Capitolo 4
YOONGI'S POV:
Presi il caffè che il barista mi porgeva, mi guardai rapidamente attorno e poi andai a sedermi con i miei due soci, Geum-jae e Dong-sun.
«Questo sarebbe un abbigliamento "discreto"?».
Geum-jae strattonò il colletto della camicia hawaiana con una faccia offesa. «La gente si veste così quando va in vacanza. Sono un turista».
Geum-jae era il mio fratellastro; avevamo ereditato entrambi i lineamenti decisi di papà, oltre alle spalle ampie e alle gambe lunghe. Le somiglianze si fermavano lì. Io avevo i capelli mori, lui biondo scuro come sua madre. Io avevo gli occhi neri, lui grigi.
Dong-sun era una montagna d'uomo che, strano a dirsi, era entrato in azienda come stagista alcuni anni prima. A vederlo uno si sarebbe fatto un'opinione diversa. Sembrava più probabile che avesse sfondato un paio di muri, per poi fulminare con gli occhi chiunque fosse al comando, aspettando che qualcuno osasse dirgli che non era il coproprietario della società. E in effetti aveva qualche piccolo precedente penale, ma io cercavo di non pensarci troppo.
Si era messo una maglia che era sul punto di esplodere e i pantaloni della tuta, più berretto nero da baseball e occhiali da sole.
Glieli tolsi e poi gli sfilai il cappellino. «Se ti sforzi troppo per non farti notare spicchi ancora di più». Guardai Geum-jae e scossi la testa. «E i turisti non si vestono così a Seoul. Si mettono le magliette con scritto I LOVE SEOUL e roba del genere. E poi vestirsi come uno del posto ti fa passare molto più inosservato che se provi a fare il turista, scemo».
Dong-sun si limitò a un'alzata di spalle, ma Geum-jae sembrava irritato. «Magari vengo dalla Florida. Ci avevi pensato, genio?»
«Possiamo passare alle cose serie?». Mi guardai di nuovo alle spalle, anche se non sapevo che cosa mi aspettassi di vedere. Se Mina mi aveva davvero messo qualcuno alle costole, dubitavo che avrebbe finto di leggere il giornale in impermeabile e cappello di feltro. Avrebbe potuto essere un tizio qualunque tra le dozzine di avventori che bevevano caffè, lavoravano al computer o mangiavano bagel.
«Quanto durerà questa storia?», domandò Dong-sun. Aveva una voce profonda, sembrava di sentire dei macigni che sfregavano l'uno contro l'altro.
«Finché non sarò sicuro che mi lascerà in pace, cazzo».
«Posso riprovare parlarci», suggerì Geum-jae. «In fondo, è pur sempre mia sorella, anche se in un certo senso mi odia».
Mio padre aveva deciso di incasinare il più possibile il mio albero genealogico: io ero nato dalla relazione con la sua prima moglie, poi quando avevo due anni si era risposato e aveva avuto Geum-jae con la seconda moglie, che già aveva una figlia da un precedente matrimonio. Alla fine, mi ero ritrovato con Geum-jae, fratellastro da uno stesso padre, e Mina, che aveva la stessa madre di Geum-jae.
Eravamo cresciuti insieme fin da bambini e Mina aveva sempre provato un interesse perverso nei miei confronti. Avevamo quasi la stessa età, quindi me l'ero dovuta sorbire per tutti gli anni della scuola.
«Ti odia "in un certo senso" come io in un certo senso odio le grinze sui calzini», gli disse Dong-sun.
Lo fissai. «Eh?»
«Sai, quando si forma una pieghetta nelle calze e ti sembra di avere un bozzo sotto il piede per tutto il giorno. È orribile».
«Mai pensato che basterebbe toglierti la scarpa e rimetterlo a posto?»
«E poi, da come l'hai detto, pensavo che stessi per citare qualcosa di più drammatico», aggiunse Geum-jae. «Tipo, non so, "ti odia in un certo senso come io in un certo senso odio venire pugnalato". Qualcosa del genere».
