XXII. Disumanità.

Soundtrack – "Dawn of Faith – Eternal Eclipse", Thomas-Adam Habuda.

Un'ora dopo.

Le ginocchia avvertirono il pavimento ghiacciato, e i pensieri turbolenti le offuscarono la razionalità. Il naso fu a un soffio dal marmo, e il respiro affannoso le provocò un fastidio tremendo al centro del petto. Con le mani, la principessa si coprì il seno, poi ricordò di non poter nulla per la veste inzuppata d'acqua e le goccioline che cadevano dalle punte dei capelli neri.

Erano lei, la solitudine, le risate, la paura e il freddo nelle ossa.

Come anni or Sole.

La stessa ilarità nei toni delle guardie che l'avevano trascinata nella sala reale. Lo stesso tremore fra le dita delle mani. Lo stesso timore di ospitare quei momenti nei suoi incubi peggiori. E quando udì il suono degli stivali sulla superficie marmorea, non sorrise affranta soltanto perché la paura le stava bruciando anche i movimenti spontanei dei muscoli facciali.

China sul pavimento, come una chiocciola, a Victoria sembrò che il destino ce l'avesse con lei a priori. Il fatto che il padre indossasse le stesse scarpe dell'epoca le fece accapponare la pelle. Una coincidenza. Assurda, ma a tal punto da chiedersi se tutto quello fosse giusto. Se fosse lei quella sbagliata. Se avesse osato troppo. Se la sua voglia di libertà fosse un problema.

Avrebbe dovuto obbedire. Avrebbe dovuto scegliere la gabbia che le era stata imposta. Perché di ricevere altro male, altro dolore, altri colpi, udire altre urla e assaggiare altre lacrime... no. Quello no. Proprio non sentiva di meritarselo.

E la donna pregò che per lui non fosse stato lo stesso. Pregò che, in quel silenzio tombale della stanza, non avrebbe presenziato. E tirò un sospiro di sollievo nel sentire lo scricchiolio del portone principale che veniva chiuso. Dal rumore delle armature scintillanti e il fruscio dei mantelli intuì che le guardie del re la stavano raggiungendo.

La conferma. Uno di loro le afferrò i capelli. Lei gemette. Le diede un calcio nella scena e il lamento della principessa, mentre scivolava a terra, per loro fu effimero. Anche quando lei tossì e dovette portarsi una mano tremante sulle labbra. Nessuna pietà o rancore. Piegata e vulnerabile, contava meno di qualsiasi essere vivente. 

Né il padre proferì parola. Seduto sul suo trono di velluto, Xander osservò la scena delle guardie reali che trasportavano la nobile, come un verme, nei pressi degli scalini ricoperti da un tappeto cremisi. Ai suoi occhi, in quel momento lei era alla stregua di un qualsiasi abitante del reame.

«Alzati.»

E la Legendragon non ne ebbe le forze. Tremava. Tremava più di una foglia trasportata dai venti della Stagione della Luna. Anche il sangue si era gelato alla constatazione di quel tono così distaccato, crudo, gelido. Non era suo padre. Quell'uomo che le ordinava categorico di reggersi sulle gambe... non poteva essere lo stesso che l'aveva accudita dopo l'addio della madre.

L'unico. L'unico di cui aveva provato a fidarsi dopo il fratello. Ma la notte di tanti anni prima le aveva dimostrato che non era possibile. Che lo smettesse o meno, il sovrano avrebbe sempre scisso il dovere dalla famiglia. E le minacce della loro ultima colazione insieme, d'un tratto stavano acquisendo il senso che lei non avrebbe mai sperato di rafforzare.

«Ho detto. Alzati.»

Victoria ci provò. Perché non mollava mai. Perché l'idea che avrebbe potuto venir meno alla promessa fatta a Dorian le lacerava lo stomaco. Combatti. Contro tutto e tutti. Fai valere i tuoi ideali. Pensò a quelle e molte altre parole dallo stesso significato quando i polpacci bruciarono così intensi da diffonderle il dolore nella schiena. Nessun appoggio. La sola forza del suo corpo. Che miseramente fallì.

