𝐗𝐈𝐈𝐈. 𝐕𝐞𝐧𝐝𝐞𝐭𝐭𝐚

Where have you been?
Do you know when you're coming back?
'Cause since you've been gone
I've got along but I've been sad
I tried to put it out for you to get
Could've, should've but you never did
Wish you wanted it a little bit
More but it's a chore for you to give
Where have you been?
Do you know if you're coming back?
We were too close to the stars
I never knew somebody like you, somebody
Falling just as hard
I'd rather lose somebody than use somebody
Maybe it's a blessing in disguise (I sold my soul for you)
I see my reflection in your eyes

Reflections, The Neighbourhood


Aveva letto il messaggio di Hercule circa una decina di volte quella sera.
Forse avrebbe dovuto rispondergli.
O forse no, era meglio fare una stupida sorpresa e presentarsi e basta a quell'inutile festa. Possibilmente evitando di rovinargliela.
La verità era che non sapeva mai prendere ottime decisioni.
Stava oscillando sul da farsi.
Aveva provato a contattare Lindsay da diversi giorni, ma non aveva ricevuto risposte.
Così aveva deciso di passare prima a casa della ragazza, alla fine non gli avrebbe preso poi chissà quanto tempo.
Sperava solo di non trovarla a letto, con lividi sparsi per tutto il corpo, perché in quel caso avrebbe commesso di sicuro una strage.
Indossò una giacca per la serata, nella speranza di non doverla rovinare e quasi inconsciamente portò con sé un ricambio di vestiti e la propria maschera.
Forse, in fondo al proprio cuore, sapeva che quella serata avrebbe assunto una piega diversa, voleva solo mentire a se stesso.

Richiuse la porta di casa alle proprie spalle e si diresse all'appartamento di Lindsay. Abitava poco distante dalla biblioteca, affittando un monolocale e pagando quanto bastasse l'anziana proprietaria. Era il posto perfetto, come diceva lei. Non troppo distante dall'università e abbastanza vicino al centro di Edimburgo per qualsiasi commissione. Bussò un paio di volte alla porta, ma non sentì rispondere mai.
Forse non era in casa.
Atlas era sempre stato un maestro delle serrature. Le sue dita si muovevano agilmente e nessun ingresso gli era impossibile. Eppure, era consapevole che avrebbe attirato troppo l'attenzione. Bussò alla porta di fronte, quella della proprietaria di casa.

Il naso arcuato di un'anziana signora spuntò poco dopo. Lo riconobbe. Si sistemò gli occhiali sugli occhi lucidi e sospirò piano. «Buonasera signor Spector... cercava Lindsay?»

Atlas annuì. «Non la sento da tempo.»

La donna gli chiese di attendere qualche istante. Prese un mazzo di chiavi e gli aprì la porta dell'appartamento con una copia. Sospirò affranta. «Pensavo lo sapesse... povera anima.»

Atlas rabbrividì. «Che succede?»

«Purtroppo ha perso la vita in un incidente stradale...» Singhiozzò. Atlas non sapeva consolare. Se ne restò in silenzio, cercando di incanalare la rabbia. L'anziana avrebbe potuto parlare anche per altre ore intere, ma la sua mente era vuota. Solo un ronzio mortale la abitava. «Era tornata da poco-» Tirò su col naso.

«Vorrei restare solo nel suo appartamento, per ricordarla a modo mio.»  Mentì. Tutti gli avrebbero creduto. La donna gli posò una mano sulla spalla e si allontanò.

«Certo... Non ho mai avuto il coraggio di entrarci. Avevo paura di rivivere le nostre chiacchierate notturne... Le voleva molto bene.» Gli disse prima di richiudersi la porta alle spalle.

Era tutto un po' in disordine, il che era strano per una maniaca quasi ossessiva quanto lui.
Lindsay non era di certo una delle ragazze più intelligenti che avesse conosciuto, ma era molto pratica e detestava il caos, proprio per questo si era rivelata un'ottima assistente in libreria.
La valigia era ancora a terra, semi aperta e i vestiti non erano mai stati sistemati e riposti di nuovo nell'armadio.
Era tutto così sbagliato. Atlas aveva la sensazione che tutto fosse una menzogna. E se pensare male era peccato, sapeva bene che però permetteva di indovinare sempre.***

Cercò un po' nell'appartamento, curiosando in giro ed evitando accuratamente di toccare qualsiasi oggetto. Si avvicinò poi al tavolo della cucina e inclinò appena il capo. Un bigliettino era posato lì, in maniera quasi maniacale.
Lo prese e iniziò a leggere la lettera, che a quanto pareva era riservata proprio a lui.

