VII. Piano
Yennefer
Zalia era stata avventata con quel biglietto nascosto nella tasca del cappotto di Arthur, ma questo avrebbe permesso che si sbilanciasse in qualche modo. Sicuramente anche Robert sarebbe stato informato. Avrebbero solo dovuto attendere che facessero la loro prima mossa sulla scacchiera di quel gioco così intricato, le cui regole non erano ancora del tutto chiare.
Era stata comunque una mossa pericolosa, qualcuno avrebbe potuto notarla, ma per fortuna nessuno se n'era accorto.
Quando ne avevano parlato con Altair e Izar, il primo non ne era stato molto entusiasta. Sembrava davvero legato e fiducioso nei confronti dei due uomini, ma Yen aveva imparato col tempo a non fidarsi davvero di nessuno. L'avevano sempre definita in tanti modi: fredda, calcolatrice e soprattutto insensibile. Sapeva di non poter dimostrarsi debole in quel mondo o l'avrebbero divorata. L'unica cosa a cui teneva più della propria vita era la sua famiglia e la stava perdendo, i suoi amati genitori erano scomparsi e non si sarebbe mai data pace.
Aveva trascorso tutta la notte sveglia, nascosta nella propria camera, a circondarla c'erano solo i fascicoli sparsi sui suoi genitori, con il loro lavoro in diverse aziende e laboratori privati. Avevano fatto anche da ricercatori e dottorandi per un'università privata piuttosto prestigiosa.
Aggrottò la fronte, osservando e rileggendo per l'ennesima volta il nome della facoltà: Kingsley University of Boston. Si morse l'interno guancia e prese il proprio portatile, staccando dalla carica. Iniziò a battere sulla tastiera, nervosamente. Il ticchettio delle dita sui tasti rompeva il silenzio della stanza.
E poi la sua attenzione si risvegliò, di colpo, come se si stesse scrollando di uno strano senso di torpore da dosso. Non riusciva a credere ai suoi occhi e forse c'era davvero la possibilità che le due cose fossero legate, interconnesse, non poteva sembrare solo un semplice caso. Non aveva mai creduto alle coincidenze.
Quell'università apparteneva allo stesso proprietario della Serpents Agency.
In città era conosciuta come una sede di vigilanza privata, riforniva agenti di sicurezza i vari locali, alcuni eventi e si occupava di tenere sotto controllo e in sicurezza anche diverse ville di famiglie facoltose, se non anche governative. Molti li vedevano più come mercenari pronti a offrire i propri servigi al miglior offerente e, di certo, Yen si schierava in quella stessa scuola di pensiero.
Sentì bussare alla porta. Si era persa nel suo mondo così tanto da dimenticarsi dell'ambiente circostante e di sua sorella. «Yen, io vado in uni, oggi ho i corsi tutto il giorno, ci vediamo questa sera, okay?» La sua voce era squillante e si ritrovò a sorridere, pensando a quanto amasse sua sorella e a come riuscisse a riempirle le giornate, pur riuscendo a trovare ogni modo per stressarla. Da quando erano sole con loro zia, si erano avvicinate ancor di più. Sentiva di doverla proteggere, di non lasciarle fare azioni avventate, come quella del biglietto nella tasca di Arthur. Non conoscevano abbastanza bene quell'ex soldato dall'apparenza gentile.
«Va bene, ci vediamo più tardi.»
Sentì i suoi passi allontanarsi e attese che la porta di casa si fosse chiusa.
Si alzò immediatamente dal letto, lanciando in aria le coperte. Cercò al volo un maglione comodo per uscire e prese dei jeans dall'armadio, così disordinato che se sua zia, maniaca della precisione, l'avesse visto, probabilmente avrebbe avuto un infarto sul colpo. Iniziò a vestirsi con rapidità, ripetendosi in mente tutto ciò che le sarebbe tornato utile.
