Parte 34.2
SENDAI - TOKYO
Hinata's POV
Intorno le 5:30 del mattino, i colori dell'alba iniziarono a tingere il cielo.
Timide tinte rossastre e rosee, si levarono dall'oscurità dell'orizzonte, espandendosi lentamente.
Strisce dorate, si dipartono da un punto impreciso, come raggi di una stella nascente.
Il silenzio della notte lascia spazio ai nuovi suoni della vita che lentamente rinasce.
Le nuvole della tempesta di ieri si diradano, mostrando giochi di colori tenui, al risveglio di un nuovo giorno.
"Oggi sono 20 giorni."
I colori diventano più caldi, il rosa diventa arancio ed il rosso diventa oro.
Tutto sembra trattare nuova forza e linfa vitale, non appena quella luce tocca i profili degli alberi, delle case e dei campi.
Lenta, la luce del sole che sorge, arriva ai finestrini dell'autobus, ferendo i miei occhi arrossati.
Tutto sta per ricominciare, identico eppure diverso da ieri.
Non riesco a tenerli aperti per osservare la bellezza del panorama intorno a me.
Li socchiudo leggermente, cercando di godere per un momento dello spettacolo che ho davanti.
Prendo una pausa anche dai miei pensieri.
Nel silenzio del mio viaggio, non ho fatto altro che sentire l'assordante rumore della mia mente e dell'insopportabile peso che mi trascino dietro.
Ho sofferto in silenzio il mio cammino per raggiungerti.
Sto impazzendo e non posso neanche farci niente.
Il dolore fisico è quasi paragonabile a quello che ho dentro.
Ogni articolazione del mio corpo si ribella contro di me, ogni muscolo duole.
La caduta che ho preso ieri mi ha sbucciato il ginocchio, che mi ha regalato fitte tremende per tutto il tempo.
Gli indumenti sono ancora umidicci, attaccati alla mia pelle, facendomi sentire un glaciale dolore dovunque.
Come avevo previsto non sono riuscito a chiudere occhio.
L'intenso odore di fumo ha messo anche in subbuglio il mio stomaco, facendomi lottare contro l'istinto di vomitare.
Già avevo poche energie, non potevo spenderle per rigettare il misero ed unico pasto che avevo consumato.
Le tempie mi pulsano, incessanti, implorando riposo e tranquillità.
Una supplica vana, poiché non ho idea di che cosa voglia dire star tranquillo, da 20 giorni a questa parte.
Ho rintanato in un angolo di me stesso tutti i miei tormenti, per cercare di pensare lucidamente alle prossime coincidenze da prendere.
Mi sento sconfortato e solo.
La batteria del mio telefono segna il 36% , mentre l'orario segna che sono da poco le 6:00 del mattino.
Intravedo i palazzi di Tokyo interrompere il profilo piatto della campagna.
Scintillanti e imponenti svettano fino al cielo.
Siamo leggermente in ritardo con la tabella di marcia, ma sono comunque arrivato.
Ricaccio giù un groppo prima ancora che possa stringermi la gola.
Non è il momento di cedere alla pressione e all'ansia.
Questo autobus ha come capolinea la stazione di Akihabara, nel cuore pulsante della capitale metropolitana.
Il posto che devo raggiungere si trova vicino la stazione di Kami-Kitazawa, circa 20 km ad ovest da Akihabara.
"Un'altra ora di treno, se tutto andrà bene..."
Il tragitto non comprende solo il treno, ma anche diversi minuti di camminata per raggiungere le stazioni giuste.
Spero solo che le gambe reggano.
Spero solo di reggere fino a quando non sarò arrivato da te.
Mi sento in colpa, una tremenda colpa che rende pesante ogni mio passo.
Non ho tempo per pensarci, non ho tempo per stare a soffrire e piangere la mia condizione.
Ho il dovere di provarci.
Ho il dovere di provare ad arrivare da te e vederti.
Anche se non so che cosa troverò nella tua stanza o meglio... chi.
Non so cosa aspettarmi, ma ho comunque il dovere di provarci.
Non posso continuare la mia vita, apaticamente, sapendo, dopo tutto questo silenzio, che tu sei via.
Adesso che lo so, non posso restare con le mani nelle mani.