Dong-sun lo guardò come se fosse un idiota. «Chi mai direbbe che odia venire pugnalato "in un certo senso"? Quella è roba che odi al massimo».
Geum-jae mi rivolse uno sguardo sconfortato. Mi strinsi nelle spalle. Dong-sun faceva il suo lavoro a meraviglia, ma le battute non erano il suo forte.
La nostra azienda vendeva pacchetti d'investimenti a consulenti finanziari d'alto profilo persino ad alcuni manager di fondi speculativi. Di solito, quella gente mette insieme i pacchetti da sola, ma era quella la novità che offrivamo. Sapevamo farlo meglio di loro e i dati lo dimostravano. I clienti erano felici, noi prendevamo una piccola fetta della torta e tutti insomma erano contenti.
Invece di riscuotere percentuali e bonus, mettevamo insieme i portafogli all'avanguardia mese per mese e li vendevamo a caro prezzo. Eravamo tra le aziende di maggior successo nella nostra categoria e le cose andavano sempre meglio. Io avevo sempre avuto fiuto per i capitali azionari e proprio in quel campo davo il mio contributo all'attività. Ero io a formare le offerte e a farmi il culo per trovare tutte le combinazioni. La maggior parte dei portafogli prometteva guadagni del cinque o sette per cento, ma noi puntavamo al dieci. Non era facile, ma a me piacevano le sfide e di mesi sfortunati ne avevo avuti ben pochi.
Geum-jae era il nostro venditore. Aveva bisogno di un'organizzazione chiara e di una guida per restare concentrato sul lavoro, ma quando succedeva avrebbe potuto vendere aria a un pesce. Dong-sun, nonostante il suo aspetto, in pratica era un genio della programmazione. Aveva preso ciò che facevo io e l'aveva trasformato in un software intuitivo che potevamo vendere come servizio mensile. Io creavo le liste e i nostri clienti dovevano solo pagare l'abbonamento per avere ogni mese una scelta di nuovi pacchetti per investimenti azionari di prima categoria.
Insieme, eravamo una squadra coi fiocchi.
Diedi una chiavetta USB a Dong-sun. «Questa è per gennaio». Guardai Geum-jae. «Non fare promesse se puoi evitarlo, ma io sono quasi sicuro che questo pacchetto frutterà il dodici, forse persino il quattordici per cento».
Geum-jae fischiò. «Forse mia sorella dovrebbe costringerti a darti alla macchia più spesso».
Mugugnai. «Non sappiamo ancora se i danni che ha fatto prima che mi nascondessi ci si rivolteranno contro».
«Per me la sopravvaluti. Okay, ha raccontato delle cazzate in giro e ha convinto un paio di riviste a pubblicare degli articoli per infangare il tuo nome. Okay, se qualcuno ha voglia di darle retta penserà che tu sia un demonio ninfomane sadomaso che non sa tenersi l'uccello nei pantaloni. Che sei effettivamente gay. Che sei il peggio del peggio. E allora? Magari attirerà qualche cliente donna interessata all'articolo. Potremmo farti andare in giro con un collare con le punte, per esempio. Sai, approfittare della situazione».
«Secondo te si sarebbe fermata lì? Mina vuole distruggermi. Nella sua mente malata le ho fatto un torto e non avrà pace finché non penserà di aver vinto. Oppure finché non si annoierà e io punto a quello».
«Non riesco ancora a credere che volesse una tresca con te». Geum-jae sogghignò, poi abbassò gli occhi sul tavolo e sembrò sul punto di vomitare. «Okay, no, in realtà ci credo eccome. Mi sorprende solo che si sia decisa a dirlo apertamente».
«Non hanno nessun legame di sangue», intervenne Dong-sun. «Potrebbero fare figli sanissimi. Non vedo il problema».
«Non vedi il problema? Primo, è sposata», risposi. «Secondo, cazzo, è la mia sorellastra, è disgustoso. Terzo, anche se fosse single e non mia parente non sarei interessato a lei. Non ho mai conosciuto nessuno più malvagio di lei. Basterebbe avvicinarmi troppo e l'uccello mi si seccherebbe e staccherebbe di netto. Senza offesa, Geum-jae... E poi, beh, non mi piacciono veramente le donne».
