quindici
Believer, Imagine Dragons
Con Harry cammino, ci muoviamo a piedi l'uno di fianco all'altra, e mi piace più di quanto credessi. Mi piace perché lui tiene il mio passo e io tengo il suo, ci adattiamo e parliamo. Parliamo poco, i silenzi sono tanti, ma per adesso va bene così.
«Hai già mangiato?» mi domanda, e gli basta guardarmi per rendersi conto che quella domanda avrebbe anche potuto non farla, che avrebbe potuto darsi una risposta da solo.
«Possiamo prendere qualcosa e andare a mangiare in un posto» dice e io annuisco, non gli chiedo dove andremo o cosa faremo. Voglio provare a tenere i pensieri da parte, voglio provare a vedere come potrebbe andare, provare a lasciare tutto, per una sola volta.
Sul volto di Harry spunta un sorriso e io alzo distrattamente gli occhi al cielo, mordendomi poi le labbra mentre mi volto e ricomincio a camminare, seguita da lui.
Ci fermiamo davanti ad una pizzeria che tiene già una delle serrande quasi completamente abbassata. Ci affrettiamo ad entrare e chiediamo se sia possibile ordinare qualcosa da portare via; il ragazzo dietro il bancone ci chiede cosa vorremmo e va ad assicurarsi che la cucina sia ancora aperta. Torna da noi poco dopo e ci da la conferma che aspettavamo.
«Dovrete aspettare pochi minuti» dice e Harry lo ringrazia, prima di chiedergli il conto.
Mi avvicino a lui e metto la mia parte sul bancone, ma Harry mi guarda e poi mi sfiora le dita della mano con le sue, in un vano tentativo di bloccarmi. Io mi irrigidisco al contatto e lui se ne rende conto, ma preferisce fare finta di niente.
«Ti ho lasciata ad aspettarmi per tutta la sera» si giustifica, e i suoi occhi verdi mi destabilizzano più di quanto vorrei.
«Io ti ho lasciato ad aspettarmi senza neanche provarci» replico e le mie parole sembrano stupirlo, poi scuote la testa e accetta la realtà.
Il ragazzo sorride da dietro il bancone, incassa i soldi e poi viene chiamato da qualcuno. Si sposta e rientra in cucina dove recupera il nostro ordine, che prende poi Harry tra le mani. Quando usciamo dal piccolo locale l'aria sembra più fredda di quanto lo fosse prima, e il non sapere dove Harry voglia fermarsi sembra alimentarla ancora di più.
«Posso portare io la mia, se vuoi» dico a Harry e lui si volta a guardarmi mentre continua a camminare, sollevando un angolo delle labbra in quel mezzo sorriso che sembra riuscirgli ogni volta meglio della precedente.
«Tranquilla» risponde soltanto. «Siamo quasi arrivati.»
Il vento inizia ad innalzarsi piano, mi scuote i capelli ad ogni passo, e mi rendo conto del motivo solamente quando riconosco la zona di Bath, solamente quando lo vedo. Il mare è una distesa piatta, è scosso da poche onde e poche sono anche le luci che si riflettono sulla sua superficie.
«Vuoi mangiare sulla spiaggia?» domando a Harry, fermandomi poco prima dell'inizio del pontile che porta sulla spiaggia.
«L'idea era questa, ti piace il mare?»
«Si, sì» gli assicuro, ricordando di quanto mi piacesse venirci. Non ne ho mai avuto paura, non mi ha mai spaventata, fino a quando poi non sono più riuscita a sentirmi al sicuro neanche soltanto guardandolo. «Mi piace.»
Harry però non sembra esserne convinto, perché è ancora fermo al mio fianco e mi guarda come se potessi spezzarmi da un momento all'altro. Vorrei dirgli che non succederà, che sto provando a restare salda, ma non faccio neanche questo.
«Possiamo andare altrove se vuoi, Mia.»
«Qui va bene» replico, perché mi va davvero bene. Mi ha sorpresa e voglio vedere fino a dove riesce a spingersi, anche se non ho nessuna aspettativa.
Harry mi sorride e io ho ancora le mani nelle tasche sul retro dei pantaloni quando attraversiamo il pontile costeggiato da piccole luci. Sento la sabbia sotto la suola delle scarpe, sento che quasi pesa sotto i miei passi. Ci fermiamo in una piccola struttura in legno quasi alla fine della spiaggia: è completamente aperta ai lati, ma ad ogni angolo ci sono dei pilastri cubici su cui ci poggiamo noi. Io sono su quello a destra, Harry è su quello a sinistra.
Apro il cartone della pizza sulle mie gambe incrociate e sento Harry fare lo stesso. Ne prendo un pezzo tra le mani e quando lo porto alle labbra continuo a tenere una mano al di sotto per evitare di sporcarmi. Il vento continua a scuoterci, e in questo momento vorrei soltanto legarmi i capelli.
«Ti stanno bene» dice Harry improvvisamente, quando provo a spostarli soltanto con le dita.
«Non ci sono abituata» gli rispondo e quasi me ne pento, quando lo vedo sorridere. Lo sa anche lui che non riesco a tenerli in questo modo, che ho sempre bisogno di raccoglierli, che così quasi non riesco a riconoscermi.
Alla fine ci rinuncio, continuiamo a mangiare e ogni tanto ho bisogno di spostarli ancora, ma non voglio più legarli. La pizza è quasi completamente fredda, però non mi lamento. Il rumore delle onde ci fa da sottofondo e mi sento rilassata quando lascio andare le spalle contro la parete della struttura dietro di me, mi sento bene.
