatto in tempo a raggiungerli, lui le aveva parate in parte con la spada, in parte fronteggiandole con le poche porzioni di armatura metallica che indossava.

Maledisse la protezione intrinseca del suo compagno, mentre si sforzò più del dovuto per emettere uno scudo infuocato che riuscisse a coprirli. Strinse i denti e ignorò la fatica, il minimo cedimento sarebbe bastato a condannarli. L'involucro di fiamme resistette a sufficienza: non si avvicinava abbastanza al corpo del comandante, rimaneva lì a lottare nell'aria, contro di lei, ma bastò. Bastò per mantenerli vivi e vegeti, facendo rallentare le frecce e permettendo loro di evitarle.

Devon si spinse con la schiena contro la sua, il corpo rivolto verso il corrimano da cui provenivano gli infausti rumori di qualcuno che tentava di risalire.

«Rimani in posizione, non dare le spalle al nemico. Cerca di ruotare e muoverti tenendomi sempre dietro, d'accordo?»

«Sì, va bene».

«Quando te lo dico io, lascialo andare».

«...Che cosa?»

«Questo dannato incendio».

Evitò di sottolineare come il dannato incendio gli avesse salvato la cotica, fino a quel punto. A quanto pareva, era destinata a morire sentendo idiozie.

Obbedì e rimase con lo sguardo puntato verso la strada, provò a domandarsi da dove fosse giunto l'attacco aereo. C'erano un paio di costruzioni, davanti a lei, benché abbastanza lontane: uno di quei davanzali doveva nascondere nemici, gli stessi che sarebbero comparsi dal vuoto della spiaggia sotto di loro. Si accorse del petto che si muoveva su e giù con affanno, delle mani che tremavano impugnando la spada, del battito che le martellava dentro: tentò di calmare il respiro. Doveva essere forte, ricordarsi di reagire con lucidità.

Il silenzio prima dello schianto: breve e profondo, interrotto da tonfi pesanti e sinistri stridii di lame sguainate. Osò uno sguardo all'indietro: sembravano enormi insetti, scavalcavano la balaustra come ragni dalle feritoie di una vecchia parete, moltiplicandosi. Soldati ricoperti di lucido nero, da capo a piedi, tranne per quello scintillio metallico che rifulgeva sotto gli ultimi raggi di sole.

«Ora».

Lasciò andare lo scudo. Il contraccolpo tra la spada di Devon e quella del primo soldato che si lanciò su di loro fu così violento da spingerla via, in avanti. Si ricordò le sue parole, non doveva dare le spalle a nessuno se non a lui. Impugnò l'arma con più forza, con entrambe le mani, ritornò in posizione e la alzò davanti a sé: una leggera pressione contro il corpo di Devon, per inclinare il loro nucleo di qualche grado, e affrontò il primo di quegli esseri mefitici con tutto il coraggio che riuscì a trovare.

La disperazione fece capolino appena quello le si gettò addosso: si era ripromessa di pensare, ma era impossibile. Riuscì a malapena a bloccare il primo colpo, il polso gridò di dolore mentre si opponeva alla lama che si avvicinò di taglio alla sua gola. Guardò il viso del cavaliere di fronte a lei, o quello che poteva scorgerne dall'elmo che portava: ne vedeva solo gli occhi. Presero fuoco senza pietà. Lui urlò e si scostò da lei, che ne approfittò per infilzarlo dove poté, all'altezza di quella che credeva essere la giugulare. Cadde a terra, era morto? Non ebbe il tempo di scoprirlo.

Altri energumeni le si lanciarono addosso, riuscì a posizionarsi e a rispondere con dei fendenti: erano troppo veloci, doveva almeno riuscire a bloccarli prima di poterli annientare in altro modo. Notò che Devon le si riaccostò alla schiena, mentre lo scambio frenetico continuava. Quando ebbe messo abbastanza spazio, una frazione di tempo che riuscì a concedersi, si preparò per colpire il soldato che aveva davanti a due mani, lanciandosi di punta contro lo spazio che aveva lasciato scoperto. Lo infilzò al fianco, senza riuscire a imprimere abbastanza forza: lui barcollò soltanto e si tenne il punto ammaccato con la mano libera. Si avvicinarono altri due cavalieri, con irruenza. Abbassò la spada e li fissò tutti e tre, pregando di fare in fretta: direzionò la sua energia verso ciò che riuscì a vedere, senza remore. Le armature che li ricoprivano iniziarono a fumare e loro gridarono, mentre con movimenti sconnessi e rapidi tentarono di strapparsele di dosso. Strilli disumani e angosciati. Insistette e loro caddero al suolo, carbonizzati.