«Nessuna offesa. Sono più che d'accordo: dovresti tenere l'uccello lontano dalla sua cosa, tanto per precauzione».
«Secondo me è carina». Dong-sun si strinse nelle spalle.
Geum-jae gli tirò un pugno sulla spalla. «Parli di mia sorella».
«Scusa. Secondo me tua sorella è carina».
«C'è qualcosa che dovrei sapere?». Li interruppi. «Sul lavoro, intendo».
Geum-jae fece una smorfia pensierosa e scosse la testa. «A parte che reggo io tutta la baracca mentre tu ti aggiri nell'ombra con un cappello di carta stagnola in testa? No».
«Penso che qualcuno ci stia osservando», disse Dong-sun.
Mi girai sulla sedia e lo vidi subito. Il mio vicino era fermo sulla soglia del bar, con l'aria di chi è stato colto alla sprovvista. Guardava dritto verso di noi.
«Ci penso io». Mi alzai.
«Sicuro che non vuoi una mano?», chiese Geum-jae. «Sembra grazioso». Lo ignorai e mi avvicinai al ragazzo.
Girò sulle scarpe, rigido come un soldato, e uscì in fretta dal locale. Se non avessi avuto il cuore a mille perché pensavo che mi stesse davvero spiando per conto di Mina dall'inizio, avrei riso di quella ritirata precipitosa.
Dovetti farmi strada a spintoni in mezzo a una famiglia che entrava in quel momento e poi alla folla sul marciapiede, ma per fortuna ero abbastanza alto da non perderlo d'occhio e vederlo precipitarsi giù nella metro.
Lo raggiunsi appena prima dei tornelli.
«Ehi». Lo afferrai per una spalla e lo costrinsi a girarsi. «Perché non mi dici come mai mi segui?»
«Non ti seguivo». Stringeva le labbra e mi fulminava dall'alto in basso con quei suoi occhi pieni di sfida.
«Passavi per caso? In una caffetteria anonima dall'altra parte della città?»>
«Sì».
Sospirai. «E questa roba cos'è, allora?»>. Diedi uno strattone al borsone verde militare che portava in spalla e sembrava pieno da scoppiare.
Me lo strappò con un gesto brusco e un'occhiataccia. «Cose da segretario. E non dovresti toccare la roba d'altri».
Mi chinai un po' di più su di lui. Nei suoi occhi c'era una scintilla; continuava a comportarsi come se non volesse avere niente a che fare con me, ma le due cose erano in contrasto. Mi aveva rintracciato. Mi aveva seguito. Non me la bevevo la sua palla, e non ero minimamente tentato di farlo. Ciò che volevo era conoscerlo meglio. C'era una storia dietro quel moretto che nascondeva il suo sorriso e io morivo dalla voglia di sapere quale fosse. Anche a costo di scoprire che era al soldo della mia sorellastra.
Quando avvicinai la faccia alla sua arretrò, fino a schiacciarsi contro un tornello; la gente costretta a girarci attorno mugugnava stizzita. Per la prima volta assaporai il suo profumo e lo trovai incantevole. Era dolce come un fiore.
Mi si rizzarono i capelli sulla nuca. «Io non dovrei toccare la roba d'altri? Mi pare di ricordare che hai cominciato tu».
«È stato un incidente». La sua voce non aveva più quella durezza caratteristica.
«Incidente o no, hai toccato il mio pacco, non posso lasciarti andare via così».
Un fremito che già conoscevo all'angolo delle labbra - il suo sorriso. Mi piaceva che fosse un linguaggio privato. Uno che pochi sarebbero riusciti a capire e che proprio per questo mi attraeva ancora di più.
«E come pensi di fermarmi, Dohyun?».
Fu come se una mano fredda mi afferrasse il cuore e lo stritolasse. "Dohyun". Quindi ci aveva guardato, nella busta. E c'era qualcosa di peculiare nel modo in cui pronunciava quel nome, come se sapesse che era falso - o era solo frutto della mia immaginazione?