Durò pochi attimi. Poi, la principessa crollò a terra. E ringraziò gli Dei per non essersi slogata una caviglia per il modo rovinoso della caduta. Le risate di sottofondo le echeggiarono nelle profondità del cervello. E due lacrime le solcarono il viso. Le asciugò in una frazione di secondo, ma non sollevò mai il volto. Vedere la rabbia, la delusione e lo spavento su quello del padre... l'avrebbe ammazzata dentro.

Così, si asciugò le mani bagnate sull'abito sgualcito e fradicio. Solo in quel momento comprese quanto fosse evidente la sua paura: non aveva più il controllo dei suoi muscoli. 

«Alzatela.»

Un altro ordine ringhiato del re. Ma non a lei. I due che l'avevano trascinata dai corridoi alla sala reale si avvicinarono. E Victoria ricordò ogni singolo istante prima dell'arrivo nella sala reale. Lo sgomento e lo stupore nelle voci della servitù nei paraggi. La vergogna di essere vista quasi nuda. Le condizioni non adatte a una futura regina. E le costanti preghiere interiori di non incontrare il fratello.

Non ancora. Non avrebbe più voluto che lui prendesse parte a quelle situazioni.

La forza nelle braccia di una guardia reale le fu davvero d'aiuto. Riuscì a stare in piedi. Ma la mano dell'altro, sul suo sedere... la fece sussultare e sgranare gli occhi.

No. No. No. Tutto ma non quello. Sbiancò di colpo. Si irrigidì. La saliva sparì. Il dolore le arrivò nell'anima, disintegrandola. E per un frangente desiderò di non essere mai nata. Di non avere nulla a che fare con nessuno. Voleva vomitare. Voleva uscire da quella stanza. Le mancava l'aria. Stava impazzendo. La testa le girava. Il panico la stava assalendo in un modo che non avrebbe potuto controllare . Le bruciò così tanto la gola da chiedersi se le corde vocali non fosse scoppiate da un momento all'altro.

Victoria immaginò quelle mani ovunque. E capì che non erano quelle a volere sul suo corpo, poiché contro ogni suo desiderio. Contro ogni sua volontà. Sudò freddo, e assodò che in vita sua non si era mai, mai, mai impaurita come in quel momento. Vedeva la morte da lì a pochi passi. Perché avrebbe preferito morire piuttosto che avere di nuovo quei polpastrelli desiderosi di toccarla su una sua natica.

Si sentì come sott'acqua. Con la paura di annegare e sparire per sempre. E pensò che se non ci fossero stati metri e metri, una scala e un corridoio da percorrere tra lei e il primo piano, si sarebbe gettata dalla prima finestra che avrebbe incontrato. Perché si sentiva una sciocca. Non riusciva a spiegarsi perché ci stesse così male. Perché sentisse quel gesto come un'invadenza, un disagio, un dolore peggiore di qualsiasi altro schiaffo, ingiustizia o rimprovero che aveva subito negli anni.

Era diverso. Perché questa volta, a differenza di quand'era stata piccola, le era balenato in testa di togliersi la vita.

L'uomo avvertì la sua paura e rise. Allontanò la mano e le spinse la testa in segno di avvertimento. Abbassa il capo. O ti accadrà di peggio. Il lato peggiore della vicenda fu constatare che ci fosse stata un'alta probabilità che il padre l'avrebbe permesso. Dopotutto, i suoi pensieri erano chiari: credeva che la figlia avesse consumato. E disonorato la sua casata per l'eternità.

«Guardami.»

Victoria notò che, per la prima volta in vita sua, il padre stava usando il tu con disprezzo. Nulla a che vedere con la morbidezza delle loro conversazioni. E svanì tutto. Nei suoi pensieri, tutti i bei momenti trascorsi con il sangue del suo sangue furono ricordi sfumati. Come se davanti a lei ci fosse qualcun altro. E non l'amato e tanto osannato Re del popolo.

La guardia che l'aveva palpata le sollevò il mento. La costrinse a osservare il re. Ma le lacrime la privarono di una buona visuale.

E non ci fu compassione nello sguardo di Xander. Rabbia. Una rabbia che, secondo la principessa, stava trattenendo fin troppo bene.