Acciuffò la propria borsa, quella più capiente che possedeva, lasciata a poltrire su una sedia, dove altri vestiti erano lanciati alla rinfusa. Dopo averla riempita del necessario -o anche di qualcosa in più-, inserì anche il proprio pc e sorrise abbastanza soddisfatta. Se la sistemò in spalla e uscì dalla stanza.
Percorse il corridoio di casa e sorrise appena, guardando tutte le foto che sua zia aveva appeso sulle pareti. Si soffermò a fissare, con una punta di malinconia, una foto raffigurante una cena di famiglia a Natale. Erano tutti seduti attorno al tavolo delle loro vecchia cucina. Suo padre sorrideva all'obiettivo, tenendo in braccio sia lei sia Zalia, quando aveva poco più di tre anni. Erano così felici. Sua zia abbracciava sua madre e tutto era così tranquillo. Quanto avrebbe pagato pur di tornare indietro nel tempo, posizionare le lancette a quel giorno felice. Strinse a sé la borsa. Avrebbe permesso a quella famiglia di tornare ai tempi d'oro, non avrebbe lasciato che tutto si perdesse.
«Mancano molto anche a me.» Sussultò. Si voltò a guardare sua zia. Teneva le braccia incrociate al petto e fissava la stessa fotografia. Eleonore Cortez era sempre stata una donna molto forte, un avvocato di successo, che non aveva bisogno di qualcuno che le ricordasse di essere umana. Ammirava sua zia per la forza e la tenacia con cui aveva combattuto nella vita. Aveva superato tante difficoltà, anche fisiche, senza mai arrendersi, nemmeno un po'. «Ricordo ancora come tua madre fissò mio fratello, il primo giorno che venne a casa mia a studiare... e tuo padre non fu mai gentile come quel giorno.» Era malinconica. Quando Yen e Zalia erano ancora piccole, si divertivano a sentire i racconti di sua zia, su come i loro genitori si fossero conosciuti: Katie, sua madre, era da sempre la migliore amica di Eleonore. Trascorrevano giornate insieme a studiare in casa, senza mai separarsi. Erano ovunque e spesso si definivano come due pappagallini: non potevano stare l'una senza l'altra. Poi Katie aveva conosciuto il fratello di Eleonore, Drew, e da lì era iniziata la loro storia d'amore, sebbene nei primi tempi non fosse apprezzata dai genitori di sua madre. Erano convinti che la figlia meritasse qualcuno di migliore, non un ragazzo proveniente da una famiglia povera e che fosse soltanto dedito allo studio, perché della vita di ogni giorno non ne sapeva nulla. Katie era abbastanza certa che ce l'avrebbe fatta lei per entrambi e che insieme si sarebbero soltanto migliorati.
E Yen pensava che avesse ragione. Il ricordo dell'amore continuo e coltivato giorno per giorno, dei suoi genitori, aveva alzato i suoi standard. Nessuno sarebbe stato Drew per la sua Katie, ne era abbastanza certa. Nessuno l'avrebbe amata e protetta come suo padre aveva sempre fatto con sua moglie. Erano sentimenti troppo forti e nobili, per trovarli ancora. Aveva conosciuto diversi uomini, ma nessuno era mai stato all'altezza.
Si riscosse dai pensieri, scuotendo il capo, e posò una mano sulla spalla di sua zia. «Devo uscire, non aspettarmi per pranzo, va bene?» Le diede poi un bacio sulla fronte. A volte ancora le faceva ridere la loro differenza d'altezza.
Eleonore le sorrise gentile, accompagnandola alla porta. «Yen... non metterti in situazioni pericolose, ti prego. So cosa cerchi e che è il tuo lavoro, solo... solo che non posso perdere anche te, tesoro.»
Yennefer sentì il senso di colpa prendere il sopravvento, con la stesse violenza di un colpo ben assestato allo stomaco. Le si avvicinò e la abbracciò forte. «Non ti preoccupare, zia. Avremo la nostra verità, te lo prometto.»
Si allontanò, prima che le lacrime iniziassero a prendere il sopravvento. Odiava mostrarsi debole, odiava non poter risolvere quella situazione e vedere tutti felici come una volta. Era una sua responsabilità, in quanto sorella maggiore.