Caro Atlas,
Forse avevi ragione fin dal primo momento, ma sono stata troppo codarda per ammetterlo o semplicemente non sei altrettanto esperto d'amore per poter comprendere in fondo il sentimento che mi lega a quel ragazzo.
Paul, inizialmente, non si è rivelato essere il principe azzurro o il cavaliere che tanto aspettavo e credevo potesse essere. Ma forse adesso sta capendo come fare, dopo un po' abbiamo iniziato a capirci.
Ha tanto dolore che porta con sé come un fardello, forse per questo non riusciva ad essere così tanto se stesso all'inizio.
Non fraintendermi, la vacanza è andata relativamente bene, lui si comporta così per il mio bene, lo dice sempre. Forse abbiamo due concetti d'amore troppo diversi, ma so che tiene a me.
Ti lascio questa lettera in ufficio, perché non ho il coraggio di dirtelo di persona, ma preferisco lasciare questo lavoro.
I soldi per l'università potrà darmeli Paul, lui ci tiene tanto a me e al nostro futuro...
Ti voglio bene e vorrei che pensassi un po' di più a te stesso.

È stato bello essere la tua segretaria, mi hai aiutato a conoscere tanti mondi, leggendo, senza mai muovermi dalla poltrona e dalla scrivania di casa.
Il primo che mi ha fatto viaggiare davvero sei stato tu e te ne sarò sempre grata.

-Lindsay.

Atlas osservava la grafia titubante, le sue mani tremavano, forse dal timore o dalla paura di poter deludere il fidanzato. Eppure, ciò che gli fece accendere un campanello d'allarme fu che quella lettera non gli era mai stata recapitata in ufficio.
Lindsay non era mai riuscita a consegnargliela e chissà da quanto giorni avrebbe voluto farlo.
Il cuore iniziò a palpitargli così forte da sentirlo persino in gola.
Si guardò attorno e ripose il biglietto nella tasca della propria giacca.
La rabbia stava iniziando ad accecarlo.
Uscì dall'appartamento, ringraziò l'anziana signora, sviolinando stupide parole per confortarla, anche se non ne era capace.

Doveva trovare Paul, era certo che fosse il colpevole di tutto. Se conosceva bene gli assassini normali, cioè quelli improvvisati e mossi da sentimenti umani, allora era consapevole che fosse rinchiuso in casa, divorato dal rimorso e dai sensi di colpa. Salì su un taxi, chiedergli di muoversi verso l'indirizzo del ragazzo, lo avrebbe ricollegato tranquillamente al suo omicidio il giorno seguente. Così decise di optare sempre per un tassista, facendosi lasciare a qualche isolato prima, così da non dare troppo nell'occhio.
Nella valigetta che portava con sé, c'era non solo il ricambio e la maschera, ma anche il regalo per il compleanno di Hercule.
Abbassò lo sguardo sull'orologio e storse il naso, probabilmente avrebbe fatto un po' tardi. Anche se erano già le dieci e mezzo ormai.

Una volta arrivato si guardò appena attorno.  Attese che il taxi si allontanasse e riprese a camminare fino all'appartamento del ragazzo. D'altronde si trovava in un posticino abbastanza desolato, lontano da occhi indiscreti. Aveva notato fin dal loro primo incontro che provenisse da una famiglia piuttosto facoltosa e agiata. Indossava abiti firmati, cifre da capogiro e aveva avuto abbastanza denaro per ingaggiarlo subito. Si infilò nel suo appartamento, dopo aver percorso le scale anti incendio e balzò sul suo balcone. Forzando la finestra, si intrufolò in casa e cercò il suo sguardo.

«S-sapevo saresti venuto.» Il ragazzo era seduto sul divano, guardando il vuoto. La televisione era accesa, ma senza volume. Sul tavolo di fronte a lui alcune bottiglie di birra erano vuote. Scrollò le spalle. «E sì. Se vuoi saperlo, l'ho uccisa io. Mi avevano detto che era il modo migliore per far uscire la verità che è in te.»

Atlas lo guardò male. Afferrò la lampada, posata su un comodino accanto al divano, e in un gesto felino lo colpì sul capo. Il ragazzo si accasciò a terra. Rotolò su se stesso e si portò una mano alla ferita. Fissò la mano insanguinata e poi posò lo sguardo su di lui.
Sgranò gli occhi.
Forse si aspettava di vederlo con la maschera indosso, ma non sarebbe sopravvissuto a quella serata per poter raccontare il vero volto del flagello notturno. «T-tu!»