Il silenzio regnò nei minuti successivi. Il sovrano la costrinse a vergognarsi, poiché l'umidità del vestito le evidenziava i capezzoli, le curve del corpo, qualunque cosa la privasse della dignità reale. E le si seccò la gola e implorò gli Dei la fine della giornata quando avvertì la guardia alla sua destra inclinare il capo per squadrarla dietro. Il cavaliere alla sinistra gli ringhiò a bassa voce di smetterla.

«Dov'è Dorian?»

A malapena udibile.

E il re resistette alla tentazione di non spalancare gli occhi. Di tutta quella situazione, di quella vergogna pubblica, delle conseguenze delle sue azioni... Victoria Legendragon si stava preoccupando solo di lui. Del Fae dalla chioma bianca. In un sussurro di voce così debole e bambinesco da far pena al peggiore degli assassini.

Xander non rispose. Si limitò a squadrarla dalla testa ai piedi... come un oggetto. Usurato, consumato, pronto a essere gettato. E Victoria scommise che, in quel momento, il padre stesse pensando di liberarsi di lei.

Ma il sovrano non sollevò sopraccigli. Né labbra.

E con la stessa freddezza, ordinò: «Rigettatela a terra. E fatele capire la gravità.»

L'uomo che l'aveva toccata non ci pensò due volte ad afferrarla da una natica – di nuovo, di nuovo, di nuovo – e farle perdere l'equilibrio. Fu peggio della caduta precedente. E l'urlo di dolore che ne uscì avrebbe spezzato anche il più crudele dei tiranni.

«Altezza...»

«Qualcosa non va, Ettore?» cantilenò il re, derisorio, furibondo. Il cavaliere più magnanimo dei due – alla sinistra di Victoria – deglutì, perché aveva capito l'allusione. Il vero significato di quella domanda.

Ma sfidò comunque il sovrano. «Credo che la principessa voglia chiudere la vicenda il prima possibile. E non gradisca» si fermò per deglutire «l'invadenza del mio compagno di guardia.»

«Quale invadenza?» domandò il re, quiete. Come se i singhiozzi di Victoria non contassero nulla. Tantomeno quello che, in quella sala, avevano visto tutti.

«Rydion?»

«Sì, Vostra Maestà?»

«Credete di essere stato invadente?»

Il cavaliere spavaldo sulla destra tentennò. Era una trappola? Poi appurò che mentire sarebbe stato anche peggio. Non ricordava l'ultima volta che lui e l'amico avevano rivisto un altro compagno dopo che aveva riferito una menzogna al re.

«No, altezza.»

«Bene.» Xander si guardò le unghie, ignorando i singhiozzi più forti di una Victoria piegata a terra fino all'inverosimile. «Problema risolto.»

«Altezza...»

«Uscite da questa stanza, sir Ettore. Se credete che sia troppo, uscite. Subito. O le conseguenze saranno molto più gravi di quel che credete.»

Sir Ettore non se lo fece ripetere due volte, ma compì il gesto in modo moderato. Abbassò il capo per un inchino, poi voltò le spalle. E a piccoli passi, si diresse verso l'entrata.

Ma quando udì il rumore di una spada sguainata, Victoria si girò di colpo. Rannicchiata a terra, trattenne un singhiozzo e le si bloccò il respiro dal terrore. Le lacrime sgorgarono senza pietà.

Non conosceva quell'uomo. Non ci aveva mai avuto a che fare. Ma aveva avuto pietà di lei. Aveva eseguito gli ordini del re. L'onore prima di tutto. La corona prima di ogni altro. E aveva peccato di ingenuità. Si era fatto sopraffare dalla misericordia. Del non riuscire a vedere la principessa ridotta a uno straccio bagnato. E alla fine, a rimetterci con la vita era stato lui. Dopo l'ordine che il re aveva impartito alle guardie all'entrata.

Victoria non riuscì a guardare un secondo di più. Le sue guance toccarono il pavimento. Il muco le coprì le labbra, e pianse terrorizzata. La testa del cavaliere rotolata sul pavimento l'avrebbe ricordata nei peggiori dei suoi incubi.

Era talmente scossa e turbata – anche dai coniati di vomito – da non avvertire neanche il calcio di sir Rydion nella schiena. Aveva già toccato il fondo. Non poteva strisciare più di così.