Ripeté la stessa operazione, senza più contarli. Li aspettava in posizione, subiva l'attacco o si lanciava per prima, cercava di proteggersi e di parare ciò che riusciva, fino a interporre abbastanza distanza per osservarli e vederli bruciare. Ancora uno, e un altro. Un altro.

Ci fu un attimo di pace lugubre.

Intravide che cavalieri più lontani, ancora all'altezza della balaustra più in là, palesavano timore e incertezza. Non si avvicinarono, rimasero prossimi al parapetto. Erano spaventati, ovvio. Ma quanto lo sarebbero rimasti, prima che le prosciugassero la linfa dal corpo e capissero di poterla avere in pugno? La testa già iniziava a sembrarle stretta in una morsa, ciò che vedeva era inframmezzato a piccole luci gialle e intermittenti, un fischio acuto le occupava le orecchie.

Quelle loro armature erano pesanti, non era facile attraversarle, e lo scudo era stato maledettamente difficile da sorreggere.

Si azzardò a girarsi e barcollò, si era di nuovo allontanata dal comandante: ai piedi di Devon, più cadaveri di quanti lei non fosse riuscita a produrre. Ancora combatteva, mentre i pochi cavalieri rimasti avevano l'ardire di gettarglisi contro.

La grazia e la velocità con cui si muoveva erano uno spettacolo diabolico e bellissimo al tempo stesso. Menava fendenti con sicurezza, ne parava altrettanti come se si trattasse soltanto di un'esercitazione. Pareva danzare a un ritmo di morte, mentre al primo dei cavalieri che stava fronteggiando ne subentrò presto un altro. Ebbe un sussulto quando lo vide colpire i due uomini in sequenza ravvicinata, con un forte colpo diagonale che tagliò il ventre del primo, prima di infilzare di netto il secondo: non riuscì a decifrarlo, a capire quando si fosse preparato. Un terzo uomo gli si avvicinò di lato, ma lui non ebbe il tempo di estrarre la spada dal corpo dell'ultimo caduto: lo vide staccare entrambe le mani da essa e spostarsi con perfezione millimetrica per evitare la lama che tentò di aggredirlo. Si chinò come un gatto, estraendo un coltello da una fondina accessoria: lo infilò con decisione nella gamba del nemico, prima di gettarlo di peso a terra, estrarre la stessa arma e piantargliela nel collo.

Quelli non erano i movimenti di un cavaliere, e nemmeno di un uomo normale. Dove diavolo l'aveva imparato? Si accorse di avere la bocca semi aperta e la chiuse, tentò di darsi un contegno.

Lui tornò da uno degli ultimi cadaveri per riprendersi la spada e trafficò più del dovuto per riuscire a estrarla. Suoni grotteschi si accompagnarono ai tentativi di tirarla fuori, mentre si muoveva nelle viscere dell'uomo. Le parve di scorgere un'espressione irritata e qualche sillaba pronunciata sottovoce. Sta imprecando?

Non appena riuscì nell'operazione, lui si girò nella sua direzione: alla vista dello sguardo furente e deciso, di quel corpo che aveva appena visto all'opera, ricoperto di sangue altrui, ebbe la consapevolezza del perché alcuni dei nemici si fossero ributtati di sotto, alla svelta, scappando verso la spiaggia e sparendo.

«Stai bene?».

Annuì con la testa. Stava bene? Sì, in qualche modo. Aveva appena capito quanto l'avventura in cui si erano lanciati lei e Lyam fosse avventata e stupida, e del fatto che uscirne vivi sarebbe stato un miracolo, ma stava bene.