Non posso restare inerme in attesa che l'ennesima onda anomala si abbatta su di me.
Non posso farmi scorrere la vita davanti, perché il senso di colpa ed il rimorso mi consumerebbe.
Il tormento corroderebbe la mia anima, cibandosi avidamente del mio profondo rammarico.
Non riuscirei più a far nulla, neanche giocare a pallavolo, qualora tu non ci fossi più.
Il numero 10 non avrebbe senso di stare sulla mia schiena, senza il numero 9.
Anche la pallavolo perderebbe di significato, senza di te.
Non posso accettarlo, non posso farmene una ragione.
Non posso vivere sapendo che, quel giorno tu non dicesti la verità.
A domani, doveva essere, però hai mentito.
Sarà oggi, domani?
Sono le 6:37.
Nonostante sia molto presto, la vita nell'affollata zona di Akihabara discorreva frenetica.
Gli adulti si recavano a lavoro, con facce assonnate e distanti.
Alcune donne accompagnavano i figli piccoli all'asilo.
Gli studenti più giovani guizzavano vitalità da tutti i pori, camminando per strada.
Gli universitari, svogliati, si dirigevano ai loro corsi mattutini.
Li osservo per un momento, mentre l'autobus esegue la sua ultima sosta.
Sembrano così spensierati, così leggeri.
Godono tranquilli della loro gioventù.
Chissà, se c'è qualcuno tra loro, che assomiglia a noi.
Chissà se tra di loro, si nasconde qualcuno a cui venga negato il diritto di amare.
Quante sofferenze si nascondono dietro i loro visi sorridenti?
Quanto dolore si cela, dietro i loro occhi brillanti?
Rivolgo un rapido saluto all'autista, mentre volo giù dal bus.
Credo che abbia aperto la bocca per rispondere, ma la sua voce non raggiungerà mai il mio orecchio, poiché sono già abbastanza lontano.
A volte sento le ginocchia cedere mentre corro verso la stazione di Motoyawata.
Devo prendere la linea Verde, restare a bordo per 7 fermate prima di fare cambio.
Sento di nuovo che mi sto sbilanciando sulle scale, ma riesco a trattenermi al muro.
Non è ancora il momento di accumulare sbucciature sulle mie ginocchia.
Le mani tremano incontrollate facendomi perdere più tempo del previsto per fare il biglietto della metro.
Sento alcune ragazze dietro di me ridacchiare per la mia lentezza e per il mio aspetto.
Devo essere davvero un rottame.
Il treno arriva in orario e la calca mi spinge dentro.
Il contatto con quel muro di gente, pare frantumarmi le ossa.
Soffoco per l'improvviso senso di claustrofobia, stretto come sono tra tutte quelle persone.
A tentoni riesco a raggiungere un posto dove posso respirare, vicino una delle porte.
Guardo la linea in alto sulla mia testa: devo scendere a Shinjuku.
13 minuti di metro, dopodiché mi fiondo al binario successivo per prendere la coincidenza con la linea Magenta; da Sasazuka fino alla stazione di Hachiman-yama.
Il mio respiro è affannoso, la mia mente poco lucida.
Avrei bisogno di mangiare, ma non posso perdere la coincidenza con il treno.
L'acido lattico del duro allenamento di ieri si somma con la fatica delle ultime ore.
Mi sento mancare più e più volte, nonostante cerco di aggrapparmi disperatamente al tuo pensiero.
Le mie gambe cedono sotto il peso del mio corpo, la mia mente vacilla sotto il peso dei miei timori.
Riesco a trovare un posto a sedere e mi infilo le cuffiette nelle orecchie: non sento nessuna musica, lo faccio solo per cercare di isolare la mia mente per non farle sentire lo sfinimento.
Cerco di ingannare i miei sensi per non soccombere.
" Sono vicino, sono dannatamente vicino... non posso, non posso proprio adesso darmi per vinto.
Ho fatto tutta questa strada... non sarà vana."
Ricado indietro con la testa, appoggiandomi alla parete del treno, chiudendo gli occhi.
Bruciano nel momento in cui calano le palpebre.
Lacrime roventi scorrono sulle mie guance, per quanto i miei occhi mi facciano male.