«Adesso comprendi, figlia mia?»

Victoria non seppe se essere più spaventata dai tacchi degli stivali premuti sugli scalini – segno che il re si era alzato – o dalla dolcezza nel tono di voce. Come se tutto quello spettacolo fosse stato un semplice gioco.

E iniziò a singhiozzare e tremare il doppio. Più rumorosa. Più straziante. Non si stava comportando per niente come una nobildonna dal protocollo ferreo. Ma non le importò. Perché la paura la stava divorando atroce. Passo dopo passo del padre, Victoria si fece più piccola. Da lontano, sembrava il guscio di un animale che si riparava da un predatore.

Il re la raggiunse, si inginocchiò e la osservò. Con la vista sfocata e i capelli sulle ciglia, Victoria scorse comunque le ginocchia del padre coperte da un tessuto marrone. E sobbalzò forte al contatto della mano del monarca sul suo viso.

Xander la stava accarezzando come un leone con il suo cucciolo. Come se nulla di tutto quello fosse accaduto. E Victoria lo avrebbe desiderato. Tornare indietro nel tempo. E udire i passi del padre al momento opportuno.

«Dopo la nostra discussione a colazione...» vociferò il re, spaventosamente dolce, mentre le accarezzava il viso «ero venuto a consegnarti il mantello che avevi dimenticato prima di andartene. Le guardie di veglia mi avevano riferito che eri già uscita per i tuoi allenamenti. Così, libero da incarichi ufficiali, ho deciso di portare con me la mia scorta e trascorrere un po' di ore all'aria aperta. Ho approfittato del tempo libero per raggiungerti. Consegnarti tutto. E poi andarmene per garantirti ore di tranquillità e allenamento.»

Victoria non aveva mai pianto così tanto in vita sua. Né ricordava la stabilità del suo corpo. Era priva di controllo. Il tremare la stava distruggendo.

«E guarda cosa mi hai fatto, bambina mia...» le accarezzò ancora le gote con una delicatezza che sortì l'effetto contrario: paura e dolore.

«Il nostro sir Rydion ti ha toccata... hai provato disgusto... ma quando davanti ai miei occhi era stato quel Fae a farti lo stesso... oh, cuore mio. Non ho visto le stesse lacrime e le stesse condizioni di adesso. Come mai?»

Victoria rabbrividì. Per la crudeltà di quelle parole, in un sussurro calmo e ponderato. Per l'allusione che le stava facendo il padre, come se le due situazioni potessero anche solo lontanamente essere messe a paragone. Pregò. Rannicchiata a terra, Victoria pregò per la sua anima. E anche per quella del re. Perché da quel giorno... gli Dei della Misericordia sarebbero stati meno inclini al perdono.

«Come mai, piccola mia?» la accarezzò ancora, anche sul mento. Percepì il bagnato della pelle. «Come mai? Sii sincera. Abbi fede.»

Victoria desiderò la fine di quell'esistenza. Adesso ne era sicura.

Perché come avrebbe più potuto convivere con quei ricordi? Come avrebbe anche solo potuto immaginare di proseguire in quella vita? Dove tutto ciò che faceva le sembrava errato? Dove anche la sincerità e l'innocenza delle sue azioni, davanti al padre, perdevano la sostanza?

E peccò della stessa ingenuità.

Della fanciullezza per cui l'amavano tutti.

«Perché io lo amo.» esalò in un fiato.

La bocca tremante. Il pianto a seguito più intenso. Le risate amare del cavaliere a pochi passi. La rigidità nelle spalle di Xander, e il blocco delle sue carezze.

Lo amo.

E forse l'ho amato, senza saperlo, dal primo istante in quei giardini reali.

Avrebbe voluto urlarlo. Il coraggio che non aveva mai trovato davanti al diretto interessato della sua confessione. Ma ora il re lo sapeva. Era al corrente del legame che la tratteneva al Principe dei Fae. All'uomo che avrebbe sancito la pace nel Continente. Al nobile che, quasi ogni giorno, presenziava nei consigli e camminava in quei corridoi.

E all'improvviso, con il pianto di Victoria estenuante e intollerabile di sottofondo, Xander impallidì. I pensieri che gli balenarono in testa rischiavano di mettere a repentaglio la tranquillità delle corti di ogni reame.