«Non me ne faccio nulla della verità, senza voi accanto. Non mi consolerebbe sapere di avervi perse per lei.»
Yennefer finse di non sentirla, mentre quelle parole laceravano il suo petto.
Arrivata alla stazione di quel piccolo paesino, attese l'arrivo del treno. In circa mezz'ora sarebbe arrivata a Boston. Si sarebbe tenuta occupata leggendo un romanzo o cercando alcune informazioni su internet.
La giornata era grigia, probabilmente sarebbe stata anche uggiosa, a giudicare dalle nuvole accalcate in cielo. D'altronde erano pur sempre agli inizi di novembre e il freddo iniziava a farsi sentire, così come il sole sembrava solo un ricordo lontano e sbiadito.
Quando il treno fece il suo ingresso in stazione, Yen salì, iniziando a cercare un posto abbastanza tranquillo dove trascorrere quel piccolo viaggio.
La sua attenzione, però, ricadde subito sulla figura di Robert, appollaiato sul sedile accanto al finestrino, mentre tamburellava con le dita sul piccolo tavolo davanti a sé. Sembrava distratto e si chiese se fosse a conoscenza del biglietto ritrovato da Arthur. Era abbastanza sicura, però, che lo fosse, a giudicare dall'atteggiamento un po' nervoso e guardingo. Forse avrebbe dovuto approfittarne per cercare di cavargli qualche informazione in più. Indicò il posto di fronte al suo e finse un sorriso gentile. «È libero?»
L'uomo alzò lo sguardo. Gli occhi color nocciola e scuri si posarono su di lei e annuì, sistemandosi meglio e aggiustandosi smaniosamente il cappotto. «Sì certo, come stai...Yen, giusto? Perdonami, ma spesso dimentico i nomi.»
«Tranquillo... comunque ricordi bene.» Si accomodò di fronte a lui. La stava osservando con attenzione, ma senza essere troppo indiscreto. «Anche tu a Boston oggi?»
«Già, ho alcune commissioni da fare...»
Si manteneva sul vago, era normale. Non la conosceva abbastanza e solo qualche sera precedente aveva cercato di far parlare tutti del loro migliore amico scomparso, ma forse vivo. «Ti capisco... anche io ho alcune persone da intervistare. Spero di poter pubblicare un giorno un articolo su qualche testata importante.» Non amava sciogliersi e aprirsi con gli altri. In quel momento stava facendo uno sforzo immane, ma sapeva abbastanza bene che, mostrandosi così disponibile, sarebbe riuscita ad abbassare le difese dell'altro.
Sperava di star tessendo abbastanza bene la propria ragnatela.
Robert non si scompose più di tanto, annuì. «Giusto, è normale. Ognuno di noi ha avuto un obiettivo o un sogno. È normale che tu prosegua nel tuo.»
Inclinò il capo. «Perché? Tu non hai più sogni?»
L'uomo sorrise malinconico, aveva uno sguardo un po' perso. Si massaggiò la barba, un po' incolta, ma non troppo folta. «Ogni volta che ho fatto un programma in vita mia è andata malissimo. Ho sognato abbastanza ds bruciarmi le ali e adesso mi accontento di quello che ho per stare bene e in pace.»
«Sembra un discorso un po' disincantato e distante dalla realtà, non trovi?»
«O forse è troppo cinico e reale per essere capito da chi ha ancora dei sogni.» Le sorrise appena e tornò a fissare fuori al finestrino. I colori di quella giornata si mescolavano tra loro a causa della velocità del treno, un po' come nella tavolozza di un pittore confuso e disordinato.
Yennefer si strinse nel cappotto, tirando su quasi sul naso la propria sciarpa enorme e calda. «Comunque sembra proprio il discorso di un ex soldato che ne ha viste molte...»
Robert annuì. «Mh, già. Ho preferito non continuare con quella vita, non reggevo così bene la pressione, ma una parte di me è ancora lì.»
«E di cosa ti occupi ora?»