«Hai lezione domani?» mi domanda Harry, tenendo la birra tra le mani prima di portarsela alla bocca. Quando mi volto verso di lui mi accorgo che non è rivolto verso il mare, ma verso di me. Mi sposto leggermente anch'io; continuo a tenere le ginocchia piegate e la schiena poggiata contro la parete, ma adesso sto guardando anch'io lui. È bello.
«No, domani no.» Ho i risultati di un esame, ma non glielo dico. Non glielo dico perché ci sarebbero delle domande a cui non voglio ancora rispondere, a cui non sono ancora pronta.
«Perché hai scelto i numeri?»
Io sospiro, mi sfioro le labbra con le dita e poi lascio andare anche la testa contro la parete, ma quando gli rispondo lo faccio guardando il mare. «I numeri danno certezze. A qualsiasi problema matematico, fisico o chimico, i numeri riescono sempre a trovare una risposta, una soluzione. Ci sono formule prestabilite, teoremi ai quali potersi appellare. I numeri danno quella sicurezza che nient'altro riuscirebbe a darti.»
È la Mia razionale che parla, la Mia realista, la Mia nata dopo aver capito che le illusioni non portano da nessuna parte, che riescono a fare solo male, che non sono altro che momenti, che ti possono portare via più di quanto immagineresti mai. È la Mia nata dopo aver compreso che la realtà non è per forza essere ottimisti, non è per forza avere una speranza, non è per forza trovare una ragione, quella che potrebbe fare la differenza. È la Mia nata dopo quella indifesa, quella debole, quella che voleva convincere gli altri e se stessa che il mondo sarebbe potuto cambiare, che io avrei potuto modellarmi e adattarmi alla sua forma, che avrei addirittura potuto cambiarlo. È la Mia nata dopo quella che aveva sempre una speranza tra le mani, quella speranza che è stata distrutta e ricomposta troppe volte per riuscire a tornare ancora una volta nella stessa forma.
«Dov'eri per tutto questo tempo, Mia Davies?» dice Harry dopo un po', mentre io sto ancora guardando il mare davanti a me. Mi volto verso di lui, ed è il modo in cui riesce a guardarmi che mi destabilizza ogni volta. Sembra scavarmi dentro ogni volta che lo fa, e sembra che io glielo lasci fare, come se non mi sforzassi neanche di opporre resistenza.
A Harry vorrei rispondere che sono stata dove sono ancora, che mi nascondo, che scappo, che voglio dimenticare anche se poi non lo faccio mai. Gli vorrei rispondere che sono bloccata in una costante terra di mezzo da un tempo che non riesco neanche più a quantificare, che alla fine finisco sempre per avere delle aspettative, che continuo a dare anche se mi viene solo tolto, anche se non ricevo mai.
«Ero» rispondo soltanto, forse per mancanza di coraggio, forse perché è troppo presto, forse perché mi esporrei ancora di più se lo facessi. Ma il mio «ero» comporterebbe che adesso io sia, e non ne sono sicura.
«E tu come fai a sapere tutto questo?» gli chiedo prima che lui possa rispondermi. «Come riesci ad avere la sicurezza di conoscere ogni cosa?»
Harry si rende conto di quello che ho fatto, si sta rendendo conto che parlare di me non mi piace, che a volte lo odio. Che odio le domande, odio le spiegazioni, odio parlare. Però mi sorride lo stesso, forse perché sono diretta, perché i giri di parole non mi sono mai piaciuti.
«Non ce l'ho» risponde, scrollando le spalle e piegando una gamba, per ripoggiarla sulla rientranza.
«Sembra il contrario» ribatto all'istante, diretta e decisa come tutte le volte che la mia sincerità mi ha portata a perdere qualcosa a cui tenevo.
Harry si sistema ancora, ha un braccio piegato sul ginocchio sinistro e questa volta è lui a guardare il mare e non me, mentre mi da una risposta. «Dipende tutto dal modo in cui guardi qualcosa o qualcuno. Dalle piccole cose, dai dettagli, da quel qualcosa che qualcuno non è mai riuscito a vedere.»
Mi chiedo come guardi lui le cose, come guardi me adesso, cosa veda. Mi chiedo se abbia cambiato idea su di me, che idea avesse prima di questa sera, cosa si aspettava anche se il patto era avere nessuna aspettativa. Se quei dettagli di cui parla li riconosca davvero, se gli basta davvero così poco, e così poco tempo per entrarmi dentro e cercarmi senza che io glielo permetta. Non ne sono sicura, perché se io non riesco a riconoscere me stessa per prima, come può riuscire a farlo qualcun altro? Ma è il fatto che Harry sembra diverso, a renderlo qualcosa che mi spaventa. Perché forse può riuscirci.
Non gli rispondo, mi volto anch'io verso il mare e resto lì, senza nessun bisogno di niente. Poi però sento Harry muoversi, e quando ritorno su di lui lo vedo già in piedi, mentre sfila una sigaretta dal pacchetto.
«Vieni, ti accompagno a casa» dice, recuperando ciò che entrambi abbiamo lasciato qui.
Mi alzo anch'io, e incrocio le braccia al petto per riscaldarmi, per abituarmi. «Posso anche tornare da sola, non sarebbe la prima volta.»
Ma Harry alza lo sguardo e inclina lievemente la testa. «Sai che non ti lascerò» dice quasi in modo disinteressato, sfilando un'altra sigaretta e porgendomela. Io la prendo e il contatto con la sua pelle è sempre lo stesso, è sempre irriconoscibile. «Vorrà dire che sarà la prima volta che non tornerai da sola.»
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