«Ti ha tolto la purezza?» sussurrò il re. Calmo.

Poi, autoritario. «O è accaduto prima di oggi, Victoria?»

Victoria restò in silenzio. Sola con la sua fragilità.

«Rispondimi.» ordinò il re.

Ma nulla.

«Hai consumato nelle tue stanze? Sei violata? Impura?». Poi urlò: «Indegna?»

«Padre...»

«Rispondimi!» ringhiò. Così alto da echeggiare fuori dalla stanza.

Ma l'unica replica che ricevette fu il suono del pianto della figlia. Peggio di un neonato. Più doloroso di qualsiasi creatura vivente.

«Rispondi al tuo re, Victoria Legendragon!»

Tutte le guardie che accerchiavano la stanza non ebbero il coraggio di guardare. E avrebbero voluto perdere l'udito.

Nell'esatto istante in cui il pianto di Victoria aumentò. A dismisura. Fruscii di abiti, urla, voci spezzate, imprecazioni del re. Molti di loro non assistettero. Chinarono il capo. Altri chiusero gli occhi.

«Rispondimi!» urlò ancora. «Rispondimi, Victoria! Giuro sugli Dei che se non mi rispondi- Rispondi e basta! Rispondi al tuo re!»

Ma Victoria per davvero non ce la faceva. Non sapeva con quale coraggio avesse confessato quei sentimenti, nell'ingenuità di poter salvare il destino dell'amato. Dovrò pur valere qualcosa per mio padre, aveva pensato. Dovrà perdonarmi se capirà che non mi stavo donando a un uomo qualunque. E invece la reazione era stata tutt'altro. Un silenzio raggelante. Che era valso più di mille parole.

E poi il gesto. La violenza con cui l'aveva afferrata da un braccio per farla rialzare.

Senza forze, Victoria piagnucolò ancora. Avrebbe tanto voluto reggersi in piedi, ma non ce la faceva. I cavalieri l'avevano trascinata in un modo così violento, dai giardini reali alla sala del trono, che lei aveva perso ogni forza interiore. E nella stanza, l'avevano sbattuta a terra senza pietà.

Ma fu nell'incontrare le iridi del padre che capì la gravità della situazione. Il pianto non si assestò mentre il re si era fermato dal trascinarla verso gli scalini.

E con un'espressione glaciale e severa, ordinò: «Sir Rydion. Raggiungeteci.»

«No.» biascicò Victoria, prima di tossire.

Terrore.

Terrore puro.

Il cavaliere si avvicinò spavaldo.

Victoria arretrò sugli scalini. Lontana da lui.

«No. No.»

La guardia avanzò. Il trionfo sul viso.

«Vi prego. No. No. Vi prego. No. No. Padre...»

Il cavaliere le afferrò i polsi prima che lei potesse superare l'ultimo scalino per raggiungere il retro del trono e difendersi. Aveva strisciato con la paura talmente vivida da ignorare il sangue sulle ginocchia ferite dai gradini appuntiti.

«No!» urlò. Il tono irriconoscibile. «No! Vi prego!»

Il cavaliere le spalancò le gambe e si sistemò al centro.

«No! Padre! Vi prego! No!»

Xander incrociò le mani. Osservò la scena. Imperturbabile.

«Padre!»

Inflessibile.

«Padre!»

Disumano.

«Padre!»

Incurante.

«Vi prego!»

Convinto che la punizione potesse farle dimenticare qualunque azione futura nel riprovare ciò che aveva fatto in quel lago.

«Padre! Padre! Padre! Vi supplico! Vi supplico!»

Il pianto di Victoria era diventato insopportabile per chiunque. Troppo straziante. Troppo sentito. Troppo. Semplicemente troppo.

«Vi scongiuro! Padre!»

Il cavaliere le tirò i capelli e ringhiò: «Taci, puttana. Sognavo da una vita di venirti dentro o infilartelo in bocca.»

«Padre! Padre! Vi prego! No! No! No!» gridò ancora lei.

L'ultimo no durò un'eternità.

Poi urlò. Urlò talmente forte da far tremare le finestre.