«Ho una palestra di judo... a volte Zalia ci ha accompagnato Izar.»
«Ah, non ne avevo idea... a volte le sorelle non ascoltano mai.»
Robert annuì con un cenno del capo e sorrise. «Non ho fratelli, ma ti capisco fin troppo bene, credimi.» Yennefer era abbastanza certa si riferisse ad Orion e sapeva che avrebbe potuto continuare a stuzzicarlo su quell'argomento, le aveva offerto l'assist su un piatto d'argento, ma ad interrompere qualsiasi sua prossima mossa fu lo squillo del telefono dell'uomo, che sussultò appena. «Scusami un attimo.» Sfilò il cellulare dalla tasca dei pantaloni e aggrottò appena la fronte, poi rispose. «Dimmi.»
Avrebbe tanto voluto capire chi fosse dall'altro lato del telefono, ma il volume era abbastanza basso per cercare di captare qualcosa.
«Sì sto andando io...» Robert si strinse nelle spalle. Roteò appena gli occhi al cielo, cercando di nascondere un ghigno divertito. «Eris ha fatto cosa?!» Scosse il capo. «Quindi hanno chiamato te perché Altair non rispondeva a telefono? È normale, oggi aveva dei corsi mi pare...»
Ridacchiò. «Mi dispiace, la sorte ha deciso così, io oggi a Boston e tu a fare da baby sitter, i patti sono chiari e non ci torno indietro, Arthur.» rise. «Vedi che anche la mia vita è stressante?»
Lo sguardo di Yen si illuminò. Se si erano divisi i compiti e uno dei due sarebbe andato a Boston, forse anche loro erano alla ricerca delle sue stesse risposte. Avrebbe voluto tanto pedinare Robert una volta arrivati, ma doveva andare anche alla Serpents Agency.
Quando attaccò la telefonata, fu impossibile cercare di ritornare sulle orme del discorso precedente, così una volta arrivati al centro di Boston, Yennefer salutò Robert e si allontanò velocemente dalla stazione.
Boston era una città particolare, enorme al punto di farla sentire spaesata, ma meravigliosa. Il rumore cittadino era interrotto ogni tanto dal verso di qualche gabbiano e se avesse avuto un po' di tempo in più non le sarebbe dispiaciuto poter passeggiare vicino all'Oceano per rilassarsi un po'. Era comunque una giornata grigia e già questo avrebbe messo il malumore a qualsiasi turista. A Yen piacevano invece quelle giornate un po' uggiose e una passeggiata sotto la pioggia, in vicinanza dell'acqua di mare non le sarebbe dispiaciuta. Aveva, però, delle proprietà e una pista da seguire.
Si incamminò, così, per le strade della città. Le persone correvano ovunque avanti e indietro, senza fermarsi mai, certo non così confusionaria e caotica quanto New York, ma abbastanza rumorosa. Non era un'amante del caos cittadino, preferiva di gran lunga vivere nella periferia, per starsene tranquilla.
Si fermò inizialmente a una caffetteria, ordinando un espresso. Attese per un po' e osservò tutti i clienti del locale, quasi tutti impegnati in qualche call lavorativa, davanti a un pc.
Dopo aver sorseggiato l'espresso caldo, uscì nuovamente all'aria aperta.
Prese un grosso respiro e iniziò a incamminarsi verso i grandi grattacieli. Il più alto apparteneva alla Serpents Agency e non a caso un leone, con una folta criniera e uno sguardo minaccioso, era il simbolo della compagnia di sicurezza. Non aveva nessun tipo di appuntamento, ma sperava di poter convincere la segretaria a farla parlare con qualcuno ai piani alti, per una breve intervista. Si sarebbe spacciata per una giornalista del New York Times, proponendo un articolo su una delle società più importanti degli ultimi tempi, se non anche culla delle guardie più rinomate in America, a protezione anche di personaggi di spicco, in collaborazione con agenzie segrete e con l'esercito. Spinse in avanti la porta di vetro, entrando nella hall. Tutto era così inquietante e silenzioso, in perfetto ordine, sembrava che ogni cosa dovesse stare al suo esatto posto.