Atlas lo afferrò per i capelli, strappandogli un rantolo di dolore. «Non sforzarti troppo, tanto non servirà a nulla.» gli bisbigliò con rabbia quelle parole all'orecchio.
Lo trascinò su una sedia e lo legò.
Il ragazzo non sembrava davvero intenzionato a ribellarsi, come se aspettasse la sua punizione da sempre. Forse, però, non credeva che l'avrebbe davvero ucciso.
Iniziò ad agitarsi sulla sedia e quando fece per urlare, Atlas lo colpì con un pugno ben assestato sulla bocca.

Un'altra camicia rovinata dal sangue di uno stupido idiota. Storse il naso, coprendogli poi la bocca con uno scotch nero e si sedette di fronte a lui. «Risponderai alle mie domande solo con un gesto del capo, va bene?»
Paul annuì, mentre gli occhi iniziarono a inumidirsi dalle lacrime. «Bravo.» Atlas picchiettò sul suo capo e gli tirò, poi, appena la guancia.
Ormai i suoi occhi scuri sembravano completamente inghiottiti dall'oscurità che aveva dentro, non riusciva a pensare ad altro, doveva vendicare Lindsay. Odiava non poter provare quel rimorso, quel senso di colpa, perché magari avrebbe potuto fare di più per tenerla in vita. «L'hai uccisa due giorni fa, circa?» Aveva fatto un paio di conti. Lindsay aveva risposto ai suoi messaggi tre giorni prima, per cui, doveva essere morta da poco.

Il ragazzo fece un cenno di assenso col capo. Lo colpì allo stomaco, dopo aver applicato un tirapugni. Lo sentì tossire, ripiegandosi su se stesso.

«Immagino tu ti sia disfatto del corpo.»

Ancora una risposta positiva.

Tutto quello non faceva altro che inviare segnali eccitanti alla sua mente, non sapeva spiegarlo. Si tirò in piedi e prese un coltello da cucina, dopo aver indossato dei guanti. Gli graffiò la guancia. I rivoli di sangue gli sporcarono i polsini della camicia. Il ragazzo tremava sotto il suo tocco. Provava ad emettere versi gutturali, nella disperata ricerca di aiuto. Gli si avvicinò all'orecchio, dopo avergli portato una mano alla gola. «Se fai il bravo, ti prometto che sarà una morte veloce.»
Era un gran bugiardo.
Voleva vederlo soffrire, voleva nutrirsi dei suoi sguardi di terrore puro. «E non lisciarti troppo sotto.»
Alzò appena il volume del televisore e, con un gesto fulmineo, si voltò di nuovo verso di lui e lo accoltellò alla gamba.

Paul urlò, ma la voce morì contro il nastro di scotch. Ne fuoriuscirono solo lamenti e ringhi di dolore. Le lacrime scorrevano sul suo volto, inesorabili come cascate.

«Hai abusato di lei?»

Annuì, ancora.
La televisione continuava a parlare in sottofondo. Evidentemente era un programma o un talent musicale, perché quelle melodie erano interrotte bruscamente solo dal tonfo dei suoi pugni che si abbattevano senza sosta contro lo stomaco di Paul.

«Adesso rispondimi sinceramente.» Atlas fece schioccare il collo e portò all'indietro alcuni ciuffi ribelli. Poi gli tirò ancora di più i capelli, stringendo con forza, per poter fissare il suo sguardo e godere di quell'angoscia. «Perez ti ha aiutato a occuparti di tutto?»

Il ragazzo socchiuse gli occhi. Un'ultima lacrima solitaria gli bagnò la guancia. Atlas non voleva porre fine alla sua vita con un colpo secco, che fosse di pistola o una coltellata. Voleva farlo soffrire. Iniziò a prendere il suo volto a pugni.
Il suo capo si muoveva a destra e a sinistra a seconda dei suoi ganci. Il suo sangue aveva iniziato a schizzare fino a terra e contro le pareti.
Ormai era completamente privo di sensi e Atlas continuava ad accanirsi contro quel volto tumefatto e devastato da tanta sofferenza.
Un altro pugno ancora.
Poi un altro.
Poteva quasi sentire le sue ossa scricchiolare sotto la ferocia delle sue percosse.
C'era un punto nevralgico della fronte. Bastava colpire lì per atterrare l'avversario, eppure Atlas voleva vederlo soffrire e morire agonizzante per i propri colpi.
Si fermò poi, quando le nocche iniziarono a dolergli, nonostante i guanti, e fissò il corpo ormai senza vita.
Socchiuse gli occhi. Aveva esagerato probabilmente.
Eppure, non gli interessava. Non provava nulla.