E tutti i Cavalieri della stanza chiusero gli occhi e chinarono il capo.

Sala del consiglio reale.

«Che sta succedendo?» esclamò Dario Wealthagon.

Aveva alzato la testa e raddrizzato la schiena nell'esatto momento in cui urla disperate avevano raggiunto i muri delle stanze in cui, in compagnia di alcuni consiglieri reali, stava firmando pergamene contrattuali.

«Nulla di cui dobbiate preoccuparvi, altezza.» mormorò un nobile, indicando a un cavaliere di appoggiare sul tavolo un'altra pergamena.

«Voglio sapere che sta accadendo. Adesso.» ordinò il principe.

C'era un tale terrore nel suo tono di voce da destabilizzare chiunque. E l'autorità peggiorò l'umore generale.

I due consiglieri a conoscenza della punizione reale si guardarono per un breve frangente. Annuirono. E uno di loro, udendo il ticchettio incessante della penna di Dario sul tavolo, sbuffò: «Sua Maestà è impegnato a impartire ordini, altezza. Si assicura che le regole di corte vengano rispettate dai suoi sudditi.»

«Sudditi?» esclamò ancora Dario. «Ne siete sicuri?»

«Siamo tutti suoi servitori, altezza.»

«Anche sua figlia?»

Il consigliere si irrigidì per un attimo. «Anche sua figlia.»

Su un dito, Dario torturò un anello con una pietra verde. Lo esaminò per dei secondi, poi sollevò il capo e reagì d'impulso.

Anche sua figlia. Era stata una conferma. Erano le sue urla.

Si alzò dal tavolo. Scattò. Ma le lance di due guardie – una a sinistra e una a destra – gli bloccarono il passaggio.

«Voglio vedere la futura regina.»

«Mi chiedete troppo, milord. Il re ci ha chiesto di-»

«Voglio vedere mia moglie. La mia futura moglie.» urlò Dario. Dittatoriale.

«Milord, non-»

«Portatemi immediatamente da lei, o giuro sugli Dei che vi proteggono che ridurrò questa stanza in cenere e dichiarerò guerra al reame! E ogni singolo abitante di questo Regno subirà la furia di tutti gli eserciti di Wealthagon, categorie superiori e categorie inferiori, e di quelli che riuscirò a corrompere per portarmi la testa di Re Xander Legendragon e le sue budella sui tappeti del mio palazzo! È chiaro?»

Le guardie vennero meno al loro comando. Abbassarono le armi, perché nessun consigliere aveva proferito parola, onde per cui l'assenso generale era chiaro.

Era il futuro marito della loro regina. Avrebbero potuto costringerlo fino a un certo punto. Non se fino a qualche secondo prima firmava accordi a tema.

Dario guardò cagnesco i consiglieri ancora per un istante, poi si diresse ad ampie falcate verso l'uscita. Ma proprio lì, fu bloccato da un altro incrocio di lance sulla porta.

«Sua Maestà è stato chiaro con voi giorni fa, milord. Zero contatti con la principessa. Zero dialoghi. Zero incontri.»

Dario si girò. E fece una risata amara e raggelante al tempo stesso. «Il vostro re ha idea di chi sono?»

«E voi avete la benché minima idea di chi sia lui? L'uomo che un domani occuperà il Trono dei Troni. Il politico per eccellenza. L'invidia di tutti. Quindi vi suggerisco di ponderare le parole, mio signore, o la sua furia potrebbe distruggere voi, vostro padre e qualunque angolo del vostro reame.»

«Mi state dichiarando guerra.»

«No.» intervenne un altro. «Vi stiamo invitando alla pace.»

Dario analizzò ogni angolo del posto. Ogni volto. Ogni vestiario. Ogni oggetto.

Restò in silenzio, e tutti con il fiato sospeso. L'aria era più tesa di una corda.

Poi, il principe sorrise.

Ma di una malignità sconvolgente.

«Per la principessa Victoria, siete davvero disposto a distruggere il Continente?» chiese un altro.

E prima che nella stanza potesse scoppiare il caos più totale, Dario fissò l'uomo. Compì due passi verso di lui.

E sussurrò, diabolico e iracondo:

«L'intero universo.»

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top