Si avvicinò alla reception e sorrise alla giovane segretaria, dai capelli biondi tirati in un alto chignon e dalle labbra tinte da uno sgargiante rossetto rosso.
«Cosa posso fare per te?»
«Salve, sono qui per il New York Times...» Yen era sempre stata convincente. Sorrideva sicura di sé e aveva un atteggiamento che riusciva sempre ad intimidire l'interlocutore. «Sono qui per intervistare Paul Kingsley. Non c'è stato alcun preavviso perché teniamo molto alla spontaneità dell'intervista.»
La donna storse appena il naso e si tirò in piedi. Dopo essersi fatta dare i suoi documenti e aver segnato ogni dettaglio, la accompagnò al ventesimo piano. Yen si sentiva un po' a disagio e nervosa. Se fossero state fatte alcune ricerche, non sarebbe stato difficile ricollegarla ai suoi genitori, che fino a poco tempo prima lavoravano lì. «È qui solo per un'intervista?»
«Oh vorrei anche avere qualche informazione sulla vigilanza per la nostra villa, sa com'è...» Sorrise, cercando di stemperare la tensione.
La segretaria annuì e la accompagnò davanti all'ufficio di Paul Kingsley. Bussò e aprì la porta, ma Yen si irrigidì quando trovò seduto di fronte all'uomo Robert.
«Buongiorno, capo, la signorina è qui a nome del New York Times per un'intervista lampo sulla nostra agenzia.»
«Oh.» L'uomo aggrottò la fronte. Gli occhi chiari sembravano scrutarla con rabbia, facendole raggelare il sangue. Robert la osservava da capo a piede, come a voler capire in che pasticcio si stesse cacciando. «A quanto pare oggi è giornata di indagini, eh?» Fece schioccare il collo.
Yen osservò ancora Robert. Era lì per alcune domande anche lui. Si morse l'interno guancia, consapevole che prima o poi sarebbe andato a trovarla per capire cosa stesse cercando di fare. Era iniziata benissimo quell'avventura, tanto che aveva voglia di urlare dalla frustrazione. «Robert, amico, se puoi aspettare, possiamo parlarne dopo a pranzo? Sei mio ospite, mi farebbe piacere parlarti e mostrarti anche tutto ciò che abbiamo costruito grazie a voi.»
Robert fece un sorriso tirato e si alzò, stringendogli la mano. Uscì dall'ufficio, dopo aver lanciato una veloce occhiata a Yen. Si scontrò con la sua spalla, mormorando delle scuse, ma sentì qualcosa scivolare nella tasca del suo cappotto. Yennefer trasalì, sperando non fosse nessuna minaccia.
Si accomodò sulla poltrona di fronte a Paul, che la osservò gentile. Osservò una notifica sullo schermo del pc e fece un sorrisetto sardonico. «Allora signorina Cortez, che ne dice di iniziare con la sincerità?» Inclinò appena il capo.
Yennefer si irrigidì sulla propria seduta, a disagio. «Le informazioni corrono veloci, eh?»
«Diciamo che non siamo proprio degli stupidi, ma immagino lei sia qui per un motivo ben preciso e non ho intenzione di deludere le sue aspettative. D'altronde è venuta qui apposta, spacciandosi per giornalista di successo pur di parlarmi senza un appuntamento.»
Yen osservò la testa lucida. Aveva un'espressione gentile, ma fredda e inquietante. L'idea di non potersi fidare di quell'uomo le attanagliò le viscere. Mantenne comunque un'espressione sicura. «Allora saprà che sono qui in pace, solo per sapere perché i miei genitori hanno deciso di andarsene dalla sua università e gruppo di ricerca... voglio solo cercare di costruire i loro movimenti, sapere le loro ultime decisioni...»