Devon voltò la testa verso la direzione degli edifici in lontananza: «Dannazione».

Spostò lo sguardo anche lei: notò che da uno dei vetri di un palazzo, distante da loro ma non abbastanza da pensare di scappare, sbucavano elementi neri. Stavano per arrivarne altri.

La tesoreria era già lontana, ma non tentennò, le sembrò che il suo stesso cranio venisse stretto e strizzato mentre si sforzò di urlare: «Aiutateci, vi prego, mandate qualcuno! Siamo inviati dal Re, ci dovete aiutare, vi supplico».

Un suono di pesanti passi alle sue spalle: si voltò. Una figura ricoperta di metallo nero le si avvicinava, dritta verso di lei e nessun altro. Era diverso dagli altri soldati: i pochi sprazzi di pelle che sbucavano dalla ferraglia scura permettevano di intravedere una cute rossa e rovinata. L'elmo che portava lasciava scoperti gli occhi e tutta la parte inferiore del viso, andando ad alzarsi in due punte acuminate ai lati della testa. Le labbra di quell'uomo erano attraversate da cicatrici ancora vivide, segni rubri e spaccature mal rimarginate ricoprivano mento e collo. Nel camminarle incontro la pelle della bocca si tese in un ghigno dissennato, piccoli fiotti di saliva scendevano dalla sua macilenta carne.

Fawn si preparò e alzò la spada dinanzi a sé, abbassò le gambe, piegando le ginocchia, un piede davanti all'altro, ma lui camminava con lentezza. Il cavaliere funesto si fermò, abbassò gli occhi verdi e velati di follia verso il basso: un rombo improvviso. La pietra del pavimento sotto di lei tremò e si aprì uno squarcio violento, da cui fuoriuscirono elementi veloci, simili a funi, che le strisciarono attorno alla caviglia, stringendosi su di essa e buttandola a terra. Fu tutto così rapido e veemente da non lasciarle modo di realizzare: batté la schiena contro il suolo e guardò verso le gambe che percepiva immobilizzate. Grosse radici di albero nodoso l'avevano bloccata e le impedivano di liberarsi, continuando a contorcersi e stringere sempre di più. Quell'essere era un Mistero? Non era possibile.

Guardò le radici diaboliche e diede loro fuoco, con le ultime energie che percepiva di avere in corpo. Loro si ritrassero e scalciò per liberare i piedi mentre l'essere ignoto le si avvicinava, senza staccare lo sguardo da lei. Appena ne faceva fuori una, nuove radici si alzavano dal terreno e la braccavano, impedendole di scappare da quella morsa implacabile.

Lo guardò in viso, pronta a colpirlo. L'armatura di lui divenne incandescente e quel tale si agitò per un momento soltanto, prima che l'ennesimo arbusto fuoriuscisse da una spaccatura ai lati della sua testa e le andasse a coprire la faccia. Cercò di mandare in cenere ciò che ormai le parava la vista: le dita legnose si ritraevano per poi ritornare, senza sosta. Non ce la faceva più, l'energia di quell'essere era troppo forte, lei nient'altro che una mosca in una trappola della morte. Lo percepì avvicinarsi e chinarsi su di lei. Perché non la uccideva e basta?

Iniziò a dimenarsi come una pazza per impedirgli di toccarla, prevedeva la lotta furibonda a cui avrebbe dovuto far fronte: pescò dentro di sé alla ricerca di residui insignificanti di forza. Dopo la calma, il suono di un tonfo. Bruciò l'ennesimo ramo che le impediva di vedere. L'uomo, o presunto tale, era stato scaraventato lontano, una figura più alta e imponente le si era parata davanti: Devon.

Cercò di dare fuoco a piccoli pezzi dei rami robusti che le attorniavano anche i piedi, le gambe e parte del tronco. Erano così vigorosi da non renderle facile il compito, riuscì soltanto a liberarsi un poco, quanto bastò a divincolarsi un minimo e strisciare appena più lontano dalla scena dello scontro che stava per avvenire.