Cerco di rilassare un minimo le spalle e le gambe, essendo che dovrò restare seduto nel treno per 55 minuti.
L'angoscia nel mio petto mi tiene ben sveglio e vigile.
Percepisco la gente, intorno a me, scendere e salire alle varie fermate.
Il chiacchiericcio animato di quando il vagone si riempie e il rigoroso silenzio di quando si svuota.
Sento i rumori classici di un treno in corsa, il sobbalzare delle giunture metalliche e lo scricchiolare dei pannelli.
Mi tornano in mente le parole di Hirose di ieri sera:
"Si trova a Tokyo."
In quel momento non ho più pensato al mio stato d'animo, ho sentito una forza che mi spingeva ad alzarmi.
Non sentivo più il dolore, non sentivo più la paura e la sofferenza.
Mi sentivo sollevare e reagire.
"Vai."
Vai e sono venuto.
Vai e sono partito, senza pensare a come avrei fatto a tornare a casa.
Proprio come Suga-San e la sua Kimiko, ho preso un treno senza pensarci troppo.
Ho preso il treno per venire da te perché dovevo farlo.
Mi porto lentamente in mano, scossa da violenti tremiti, alla testa, per nascondere i miei occhi disperati.
"Si trova a Tokyo, ma... non sarà semplice Hinata, accettare le condizioni in cui lo troverai..."
Disse Hirose scossa da nuove lacrime.
Potevo vedere il dolore insidiato dentro il suo cuore, venire nuovamente a galla.
Tutta la mia stanchezza e il mio senso di oppressione si riversano nella mie lacrime.
Senza neanche più un grammo di forza, scorrono libere sul mio viso.
Neanche i singhiozzi riescono a scuotermi.
Tremo come un codardo.
Piango come un coniglio.
Ho una tremenda paura dentro di me.
Una paura alla quale non riesco a dare un nome, una paura che non riesco a pronunciare.
Temo che, qualora lo facessi, questa diventasse realtà.
Vorrei sentire il calore della tua mano sfiorarmi la pelle ed asciugare le mie lacrime.
Vorrei sentire la tua voce, anche per un rimprovero.
Vorrei vedere nuovamente i tuoi occhi limpidi, quando mi dicesti di amarmi.
Vorrei poter tornare indietro e risponderti, dicendoti:
"Anche io. Ti amo più di ogni altra cosa."
Vorrei tornare indietro e trattenerti per la maglia, dicendoti:
"Non è vero che sarà domani. Resta, facciamo che sia oggi, non attendiamo un domani che non arriverà."
Vorrei allungare una mano per toccarti e stringerti a me, dicendoti:
"Andrà tutto bene se resti con me. Resta, ti prego, resta."
Avrei dovuto far di più per far sì che succedesse, mentre invece ti ho visto richiuderti la porta di casa alle spalle.
Ti ho visto allontanarti e sono rimasto fermo.
"Hinata, devi promettere di... essere forte."
L'hai saputo solo due giorni fa e, anche tu, stavi meditando di andare da lui, Hirose.
"Ho paura Hinata, non riesco a muovere un passo verso Tokyo. "
Mi dicesti.
Forse avrei dovuto dirti di venire con me, ma dentro di me so che non avresti potuto capire a pieno come mi sento.
Dentro di te sapevi che la cosa giusta da fare era che fossi io, ad andare.
"Ed io sono qui."
-Scusami... tutto bene?-
La voce preoccupata di un ragazzo, mi risveglia dalla mia trance.
Senza accorgermene mi ero portato le ginocchia alla testa, e stringendo forte, quello sbucciato aveva preso a sanguinare.
Senza accorgermene ci stavo affidando le unghie dentro.
Avevo il volto distrutto dalle lacrime e dalla stanchezza.
-No. Non sto bene, ma non puoi farci nulla.- rispondo.
-Posso almeno, offrirti un fazzoletto?- continua lui, chinandosi verso di me.
Lo accetto, passandolo prima sul mio viso e poi sul mio ginocchio.
Il contatto con il tessuto arde di nuovo dolore.
-Mi chiamo Tomita Akira.- dice.
Non rispondo, non ho voglia di intrattenere conversazione, nello stato in cui sono.