Liberò il corpo dalla fascette e lo posizionò a terra. Si accertò della mancanza di battito e attese per quasi mezz'ora, fissando il cadavere e restandosene seduto sulla sedia, dove prima era seduto Paul.

«Magari un giorno ci incontreremo di nuovo all'Inferno, eh?»

Si tirò poi in piedi e osservò un'ultima volta quel viso. Se non gli avesse permesso di entrare nella sua vita, Lindsay sarebbe ancora viva a quell'ora.
Gli diede le spalle e prese la valigetta. Indossò la propria maschera e uscì di nuovo dal balcone.
Si nascose in un vicolo buio. Faceva abbastanza freddo. Iniziò a liberarsi dei vestiti sporchi di sangue e si cambiò, spogliandosi anche della maschera.
Guardò l'orologio ed era mezzanotte inoltrata.
Fece ritorno a casa e si disfò di tutti quei vestiti insanguinati.
Avrebbe voluto poter piangere, forse l'avrebbe aiutato a eliminare tutte quelle tossine, che non faceva altro che accumulare.
Ormai era certo che il male fosse così tanto annidato in lui, che non c'era alcuna via di scampo o di uscita.

Guardò il pacchetto regalo, ancora dentro la propria valigetta, e lo afferrò. Si tirò poi in piedi e si sistemò i capelli. Preferì non guardarsi allo specchio, il suo volto doveva essere così devastato dagli ultimi avvenimenti, che se si fosse soffermato troppo, non si sarebbe più presentato a casa di Hercule.

Camminava lungo le strade di Edimburgo, trascinando con sé il proprio corpo, come fosse una palla al piede, come un carcerato.
Arrivato davanti al portone di casa di Hercule, riuscì ad intrufolarsi nel palazzo e iniziò a bussare alla sua porta. Erano le due e un quarto.
Aveva perso tempo tra doccia e lavaggio dei vestiti insanguinati, ma non gli era parso il caso di presentarsi in quelle condizioni.

Hercule, quando aprì la porta, inizialmente gli sorrise, come suo solito e come se non gli importasse dell'orario improponibile. Poi sembrò preoccuparsi, ma non gli diede modo di parlare perché gli posò contro il petto il regalo ed entrò in casa. «Atlas... stai bene?»  Gli diede le spalle per chiudere la porta e Atlas crollò, poggiando il capo contro la sua schiena e prese grossi respiri. Teneva gli occhi chiusi. Non sapeva nemmeno cosa dirgli. Di certo non poteva iniziare con: "ho ucciso un uomo, ma non è quello il problema, in realtà, perché è stato soddisfacente."

«Atlas...così mi fai preoccupare.» Hercule forse amava interrompere quei silenzi interminabili. Si voltò a guardarlo con delicatezza, aspettando che si staccasse da quel breve contatto.

«È morta.»

«Cosa?! Chi?»

«Lindsay... è morta.»

Hercule si passò una mano in volto. Sembrava confuso e sconvolto. Gli prese il polso e lo guidò in salotto, facendolo sedere sul divano. Atlas fissò le sue dita attorno alla propria pelle. Si accomodò al suo fianco, poggiando poi il regalo sul tavolo di fronte.
Atlas tirò la testa all'indietro e socchiuse gli occhi. Non poteva piangere, non ci riusciva. Non aveva sensi di colpa, non poteva. Sapeva soltanto che fosse normale provare un velo di tristezza e un po' gli dispiaceva di aver perso una persona abbastanza importante nella sua vita o perlomeno una buona compagnia.
«Ti va di parlarne?» Hercule gli posò una mano sulla spalla. Di solito non permetteva quasi a nessuno vicinanze simili, detestava il contatto fisico, anche per ovvi motivi, se non finalizzato al puro scopo di sfogare altro genere di tensioni. Lo guardò con la coda dell'occhio e scosse il capo.
Doveva distrarsi. Estraniarsi con la mente.

«Joyeux anniversaire, docteur.» (buon compleanno, dottore)
Non aveva voglia di parlare. Indicò com un cenno del capo il pacco regalo e sospirò piano.

Hercule si mosse un po' a disagio sul posto. Forse avrebbe voluto che gli aprisse i suoi sentimenti del momento, ma non ne era capace. Forse non doveva essere facile per una persona normale pensare al proprio compleanno in un momento di lutto. Almeno così credeva, Atlas non ci capiva nulla di convenzioni sociali.
Accettò di buon grado quel momento e si allungò verso il tavolino per prendere il pacchetto. Lo scartò con attenzione sotto il suo sguardo attento e sorrise appena.

