🥀Stupore🥀

I miei occhi a chi sa

captarne i fondali.

~15~

Intravedendo la mano del ragazzo biondo muoversi minacciosamente verso Hailey, mi avvicinai di scatto, afferrandola con una presa ferma e decisa, allontanandola con forza da quel ragazzo sospetto.

"Che cosa hai intenzione di fare?" chiesi con voce bassa e minacciosa, strattonando il braccio del ragazzo per impedirgli di avvicinarsi ulteriormente. Il mio cuore batteva forte, come se avessi in mano non solo la sicurezza di mia sorella, ma anche la mia.

Mi posizionai immediatamente davanti a Hailey, erigendo una barriera tra lei e il pericolo, fissando il ragazzo biondo con uno sguardo carico di determinazione.

Non avrei permesso a nessuno di farle del male, e il mio corpo, teso come una corda di violino, era pronto a reagire con forza se necessario.

Il ragazzo biondo era alto, massiccio, con muscoli ben definiti che spiccavano sotto la maglietta aderente. I suoi occhi azzurri scintillavano di un divertimento perverso, quasi fosse intrigato dalla mia reazione.

Il sorriso che gli curvava le labbra era un misto di arroganza e sfida, come se la situazione fosse solo un gioco per lui. Accanto a lui, l'amico di origini asiatiche cercava di calmarlo, tirandolo indietro con una mano sulla spalla.

Aveva un viso dai lineamenti delicati, ma i suoi occhi scuri erano profondi, carichi di una gravità che contrastava con l'atteggiamento frivolo dell'amico.

"Michele, dai, andiamocene," disse l'amico asiatico con voce sommessa, tentando invano di dissuaderlo.

Michele si girò lentamente verso di me, sfidandomi apertamente con quel sorriso sfrontato. "Ma davvero? E chi me lo impedisce, sentiamo," disse, la sua voce intrisa di provocazione.

Non mi feci intimidire e mantenni lo sguardo fisso su di lui, rispondendo con fermezza: "Io. Se sapessi chi sono, te la daresti a gambe levate," aggiunsi, un sorriso ironico che curvava le mie labbra.

Non ero sicura di come avrei risolto la situazione, ma sapevo che avrei fatto di tutto per proteggere me stessa e mia sorella.

Non avrei permesso a quei due ragazzi di intimidirci. Il mio corpo era teso, ma la mia mente cercava disperatamente una via d'uscita.

Nel frattempo, un ragazzo moro, che si trovava poco distante, mi rivolse la parola con un tono leggero, quasi canzonatorio, "Che c'è? Mhm. Il gatto ti ha mangiato la lingua?" disse, con un sorrisetto che voleva sembrare innocente, ma che mi irritava profondamente.

Michele gli lanciò un'occhiata di rimprovero, spostando bruscamente la mano dell'amico. Poi, con un'espressione di superiorità, si girò nuovamente verso di me.

"Guarda, non vogliamo creare problemi. Ci stavamo solo divertendo un po', ma sembra che tu non abbia senso dell'umorismo," disse, il sorriso altezzoso che gli sollevava un angolo della bocca.

"Puoi divertirti senza infastidire gli altri. E non ti preoccupare, ho un senso dell'umorismo molto sviluppato, ma non mi piace chi manca di rispetto agli altri," risposi, mantenendo la mia voce ferma. Il mio sguardo non lasciava spazio a dubbi: non avrei tollerato nessuna mancanza di rispetto.

La situazione stava degenerando rapidamente. Michele si era avvicinato troppo a me, invadendo il mio spazio personale.

Sentivo il suo respiro caldo sul viso quando, con un gesto rapido e insolente, mi toccò la guancia. Ma prima che potessi reagire, la situazione esplose in un attimo di violenza. Vidi Michele barcollare all'indietro, colpito da un pugno potente che lo fece cadere a terra.

Il biondo fu subito bloccato dalla figura imponente di Damon, che lo sovrastava come una montagna inamovibile.

"Non ti azzardare nemmeno a sfiorarla," disse Damon, la sua voce bassa e minacciosa come un tuono lontano. I suoi occhi, solitamente calmi, erano ora fissi su Michele con un'intensità che non avevo mai visto prima.