«Seducendoti. Forse. Ma non so ancora se sia possibile, a parte che con diciassette centimetri di silicone».
«Diciotto», mi corresse. «E se vuoi proprio saperlo, immagino che dovrai continuare a provarci. Giusto?». Sottolineò il messaggio con un leggero movimento delle sopracciglia, poi mi spinse indietro con la punta di un dito. Prese una tessera dalla tasca della giacca, la passò sul tornello e non appena quello si aprì lo attraverso. «Perché quel muso lungo? Non prendi la metro? Niente tessera?».
Tirai fuori l'abbonamento e lo seguii. Invasi direttamente il suo spazio personale e gli sorrisi. «Tutto qui ciò che pensavi di fare per evitarmi? Perché se è l'unico asso nella manica che avevi, non hai la minima possibilità contro di me».
«Be', ora mi trovo in imbarazzo. Doveva essere la mia uscita con stile, quella».
«Non posso dire che mi dispiaccia».
Cercò di sistemare meglio il borsone sulla spalla, ma proprio allora la fibbia si aprì e riversò il contenuto sul pavimento. «Merda», mugugnò, inginocchiandosi, e cercò di infilare di nuovo la roba dentro in tutta fretta.
Mi chinai per aiutarlo e notai subito la voluminosa attrezzatura high-tech. Sollevai un pezzo e lo guardai con aria interrogativa. «Che cazzo sono questi? Visori notturni?»
«Faccio birdwatching». Me li tolse di mano e li rimise nel borsone.
«Un microfono con amplificatore?». Raccolsi un altro gadget.
«Gli uccelli cantano», ribatté, come se fosse ovvio.
«Qual è la tua specie preferita?». Esitò e pensai di averlo preso in castagna, ma poi lo vidi scuotere la testa con l'aria di chi risponde a una domanda stupida.
«L'aquila codacuneata australiana. Al confronto, l'aquila di mare testa bianca è una femminuccia. La codacuneata è capace di attaccarti se sei in parapendio. Cacciano canguri. Probabilmente riuscirebbero a mangiarsi un neonato in un sol boccone. In pratica sono tostissime».
«Ma dove le impari queste cose?».
Diede una pacca al borsone. «Birdwatching».
Sospirai. Avrei voluto smascherare il suo bluff, ma non ne ero più tanto sicuro che lo fosse. Forse mi stavo lasciando accecare dalla pressione pulsante tra le mie gambe, ma non pensavo che lavorasse sul serio per Mina. O forse non volevo pensarlo.
«Che mi dici della cena? È ancora un forse?»
«Forse potrei accettare. Se ti piace quel genere di attività».
Inarcai un sopracciglio. «A quasi tutti piace mangiare, no?»
«Se lo dici tu», rispose; eppure, non poteva nascondere che gli prudevano le labbra dalla voglia di sorridere. «Non oggi però. Ho uno stupido impegno di lavoro. Domani».
Di solito non sorridevo facilmente, ma quando c'era lui di solito dovevo sforzarmi per stampare un'espressione ebete sulla mia faccia. Persino il modo in cui esclamava "Se lo dici tu" mi inteneriva. Cercava di sembrare indifferente, ma la curva a un angolo della bocca e lo scintillio negli occhi davano all'espressione tutto un altro significato. Giocava. Cominciavo a comprendere sempre di più il suo linguaggio e a capire che era molto diverso da come appariva.
Il sarcasmo e le risposte aride facevano parte di un gioco tutto suo, forse una specie di test.
«Affare fatto. Ma se ti porto fuori a cena mi servirà il tuo nome. Almeno questo puoi concedermelo, vero?»
«Jimin».
Annuii, stringendo le labbra. «Ti si addice».
«Almeno quanto Dohyun non si addice per nulla a te».
Cercai di liquidare quel commento con un'alzata di spalle. «Il nome non ce lo scegliamo da soli».
«No». I suoi occhi non si staccarono dai miei nemmeno per un secondo. «La maggior parte di noi, almeno».
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