𝐗. 𝐄𝐬𝐢𝐠𝐞𝐧𝐳𝐞

I'm waking up to ash and dust
I wipe my brow and I sweat my rust
I'm breathing in the chemicals
I'm breaking in, shaping up, then checking out on the prison bus
This is it, the apocalypse
Whoa
I'm waking up, I feel it in my bones
Enough to make my systems blow
Welcome to the new age, to the new age
Welcome to the new age, to the new age
Whoa, oh, oh, oh, oh, whoa, oh, oh, oh, I'm radioactive, radioactive

𝐄ra trascorsa una settimana con una strana e placida calma.
Martin -come suo solito- lo aveva invitato ad uscire quasi ogni sera, quando non aveva turni notturni, e come sempre aveva rifiutato. Atlas non trovava particolarmente interessante la vita allegra notturna, preferiva quella piena di catrame e peccati, dove poteva far rinascere il suo vero animo.
Era solo in libreria quel giorno e così sarebbe stato per i successivi. Lindsay era partita insieme a Paul per un piccolo e breve viaggio insieme. Atlas non era preoccupato, questo non faceva parte della sua sfera emotiva, semplicemente quel ragazzo ormai non gli piaceva, soprattutto perché credeva fosse coinvolto e manipolato dal suo più grande incubo.
Si ostinava a non volerci pensare, ma la sua mente continuava a proporgli ricordi poco piacevoli sulla sua infanzia.

«Jeremiah, ti ricordi la preghiera, vero?» Fernando aveva acceso un fiammifero.

Prese un piccolo respiro, era abituato. Sentire dolore era la quotidianità, al punto tale che ormai non riusciva nemmeno più a piangere. E se da un lato fosse un bene, perché non si sarebbe mai mostrato debole, probabilmente un ragazzino di otto anni avrebbe dovuto mostrare le proprie emozioni, sentire qualcosa. Invece, non sentiva più nulla, mentre la sua schiena si ustionava ancora, riempendosi di nuove cicatrici bollenti. «Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi,  e molto più perché ho offeso te,  infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Propongo col tuo santo aiuto di non offenderti mai più  e di fuggire le occasioni prossime di peccato. Signore, misericordia, perdonami.»
La voce era rotta da una leggera sofferenza. Atlas continuava a guardare fuori alla finestra del bagno, mentre Fernando non faceva altro che passare la fiamma vicino la sua schiena. Guardava la campagna, il terreno verde dei vicini e la loro fattoria.
Forse se avesse urlato sarebbero corsi in suo aiuto, ma non ci provò mai. Era cattivo, lo sapeva bene e doveva solo imparare a convivere col male che cresceva in lui.
Forse avrebbe trovato la retta via. O forse no.

«Bravo, Jeremiah. Ricordati che lo faccio anche per te, per la tua anima. Dobbiamo liberarla. Devi smetterla di dare ascolto al demone che vive in te.» Gli accarezzò la nuca con una mano e riempì poi la vasca di fronte a lui.

Atlas intravide, dal riflesso della finestra, la figura di suo padre alle proprie spalle, mentre osservava per l'ennesima volta la pratica esorcista del giorno. Teneva le braccia incrociate al petto e uno sguardo preoccupato, ma sollevato. I suoi capelli erano confusi e disordinati. Non parlò, in fondo non poteva biasimare suo padre per odiarlo, se sua madre era morta era tutta colpa sua.
Era sempre colpa sua.
Il prete gli strinse i capelli in una morsa violenta e spinse il suo capo sotto l'acqua gelida. Atlas socchiuse gli occhi. Sentì quasi i polmoni collassare, quando lo tirò nuovamente fuori, facendogli riprendere aria per qualche istante. Le gocce d'acqua caddero ai loro piedi.

«Prega per la tua anima, Jeremiah.»

Atlas tossì. Odiava quel nome, non lo sentiva proprio. Sua madre lo chiamava sempre diversamente, ma adesso non aveva il diritto di evocare il suo ricordo. A scuola, però, chiedeva alla maggior parte dei suoi compagni di chiamarlo in quel modo, riusciva a sentirsi diverso. «Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi.»