Aveva incartato un paio di libri. Probabilmente non era mai stato un gran maestro nei regali, ma pensava fosse un pensiero abbastanza normale. Era difficile provare a ragionare come qualcuno sano mentalmente.
Hercule lesse i titoli ad alta voce. «Mh, il secondo libro di Percy Jackson immagino sia per mia figlia... e perché poi hai preso i racconti del mistero di Edgar Allan Poe?» Inclinò il capo, indossando quel solito sorrisetto insopportabile. Lo guardava con curiosità e i suoi occhi chiari sembravano quasi scintillare in quella penombra.

Atlas si smosse un po' e scrollò le spalle. «C'è un mio amico che dice sempre che uno dei regali migliori per un genitore, che ama i propri figli, è proprio un pensiero per i bambini...» Storse il naso. Se Bendik avesse avuto torno lo avrebbe riempito di sprangate sui denti, letteralmente.

Hercule sorrise, ancora, e annuì. «Direi che ha ragione... grazie. Vuol dire che ascolti anche quando ti parlo.»

Atlas agitò la mano, come a cacciare una mosca fastidiosa. Non si parlava di lui, purtroppo notava quasi ogni dettaglio, se non troppo accecato dalla rabbia o da qualsiasi altro sentimento. In quel momento non si sentiva frustrato o arrabbiato, era tranquillo. Forse per la prima volta in tutta la sua vita. «L'altro perché è uno dei miei autori preferiti ed è una lettura abbastanza autunnale, credo. Poteva starci col contesto, non lo so. Mi sembravi un tipo da gialli o racconti dell'orrore.»
Hercule inclinò il capo e ridacchiò appena. Lo ringraziò ancora e posò i libri sul tavolo.
«Qu'est-ce qui te fait rire, hein?» (che cazzo ridi, eh?)
Forse era stato un po' brusco, ma non conosceva modi migliori di esprimersi.

Hercule alzò le mani in segno di resa e gli sorrise. Atlas giurò a se stesso che all'ennesimo sorrisetto del cazzo gli avrebbe dato un pugno. «Mi hai regalato il libro del tuo autore preferito?» Ghignò. «Très romantique...» (che romantico...)

Atlas lo afferrò d'impulso per il colletto della camicia. «Vuoi per caso un occhio nero come regalo, adesso?»

Hercule gli posò una mano sulla sua chiusa a pugno e lo convinse a mollare la presa, senza aver bisogno di parlare. Si tirò in piedi tranquillo. «Sto scherzando. È rimasta della torta, ne vuoi un po'?»

Atlas scosse il capo. «No, credo che andrò a casa.» Fece per tirarsi in piedi. Un attimo prima era pronto a fargli male, quello dopo era tutto tornato alla normalità. Non era pazzo, continuava a ripeterselo come opera di auto convincimento.

Hercule lo costrinse a tornare a sedersi, poggiando entrambe le mani sulle sue spalle e facendolo ricadere sul divano. «Sei abbastanza sotto shock, per la notizia. Resta qui per la notte, mh?»

Atlas abbassò lo sguardo sui propri vestiti e scosse il capo. Col cazzo che avrebbe dormito con una camicia nuova. «No, vado a casa.»

«Non era una richiesta, Atlas.» Hercule lo guardò tranquillamente. Sparì in uno dei corridoi e tornò poi con coperte e cuscino. Glieli lanciò e Atlas non fece in tempo a spostarsi, facendosi colpire in pieno volto. «Pensavo avessi dei riflessi migliori...»

«Connard.» (stronzo)

Hercule ridacchiò e gli sistemò meglio il divano. «Immagino non avresti accettato che dormissi io qui e tu in camera, quindi faremo così.»

Atlas sbuffò e si sedette di nuovo, liberandosi delle scarpe. «Va bene. Ma non ce n'era bisogno.»

Hercule ignorò le sue parole.
«Vuoi un maglione e un pantalone più comodo?» Hercule lo guardò con tranquillità. Non gli diede nemmeno tempo di rispondere, tornando poco dopo con dei ricambi in mano. Glieli posò sul divano e sorrise.
«Buonanotte, Atlas.»

«'Notte, dottorino.» lo guardò infastidito e si sistemò meglio il cuscino dietro il capo.








Angolino
Cosa ne pensate?
Vi prego se avesse regalato a me dei libri, tra l'altro suoi preferiti, mi sarei vestita da sposa.
Comunque, sclero a parte, spero che il capitolo vi sia piaciuto e alla prossima ❤️‍🩹

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