Rimasi immobile, lo shock che mi attraversava come una scarica elettrica. Gli occhi spalancati e la bocca semiaperta, non tanto per la violenza improvvisa, ma per il fatto che Damon sembrava aver perso di nuovo il controllo.

Mi sentivo vulnerabile, come una foglia in balia del vento, ma allo stesso tempo protetta dalla sua presenza potente.

"Vediamo se ti diverti a mancare di rispetto adesso," dissi con un sorriso ironico rivolto a Michele, cercando di riprendere il controllo della situazione.

Avevo bisogno di ritrovare la mia calma, la mia compostezza, per non lasciare che la paura prendesse il sopravvento.

Notai che Damon stava ancora tremando per l'ira, i suoi muscoli tesi come corde pronte a spezzarsi. Con delicatezza, posai la mia mano sul suo braccio, sentendo il calore e la forza sotto la mia pelle. "Damon, è tutto a posto," dissi con voce rassicurante, cercando di calmarlo.

Michele, nel frattempo, si rialzò lentamente dal terreno, sputando sangue e guardando Damon con rabbia negli occhi. L'espressione sul suo volto era quella di un animale ferito, pronto a contrattaccare.

"Tu chi cazzo sei, eh?" sbottò Michele, il tono velenoso, mentre cercava di ignorare il dolore.

Damon sbuffò, mantenendo il suo sguardo fisso su di lui. Sentivo la tensione crescere, come una molla che stava per scattare.

Guardai Damon negli occhi, cercando di valutarne lo stato d'animo. "Tutto a posto, Damon?" chiesi ancora una volta, sperando di farlo tornare alla sua solita calma.

Lui mi fissò, i suoi occhi profondi che sembravano cercare qualcosa dentro di me. "Sì, sto bene," rispose con una voce pacata. "Mi ha solo infastidito che si avvicinasse così tanto a te. Volevo solo proteggerti."

In quel momento, l'amico asiatico di Michele, notando che la situazione rischiava di degenerare ulteriormente, intervenne. "Lui è... Damon Anderson," disse con rispetto, la sua voce appena udibile.

Le parole sembrarono colpire Michele come un pugno allo stomaco. L'amico asiatico, che aveva finora mantenuto un atteggiamento prudente, sembrò finalmente comprendere la gravità della situazione. "Kai, non è possibile," sbottò Michele, visibilmente nervoso.

Quelle parole mi colpirono con la forza di un uragano. Kai... Cosa?! Lui era Kai? Quel Kai?

Una sensazione di vertigine mi pervase, un'ondata di ricordi dolorosi mi travolse. Era come se una corda invisibile mi avvolgesse il collo, stringendolo fino a togliermi il respiro. Il passato che avevo cercato di seppellire tornava a galla con una forza inarrestabile.

"Kai..." sussurrai con voce tremante, rivolgendo uno sguardo spento verso di lui. Non era una questione di perdono; l'avevo già fatto. Ma per me, lui non esisteva più. Era solo un fantasma, una presenza lontana, eppure ora così vicina da farmi male.

Quella notte, sentivo il gelo insinuarsi nelle mie ossa, come se il sangue avesse smesso di scorrere nelle vene, lasciandomi in un torpore spaventoso. Ogni battito del cuore sembrava rallentare, come se il mondo intorno a me fosse diventato ovattato e distante.

Kai se n'era andato, lasciandomi con un vuoto che pareva inghiottire tutto. Era stato il mio migliore amico ai tempi delle medie, il confidente a cui avevo affidato ogni segreto, ogni timore. Ma quella notte, tutto era cambiato.

Kai era anche il fratellastro di Lukas, un ragazzo che avevo conosciuto poco dopo aver iniziato le superiori. Lukas era alto, con capelli castani arruffati che incorniciavano un viso dai tratti gentili, occhi verdi che brillavano sempre di un'intelligenza vivace.

Aveva sempre cercato di avvicinarmi a Kai, insistendo affinché ci conoscessimo meglio. Durante la festa di inaugurazione della nuova casa della sua famiglia, avevamo finalmente avuto modo di parlare.