E ancora una volta giù, sott'acqua. Forse avrebbe sperato che tutto finisse lì, nessun problema, nessuna difficoltà. Voleva semplicemente essere un ragazzino come tanti, ma il suo inferno, il suo incubo, era solo all'inizio.

Si era appisolato appena col capo sul bancone. Erano notti che ormai non dormiva, o per lavoro o perché troppo tormentato da quei vecchi ricordi. Si ridestò solo quando sentì battere un pugno sul legno su cui era poggiato. Di scatto si svegliò, alzando lo sguardo verso il suo interlocutore.
Martin sorrideva divertito. «Vorrei sperare tu abbia fatto una notte brava, ma a quanto pare mi sbaglio. Ti ho portato il caffè.»
Atlas inarcò un sopracciglio. Erano appena le tre del pomeriggio, era strano avesse staccato da lavoro. Iniziò a scrutarlo. «Ovviamente corretto.» gli passò il bicchiere e Atlas lo tracannò con disinvolta scioltezza, ignorando lo sguardo confuso di Martin.

«Allora come mai sei qui?» Sbuffò appena. Atlas aveva imparato a stare nella società, a non rifuggire da qualsiasi contatto fisico, ma restava pur sempre un sociopatico comune, che aveva bisogno della propria solitudine. Gli avevano detto più volte i medici che sarebbe stato difficile instaurare legami seri da parte sua, perché involontariamente avrebbe sempre cercato un guadagno. Iniziava a credere di essersi avvicinato a Martin solo per poter avere notizie interessanti dalla polizia e poter allungare la lista (già enorme di suo) di soggetti potenzialmente da uccidere.

Martin tirò una sedia, accomodandosi di fronte a lui. «Ho una proposta normale. Ho conosciuto questa ragazza, è fantastica, si chiama Shayla.»

«Sembra il nome che darei a un cane.»

Martin ignorò la provocazione, non riuscendo a nascondere un sorriso quasi divertito. Gli zigomi alti si contrassero all'insù, sebbene cercasse di nascondere in tutti i modi l'ilarità del momento. «Comunque sia, l'altra sera in un locale eravamo a bere insieme a lei e ci ha invitati per una cena nel suo ristorante... ti unisci a noi?»
Atlas era pronto a dare l'ennesima risposta negativa. «E dai, altrimenti Hercule rimarrà solo e non potrò avere occasione solo di parlare con lei...»

«Scusa e cosa dovrei fare esattamente? Mettermi un vestito elegante e portarmi a letto Hercule? Ma ti sei fumato il cervello o cosa?!» Atlas lo guardò male e ringraziò il cielo che le forbici non fossero sulla scrivania. Chissà Lindsay dove le aveva nascoste. Forse si era preoccupata della loro vicinanza quando uno dei soliti clienti insopportabili lo aveva fatto un tantino innervosire.

Martin rise divertito e scosse il capo. «No, semplicemente parlate tra voi, lo fate sempre ogni volta. Mi sembra quasi di essere il terzo incomodo quando andiamo a pranzo assieme.»

«Vorrai dire che lui lo è, ti ricordo che tu hai scosso la nostra equilibrata routine.»

Il poliziotto ignorò le sue accuse, scacciandole via come insetti fastidiosi. «Senti, Hercule è chiaramente interessato a te-»

«Ha una figlia, dubito che il mondo maschile possa interessargli.»

«Adottata.» Martin sbuffò infastidito. Atlas era certo di aver perso qualche parola del suo discorso successivo, dopo quella breve rivelazione. Come se il suo cervello si fosse improvvisamente svuotato. Scosse il capo. «... quindi allora? Mi aiuterai nella mia missione di conquista con Shayla?»

Atlas scosse il capo. «Ci devo pensare.»

Martin sembrò soddisfatto di quella risposta. Si tirò in piedi e lo salutò con un cenno veloce. «Dopodomani sera. Alle nove. Mettiti una camicia e arriva in orario.»