L'uomo annuì, accarezzando l'anello al dito. Aveva la forma di un leone e Yen si soffermò a osservarlo per qualche istante. «Non mi hanno mai detto il perché. Erano due persone davvero geniali e utili alla nostra comunità. Ho inviato loro numerose mail per convincerli a tornare, avevano tante e ottime idee. Purtroppo sono poi scomparsi e non ho avuto più loro notizie. Avremmo dovuto incontrarci qui almeno un anno fa... Mi dispiace per la vostra perdita.»
«Non sappiamo che fine abbiano fatto, però.»
«Ma adesso siete sole, non è comunque una perdita?» La osservò e sorrise appena. «Ho la sua mail», mosse il mouse sulla scrivania ordinata e inviò qualcosa, sentì il cellulare vibrare in tasca dopo la notifica., «le ho appena inviato i loro fascicoli e su cosa stavano studiando con noi, magari potranno tornarle utili.»
Yennefer annuì. «Conosce qualcuno che potrebbe aver motivo di odiarli?»
«Tutti noi siamo i cattivi nella storia di qualcun altro, signorina Cortez. E ho motivo di credere che avessero inventato qualcosa che possa aver attirato attenzioni indesiderate... avevano chiesto all'inizio di lavorare per noi in cambio anche di sicurezza. Poi sono scomparsi. Non ho mai lavorato con persone così buone e metodiche. Sono una perdita non solo per la famiglia, ma anche per la comunità scientifica.»
Yen si morse l'interno guancia. Dopo aver ringraziato, uscì dall'ufficio ancora turbata. C'era qualcosa nelle parole dell'uomo che non l'avevano affatto tranquillizzata. Anche Kingsley uscì dall'ufficio, recandosi in bagno prima di avvisare Robert che poi sarebbero usciti.
Robert ne approfittò per avvicinarsi a lei. Con un gesto veloce sfilò dal cappotto di Yen un registratore. Aveva registrato la loro conversazione.
Aggrottò la fronte e glielo strappò dalle mani. «Eh no, dolcezza.» Robert la guardò storto, forse infastidito da quella velocità e prontezza. «Tu ascolti la mia conversazione e io la vostra... mi sembra equo, no? Ti assicuro, mi preferisci come alleata che come avversaria.»
Robert sorrise sornione e prese il registratore. Si avvicinò all'orecchio e il suo profumo pungente le invase le narici e la mente. «E ti assicuro, tesoro, che preferisci avermi come amico piuttosto che come nemico. Quindi faremo come dico io.» Si allontanò, sistemandosi la cravatta. «Ora vattene subito a casa. Se si avvicinasse una guardia di nome Maximillian per parlare, tu ringrazialo con gentilezza e va' alla stazione.» Si guardò nervoso attorno. «E suggerirei a tua zia e a tua sorella di trasferirsi da noi, con i vostri effetti personali.»
Yennefer non seppe dire perché, ma credeva che fosse meglio fidarsi di Robert che di una delle guardie dell'agenzia. Fece come gli disse, allontanandosi velocemente. Un uomo alto, muscoloso e dagli occhi neri come la pece, infatti, le si avvicinò. Aveva alcune ustioni dietro l'orecchio, ma nulla di così intimidatorio rispetto alla stazza. «Le serve una mano, signorina Cortez?»
Ebbe la sensazione che, con la sua altezza, la stesse sovrastando.
Sentiva lo sguardo nero penetrarle nelle ossa e rabbrividì.
«No, grazie, gentilissimo.» Aggrottò la fronte, leggendo sul cartellino il suo nome. «Sto andando via, Maximillian.» Si allontanò in fretta. Si guardò un'ultima volta alle spalle, incrociando lo sguardo fisso dell'uomo su di lei, mentre si portava una mano all'auricolare.
Poi le sorrise, salutandola e agitando le dita della mano, aveva un ghigno divertito.
Capì che era il momento di accelerare il passo.
Angolino
Mi sono divertita con questo capitolo perché:
1. Yen e Robert mi spezzano, non fanno altro che fissarsi ma sospettarsi a vicenda.
2. Il mio villain Max lo amo, un pazzo ma lo amo.
So che lo odierete, però... vedremo👀
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e alla prossima!
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