Si fermò, decisa a riprendere fiato. Osservò ciò che si stava svolgendo: Devon brandiva la spada lungo il fianco, in apparenza calmo, in attesa che l'altro infernale individuo facesse qualcosa. Lui si risollevò dalla caduta e prese a fissare il comandante con intensità, spostava gli occhi freneticamente dal pavimento a Devon, un crescendo di irritazione che gli permeava il viso, i denti sempre più digrignati nel tentativo di fare ciò che aveva fatto con lei, di certo. Non ci stava riuscendo. Si gettò con le mani a terra e da esse partirono due piccoli terremoti che scavarono nella pietra: si spaccò lanciando frammenti tutt'attorno. Urlò, un urlo disumano che si accompagnò al tuono del lastricato stesso che andava in frantumi. Le due linee di frattura raggiunsero Devon e lo aggirarono senza toccarlo, per riavvicinarsi subito dopo averlo superato. Si fermarono.

Il comandante aveva appena tentennato, cercando di mantenere l'equilibrio al movimento del suolo sotto di lui. Fawn intuì che per quel Mistero non c'era scampo.

Voltò la testa, era ancora a terra: da lontano una lunga fila di soldati neri veniva verso di loro. Devon avrebbe anche potuto sconfiggere quell'ennesima minaccia, ma almeno una ventina di nuovi nemici si stava per abbattere su entrambi.

Il suono di un corno, dalla sua destra, lungo e grave, come un richiamo di salvezza a spezzare il tramonto che aveva creduto sancire la loro fine. Una nuova nota: si stava avvicinando. Guardò la lunga striscia di terra che separava il camminamento di pietra, su cui si trovavano, dalla linea di avanzata dei soldati. Un rivolo d'acqua iniziò a scorrere, come un ruscello nato all'improvviso, perdendosi dalla direzione da cui prima erano giunti. In lontananza si scorgeva la strada inerpicarsi all'interno degli edifici dei quartieri più esterni. Aguzzò la vista: brillii sempre più prossimi, sprazzi di grigio e azzurro, fioche linee di lance e stendardi. Le avevano dato retta. Quelle due megere avevano chiamato le guardie. Erano salvi.

Ritornò con lo sguardo sul comandante: lui non aveva ancora avanzato di un passo, continuava a fissare la creatura disgraziata che aveva tentato con ogni fibra di colpirlo. Era visibilmente affranto e affaticato, il ghigno ormai era sparito, ma lasciò perdere: sguainò la spada che aveva rinfoderato poco prima e si lanciò con furia contro Devon. Era pazzo, forse? Tutti gli altri soldati erano già scappati, perché si stava gettando con tanta foga contro qualcuno ben più forte di lui?

Devon rispose ai colpi e parò ogni fendente che l'altro, con accanimento, continuava a rivolgergli, ma non reagì, non lo riattaccò mai a sua volta. Sembrava non volesse in alcun modo colpirlo o fargli del male, solo farlo cedere. Fawn indugiò su quei due occhi deliranti e sul resto del viso ormai ricoperto di sudore, che ne impiastricciava la pelle malconcia e danneggiata.

Il lampo di un ricordo. Quel verde misto a linee brune. La forma familiare della bocca, la fossetta sul mento che esisteva ancora, nonostante i danni subiti: Darragh...

Darragh e i suoi alberi.

Darragh che aveva costruito un intero orto tutto per loro, per far sì che non dovessero recarsi troppo spesso ai mercati e potessero mangiare ciò che coltivavano.

Darragh che, quando qualche cosa lo turbava troppo o faceva brutti sogni, lasciava che dalle crepe nelle pareti, nelle stanze della rocca, spuntassero steli d'erba o foglie rampicanti.

Il giorno in cui Amber lo aveva lasciato, Fawn aveva ritrovato l'intera sala da pranzo ricoperta di edera: lo aveva scoperto a piagnucolare sotto il tavolo. L'aveva consolato. Lui, tre giorni dopo, le aveva regalato delle margherite per ringraziarla. Si era procurato un vasetto di coccio e gliel'aveva lasciato sul davanzale della finestra, lei si era lamentata che le avrebbe fatte morire in meno di una giornata. Darragh l'aveva rassicurata: non sarebbero morte, e aveva ragione, erano rimaste lì a sorvegliarla fino alla disfatta.