Atlas rimase ancora solo coi propri pensieri, di nuovo. Osservò la sedia vuota lasciata da Martin e si lasciò andare a un sospiro frustrato. Ultimamente aveva così tanta rabbia da scaricare, che non sarebbe bastato un omicidio.
Voleva picchiare, sporcarsi le mani di sangue e respirare aria putrida.
Sfilò il cellulare dalla tasca e contattò un vecchio numero, che aveva sepolto per un po' di tempo.
Era giovedì, di solito gli incontri avvenivano nel seminterrato di un vecchio negozio di whiskey scozzese.
Si organizzavano incontri di boxe, dove poche regole erano valide e soprattutto scorrevano fiumi di alcol e scommesse a non finire.
Aveva bisogno di eliminare quelle tossine dal suo corpo e quale modo migliore se non quello di poter prendere a pugni qualche bel faccino, convinto che qualche muscolo pompato in più lo avrebbe reso invincibile?

La sera si preparava davanti allo specchio. Nel borsone aveva i pantaloni di una tuta e una vecchia canotta bianca. Preferiva combattere a mani nude, lasciare che le nocche si scorticassero e il sangue dell'avversario le sporcasse. Così a circa mezzanotte uscì da casa e si sistemò un berretto sul capo, incamminandosi in tranquillità per le strade silenziose di Edimburgo. Era sempre stato sicuro che il giorno potesse vedere la sua vita trascorrere in maniera noiosa e comune, mentre la Notte e la Luna conoscessero bene la sua natura e i suoi peccati.
Si sentiva parte integrante di quel mondo e aveva l'assurda convinzione di essere legato a quel satellite, di cui tutti ammiravano la bellezza, senza guardare oltre, individuando la condanna di orbitare attorno a una stella più grande e luminosa di lui.
Sentiva di avere quella sorta di maledizione della Luna.
Non importava quanto potesse essere bella, esisteva per per essere all'ombra di qualcuno. E Atlas sapeva bene quale fosse l'ombra che aveva segnato il suo destino, si ostinava solo a nasconderla, nel timore che stesse tornando.

Una volta raggiunto il vecchio negozio, mormorò la parola d'ordine e fece il suo ingresso. Il vecchio butta fuori lo riconobbe e sorrise a trentadue denti. Quel sorriso smagliante e bianco come perle era in netto contrasto col colore scuro della sua pelle. «Spector il triste libraio dal pugno d'acciaio.» Ridacchiò divertito, portandosi le mani alla pancia. Atlas roteò gli occhi, dirigendosi verso lo spogliatoio. «Punto tutto su di te! Non deludermi!» Gli urlò dietro.

Si sistemò, indossando la tuta e si asciugò un po' di sudore con l'asciugamano. Dopodiché salì su quel ring improvvisato. L'aria era densa, sporca. Il fumo dei sigari e delle sigarette creava una strana cortina puzzolente, unita al fetore del sudore e dell'alcol che scorreva a fumi nei loro bicchieri.
Atlas fece schioccare il collo, rilassò appena i muscoli, mentre con la coda dell'occhio osservava il suo avversario, dal lato opposto. Poteva avere all'incirca la sua età, più di trent'anni, ma non abbastanza da sembrare un quarantenne invecchiato male. Era un uomo di grande stazza e mole, nulla che lo preoccupava abbastanza. Continuava a battere i pugni contro la rete che li separava dal pubblico, cercando di ingraziarsi gli scommettitori. Atlas non era lì per vincere chissà quanto denaro. Era lì solo per scaricare la tensione.
L'arbitro dell'incontro, un uomo paffuto e grasso, dai baffi sporchi ancora di panna, si affacciò.

«Mi raccomando, le regole le sapete. Niente morsi, niente morti.»

Atlas roteò gli occhi al cielo, anche se da un lato capiva il loro punto di vista: smaltire un cadavere doveva essere scomodo per chi non era attrezzato.