Ricordo quella sera come se fosse ieri, le luci soffuse, il suono delle risate che si mescolava alla musica, e il profumo di cibo appena cucinato che si diffondeva nell'aria. Kai, con il suo sorriso timido e i capelli neri che gli ricadevano sugli occhi scuri, sembrava la personificazione della tranquillità.

A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare dai fratellastri, Lukas e Kai si volevano un bene profondo, come se fossero legati dal sangue.

Si rispettavano, si cercavano, e il loro legame era evidente a tutti coloro che li osservavano. Ma quella sera, Kai ruppe qualcosa tra di noi.

Quell'armonia che avevamo creato, quell'atmosfera di comprensione e affetto, andò in frantumi.

Poi, in una notte come tante altre, il mio telefono squillò nel buio, spezzando il silenzio. La voce di Kai risuonò dall'altro capo, carica di un'urgenza che mi fece rabbrividire. "Ei, Cristallina!" disse, con un tono che non gli avevo mai sentito prima.

Il soprannome che mi aveva dato quando eravamo bambini mi fece stringere il cuore. "Kai?" risposi, il mio respiro già accelerato dalla preoccupazione. "Perché mi hai chiamata a quest'ora? Sono solo le 3:30 di notte."

La sua voce tremava, incrinata da un'emozione che non riuscivo a definire. "Devi assolutamente sentire quello che ho da dirti, è importante," rispose, e nel suo tono c'era una nota disperata che mi fece raggelare.

Mi resi conto che Kai stava respirando a fatica, come se avesse pianto per ore, come se fosse stato travolto da un dolore che non riusciva a contenere.

La sua agitazione era palpabile, ed era evidente che stava combattendo contro un turbinio di emozioni che minacciavano di travolgerlo. Ogni respiro sembrava un sussurro straziato, come se ogni parola lo costasse uno sforzo immenso.

"Cosa succede, Kai?" chiesi, cercando di mantenere la calma, ma sentivo la mia voce tradirmi, tremante di preoccupazione.

Mi era chiaro che qualcosa di molto grave stava accadendo, e la paura si insinuava lentamente, paralizzando ogni mio pensiero.

La sua chiamata era come un'ombra che oscurava tutto il resto, lasciandomi sola con il mio terrore e con il ricordo di quello che eravamo stati un tempo.

Quella notte, tutto cambiò. Ero congelata dal freddo che sentivo crescere dentro di me, mentre il mondo intorno a me si frantumava.

Kai avrebbe voluto piangere, ma le lacrime non arrivavano. Il dolore che provava non era quello che solitamente spinge al pianto, a sfogare la disperazione in lacrime che scorrono calde sulle guance.

No, ciò che sentiva era un vuoto acuto, un'assenza che bruciava come un fuoco freddo proprio dietro il plesso solare, lì dove il respiro si spezza e il cuore sembra battere più lento.

Piangere avrebbe significato ammettere che c'era qualcosa di concreto, qualcosa di tangibile da espellere, ma ciò che Kai provava era l'esatto opposto, una mancanza totale, un "tu-meno-qualcosa" che lo faceva sentire meno di una persona intera.

I suoi pensieri erano confusi, frammenti di ricordi che si mescolavano senza senso logico.

Un'immagine dopo l'altra, senza ordine né continuità, si sovrapponevano nella sua mente come vecchie fotografie sparse sul pavimento.

Ogni immagine portava con sé una fitta di dolore, una sensazione pungente che si annidava sotto la cassa toracica, come se il suo stesso corpo cercasse di contenere qualcosa di troppo grande per essere compreso o accettato.

Il suo viso era contratto in un'espressione che tradiva tutta la sofferenza che stava cercando di reprimere, le labbra strette in una linea sottile, gli occhi abbassati come se volesse fuggire dalla realtà che lo circondava.

Kai continuava a ripetere nella sua testa una sola parola, un mantra ossessivo che lo trascinava sempre più a fondo nei suoi pensieri.

E mentre si sforzava di dare un senso a quel caos interiore, sentiva che il dolore si faceva più intenso, come se ogni ricordo, ogni pensiero, fosse una scheggia che si infilava sempre più in profondità, rendendo ogni respiro doloroso e ogni battito del cuore un fardello insopportabile.