Darragh abbandonato da una madre che non l'aveva più voluto, quando aveva capito di cosa fosse capace. Darragh che era cresciuto da solo e che aveva finto per tutta la vita, nascondendo la propria natura agli estranei, prima di unirsi ai ribelli. Darragh, che era uno dei tanti rimasti senza un corpo, e che loro non avevano mai più rivisto...

«Darr! Darr, ti prego, fermati! Sono io».

Si accorse delle lacrime che le solcavano le guance.

«Darr! Darragh, sono io, Fawn. Lo so che sei tu, cosa ti è successo? Fermati».

Si fermò per un istante, gli occhi saettarono su di lei. In quel battito di ciglia le sembrò che l'avesse riconosciuta.

Durò poco: Darragh, o ciò che era rimasto di lui, la ignorò e riprese ad attaccare Devon, sempre più scoordinato e aggressivo.

Il comandante continuava a parare i colpi cercando di non rispondere, ma lui insisteva, non voleva accennare a fermarsi. Quando Devon si ritrasse, dando l'impressione di voler concludere quel combattimento, lui vi si rilanciò contro e puntò alle parti vitali, per ucciderlo. Devon sembrò essersi stancato, come se avesse capito che non c'era nulla da fare: in un momento di debolezza dell'altro, alzò la spada per colpirlo definitivamente.

«No! Non farlo, ti prego!»

La spada rimase a mezz'aria, incerta, il comandante le rivolse uno sguardo. Bastò quell'attimo di distrazione perché Darragh, dalla posizione in cui si trovava, riuscisse a infilzarlo all'altezza dell'incavo ascellare, dove il braccio era rimasto alzato a esibire un tratto vulnerabile. Devon si sfilò, reggendosi la spalla con l'altra mano. Esalò solo un gemito, ignorò il dolore e riprese a rispondere ai colpi, con meno prontezza di prima. Una grande chiazza vermiglia prese ad allargarsi e scendergli lungo l'arto.

Non ci pensò. Il suo istinto, alla vista di Devon ferito, la portò a colpire la testa di Darragh, che si dimenò e cercò di slacciarsi l'elmo per gettarlo via. Fawn interruppe lo slancio di energia: forse il dolore sarebbe stato sufficiente a farlo smettere, a interrompere l'attacco. Potevano parlare.

Non bastò: gridando, nonostante il dolore del ferro incandescente che gli premeva sulla faccia e che non era riuscito a togliersi, il compagno che non riconosceva più si lanciò ancora contro Devon, in corpo una disperazione che non aveva nulla a che fare con la razionalità. Il comandante tentò di rispondere con la mano sinistra, l'altro braccio ormai ricoperto di sangue che non smetteva di sgorgare, fino a macchiare il suolo sotto di loro. Le urla di Darragh continuavano a impregnare l'aria, il viso che fumava al contatto col metallo ancora rovente.

Pose fine allo strazio di entrambi: cercò di non guardarlo troppo, di non scorgere la scintilla vitale nei suoi occhi che andava spegnendosi.

Fawn riprese ciò che aveva interrotto, finché Darragh non cadde a terra, vinto e fumante, ormai immobile.

Continuò a piangere, senza riuscire a fermarsi. Si accasciò, premette la testa contro la pietra del pavimento. Non voleva vedere più nulla.











🦌🤎⚔️🔥

Un altro capitolo lungo: troppo?

Ho bisogno di voi, ancora una volta.

Ritenete vada diviso?

Non mi piaceva l'idea di interrompere l'azione a metà, soprattutto perché ormai la storia prenderà una vena simile e temo che questo tipo di lunghezza di capitolo potrebbe diventare più frequente, ma in caso, sono tutta orecchi, disposta a tagliare qualcosina o a farne più parti.

Fatemi sapere che cosa ne pensate :')

Non è bello concludere le vacanze con un po' di violenza, perdonatemi.

La povera Fawn troverà mai pace, in questa vita?

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