«Che c'è, meticcio, hai paura?» l'avversario lo schernì.

Era abituato a quel genere di provocazioni di dubbia intelligenza, d'altronde però non lo scalfivano abbastanza. Inoltre, provocarlo sarebbe solo stato peggio per lui.

Saltellò appena sui piedi e scansò il gancio sinistro dell'avversario. Si abbassò appena e lo colpì allo stomaco. Lo vide socchiudere gli occhi, facendosi sfuggire un rantolo di dolore. Fu quel suono, quella melodia a risvegliare tutta la sua rabbia. La necessità di sopraffare una preda, un po' debole. Iniziò ad accanirsi contro di lui, costringendolo ad arretrare o a parare i colpi. Si susseguivano pugni e calci.
Atlas sferrò l'ennesimo gancio destro, che andò a scontrarsi contro le braccia dell'avversario, che cercava di pararsi.
Le urla della folla che incitavano allo scontro sembravano esaltarli.
Si prese un momento du pausa per concedere all'avversario l'idea di poter vincere, l'errata convinzione che fosse stanco.
L'uomo lo colpì in pieno volto, sul naso. Iniziò a sanguinare e la canotta bianca si tinse di rosso.

«Ora non fai tanto lo spaccone, eh?» Lo prese ancora in giro. Alzò le braccia per attirare le attenzioni e le urla del pubblico, si nutriva del loro amore.
Ridicolo.

Atlas socchiuse gli occhi, respingendo il dolore e si tirò i ciuffi di capelli all'indietro. Sorrise, mettendo in mostra i denti sporchi di sangue, all'avversario. Approfittando del suo stato di confusione, lo colpì in volto sul naso, quando si accasciò, poi, gli assestò un calcio agli stinchi, punto dolente da sempre.
L'avversario ruzzolò a terra, dolorante.
E lì, Atlas perse il controllo. Lo sovrastò.
Un pugno in volto.
Poi un altro.
Il suo sangue sporcava le nocche.
«Non respiro!»
Lo colpì ancora. I suoi occhi erano gonfi.

Sentì due forze trascinarlo lontano dal corpo semi svenuto dell'avversario, che però respirava ancora -per sua fortuna-.
L'arbitro gli confermò la vittoria e i due uomini si avvicinarono al corpo. Atlas pensò che fossero i suoi fratelli a giudicare dalla somiglianza, anche se adesso non era più così lampante dato il volto tumefatto dell'avversario.

Si guardò per un attimo attorno sul ring. Le nocche delle mani dolevano, non era mai piacevole scontrarsi a mani nude. Il sangue dell'avversario si era unito al proprio. Eppure, mentre osservava quella folla che lo chiamava a gran voce, confuso dalla cortina di fumo e da quell'unica luce a neon, intravide quello sguardo.
Sentì il mondo crollargli sulle spalle.
Quegli occhi scuri come due buchi neri difficilmente mi avrebbe dimenticati, tormento dei suoi incubi peggiori.
Sentì un tremolio invadere le sue gambe e un brivido freddo percorrere la sua schiena, con la stessa velocità con cui un serpente attacca una preda.
Non percepiva più nulla, nessuna voce, nessun urlo di dolore del suo avversario, che provava a tirarsi in piedi.
Tutto il mondo aveva smesso di girare, il tempo gli parve fermo a quegli istanti. A quando era un bambino e gli avevano insegnato a combattere e ad uccidere solo i peccatori, perché la sua anima non era più salvabile e perdonabile.
Le mani presero a tremargli in quei pochi istanti, mentre l'arbitro teneva la presa sul suo polso e gli alzava il braccio per indicarlo come vincitore.

Lo vide, mentre lo fissava con un sorrisetto crudele e un sigaro a pendere tra le labbra. Il suo sguardo era fisso su di lui, come fosse il suo agnello sacrificale prediletto.
Abbassò appena il cappello che indossava, come ad accennargli un saluto in pace.
Atlas si liberò in fretta dalla presa dell'arbitro, doveva inseguirlo e ucciderlo.
Peccato che gli energumeni fratelli del suo avversario non fossero dello stesso avviso. Uno di loro aveva con sé una bottiglia di vetro e gliela spaccò in testa.
Atlas era troppo paralizzato per reagire. Si voltò a guardarlo, mentre il vetro cadeva dai suoi capelli, macchiati di sangue.