- Frequento la scuola d'arte, qui a Tokyo. Oggi però sto andando a trovare mio nonno in ospedale.-
Alzo lo sguardo su di lui.
Ha i capelli corti e scuri così come i suoi occhi.
Ha un viso magro, con un neo sotto l'occhio sinistro, molto simile a quello di Suga-San.
Ha due pesanti occhiaie intorno gli occhi, tipiche di un'artista abituato a fare le ore piccole.
-Hinata Shoyo.- dico con un filo di voce.
-Piacere Hinata Shoyo, sei di a Tokyo?- mi chiede, cercando di distrarmi dal mio male interiore.
-Vengo dalla prefettura di Miyagi.-
-Hai fatto un bel viaggio per essere qui. Deve essere per un motivo importante.- dice lui cercando di sorridermi.
Si alza e viene a sedersi vicino a me, lasciando un posto libero tra di noi.
Mi porge una bottiglietta d'acqua.
La prendo in silenzio, scolandomela tutta.
Avevo ignorato come la mia gola chiedesse disperatamente acqua.
-Grazie, devo farti molta pena...- gli dico, dopo aver preso un respiro da quella bevuta compulsiva.
-No, credo che tu abbia bisogno di una faccia amichevole in questo momento.
So come ci si sente quando si è soli.
Non potrei presentarmi davanti mio nonno, che mi ha sempre detto di essere gentile verso il prossimo, se avessi ignorato la tua richiesta d'aiuto.-
Mi porge anche un onigiri.
-Prendi, ne ho tanti altri qui, non preoccuparti.-
Accetto, vergognandomi per sembrare un vagabondo agli occhi di quel ragazzo; ho decisamente bisogno di mangiare qualcosa se non voglio svenire sul posto.
Dopo aver finito il primo, ne toglie altri due dalla borsa.
-Vedi, mio nonno è molto anziano ed è sempre da solo.
I miei genitori non vanno mai a trovarlo. Di solito sono io che mi occupo di quello di cui ha bisogno. Posso dire di essere cresciuto assieme a lui. Vederlo da solo, in quel letto d'ospedale, mi distrugge ogni volta, per questo cerco di venire più spesso che posso.-
Riprende a parlarmi.
-Anche io... anche io sto andando in ospedale.- dico alla fine.
Non l'avevo ancora detto ad alta voce fino a quel momento.
Mi sembrava irreale, come cercare di afferrare del fumo a mani nude.
Non appena però lo dissi, divenne concreto e reale.
Potevo sentire il peso delle mie parole sulle mie spalle.
Tomita Akira fece un sorriso dolente.
-Lo immaginavo. Per un tuo parente?-
La testa sembrava pronta ad esplodermi da un momento all'altro.
-Non proprio.- dissi mordendomi il labbro inferiore per cercare di non crollare nuovamente in un pianto isterico.
- Non preoccuparti, se non ce la fai posso venire con te.-
Lo guardai senza capire.
Perché mai uno sconosciuto doveva offrirmi tutto quel supporto?
Quanta pena dovevo suscitare ai suoi occhi?
-Grazie ma, è una cosa che devo fare da solo.-
Lui sorrise nuovamente.
-Sei più coraggioso allora di quel che sembri dall'esterno.-
Il nostro breve scambio allevia la pesantezza del mio viaggio.
Tomita Akira mi racconta di suo nonno, senza che io glielo abbia chiesto, per cercare di ripescarmi dal baratro dove stavo cadendo.
Io per contro, gli dico che in quell'ospedale si trova la persona di cui sono innamorato e che ho fatto tutto questo viaggio da solo, al solo scopo di vederla.
Tomita Akira, scende ad una fermata prima del nostro comune capolinea, per sbrigare alcune commissioni.
-A presto Hinata Shoyo.- mi saluta lui scendendo dal treno.
Torno a rifugiarmi nella mia solitudine, fino a quando la voce del treno non annuncia la mia fermata.
Scendo con il cuore in gola e le gambe instabili.
Percorso da solo, correndo l'ultimo tratto di strada, prima di imboccare il viale d'ingresso dell'immensa struttura.
500 lontani, pesanti, amari, tremendi metri prima di arrivare davanti le porte d'ingresso del Tokyo Metropolitan Hospital.
"Sono arrivato."
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