«FERMATELO» L'arbitro urlò in direzione del buttafuori, mentre il pubblico urlava, inveendo per una rissa.

«Adesso ti strangolo.»

Atlas arretrò, giusto il tempo di evitare un pugno. Lo colpì con un calcio al fianco e quello si prostrò ai suoi piedi. «Che bella sensazione.» Atlas mormorò quella parole con un tono di voce rauco. I suoi occhi erano iniettati d'odio, dopo aver visto Perez.
Infatti, notò come l'uomo si fosse sistemato il giaccone e diretto verso l'uscita, approfittando della confusione generale.
Così Atlas diede un pugno sull'occhio al suo avversario e corse via dal ring. Prese al volo la propria borsa dagli spogliatoi, mentre il pubblico lo reclamava per l'ennesimo incontro.
Non gli interessava nemmeno essere pagato dopo aver vinto l'incontro.
Voleva soltanto trovare Perez e chiudere già lì quella storia.
Uscì in strada.
Il freddo della sera riscosse tutti i muscoli indolenziti dall'incontro.
Rabbrividì, avendo appena una canotta indosso, ancora completamente sporca di sangue.
Si guardò attorno in quel vicolo buio, girando su se stesso alla ricerca di Perez.
Non era più lì.
Si era dileguato nel silenzio della notte.

Atlas si lasciò scappare un urlo frustrato e diede un calcio a un cassetto dell' immondizia. Indossò una felpa e si mosse nervosamente per strada, diretto verso casa. I suoi passi erano pesanti, pieni di dolore e rabbiosi. Una volta nel proprio appartamento si spogliò e decise di fare una doccia calda, provando a a rilassare i muscoli.
Socchiuse gli occhi, portandosi una mano alla cicatrice della coltellata e sbuffò stanco, iniziando a notare i primi lividi ed ematomi sul resto del corpo.
Quando uscì dal bagno, con un asciugamano in vita, si sedette sul letto e gettò il capo all'indietro. Socchiuse gli occhi.
Doveva star calmo.
Eppure non sapeva come.
Fernando Perez era davvero tornato, non si erano sbagliati né avevano cercato di intimidirlo.
Si toccò la spalla, ancora dolorante e un ringhio di dolore si liberò dalle sue labbra screpolate.
Guardò fuori alla finestra. Pioveva e iniziò ad agitare la gamba su e giù. L'idea che fosse tornato lo terrorizzava e odiava doverlo ammettere ad alta voce.

La suoneria del telefono lo ridestò. Osservò lo schermo illuminarsi per un messaggio.

Hercule: "Mi hanno detto che sabato siamo a cena fuori, non accetto che mi lasci da solo coi due piccioncini."

Atlas inarcò un sopracciglio, erano le due di notte.

"Non dovresti dormire?"

H: "ho il turno di notte, tu che scusa hai?"

Atlas sbuffò scocciato e si morse il labbro. Lo odiava, lo detestava.

"Ho fatto a pugni in un pub."

H: "Ordinaria amministrazione, eh?"
H: "comunque non hai risposto alla mia richiesta d'aiuto."

"Verrò solo per far star zitti entrambi, perché non vi tollero. Ora me ne vado a dormire."

"Va bene, Brontolo. Notte :)"

Atlas sbuffò e lanciò il cellulare dall'altra parte del letto. Si portò le mani in volto, incapace di piangere.
















Angolino
Aggiorno abbastanza velocemente perché riesco a scrivere bene la storia, senza intoppi e tra l'altro ho programmato tutti i capitoli. Ne saranno una trentina circa.
Salvo variazioni a causa del protagonista che spesso fa il cazzo che vuole🥲
Alla prossima ❤️‍🩹

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