Il suo corpo, solitamente così composto e controllato, era ora una maschera tesa, con le spalle rigide come se portassero il peso del mondo intero.

Le mani, strette a pugno, tremavano leggermente, un segno dell'immensa tensione che lo stava consumando dall'interno.

Non riusciva a scappare da quel dolore, non poteva reprimerlo, eppure si rifiutava di lasciarsi andare, di abbandonarsi al pianto.

Piangere sarebbe stato troppo facile, troppo umano.

Quello che sentiva, invece, era un vuoto che sembrava non avere fine, una ferita invisibile che continuava a bruciare, silenziosa ma implacabile.

Kai era perso nei suoi pensieri, un naufrago in un mare di ricordi e rimpianti, incapace di trovare un appiglio, qualcosa che gli permettesse di risalire in superficie. Ogni tentativo di comprendere, di dare un nome a quel che provava, sembrava fallire miseramente, lasciandolo solo con quel dolore bruciante che lo consumava.

Era come se fosse intrappolato in un labirinto senza uscita, dove ogni strada lo riportava sempre al punto di partenza, alla stessa sofferenza che cercava disperatamente di sfuggire.

In quel momento, Kai era un uomo distrutto, la cui anima sembrava essersi spezzata in mille pezzi, frammenti che non riusciva più a ricomporre.

E mentre il dolore continuava a stringere la sua morsa attorno al suo cuore, Kai rimase lì, immobile, prigioniero del suo stesso tormento.

"Dimmi pure. Ma..." esitai, avvertendo una strana tensione nella sua voce. "Tutto bene, Kai? Sei... diverso dal solito."

Dall'altra parte del telefono, Kai rimase in silenzio per un istante, quasi a raccogliere il coraggio di pronunciare le parole che gli pesavano sulle labbra.

Quando parlò, la sua voce era grave, un tono cupo e solenne che mi fece gelare il sangue nelle vene. "Allison, devo partire. Non potremo più sentirci, né vederci... mai più."

Le sue parole mi colpirono come una pugnalata al petto, lasciandomi senza fiato.

Prima che potessi comprendere appieno ciò che stava dicendo, un suono improvviso e agghiacciante esplose dall'altra parte della linea, uno sparo, secco e devastante, che sembrò echeggiare nel mio stesso cuore.

Il mondo attorno a me si fermò in un istante. Era come se il tempo si fosse cristallizzato, intrappolandomi in un momento di puro terrore.

Sentii il mio corpo irrigidirsi, mentre un freddo paralizzante si diffondeva attraverso ogni cellula, bloccando il mio respiro e rendendo le mie gambe incapaci di sostenere il mio peso.

Mi aggrappai alla realtà con la forza della disperazione, cercando di scacciare la paura che mi avvolgeva come un sudario.

"Cosa?! Kai, che cosa stavi dicendo?" sussurrai, la mia voce ridotta a un filo tremante.

Ero terrorizzata, il cuore battendo così forte che sembrava voler sfondare il petto.

Non potevo crederci, non volevo crederci.
Le mie parole erano cariche di disperazione, il suono di una persona che si aggrappa a ciò che rimane di un sogno infranto.

Dall'altro lato, la voce di Kai tornò, ma questa volta era fredda, distante, come se ogni emozione fosse stata spenta, sostituita da una calma glaciale che mi fece rabbrividire. "Ti prego, elimina questo numero dopo la chiamata.

Non cercarmi, Allison, non provare a contattarmi." Ogni parola era un colpo, una ferita che si apriva sempre più profonda.

La mia mente rifiutava di accettare ciò che stava accadendo, il mio cuore in subbuglio mentre cercavo disperatamente di trovare un senso a quella situazione surreale. "Mi hai capito, Allison! È per il tuo bene," aggiunse Kai, e questa volta la sua voce era carica di una tristezza che mi spezzò l'anima.

Era come se stesse cercando di proteggermi, di tenermi lontana da qualcosa di oscuro e pericoloso, ma tutto ciò che sentivo era il peso schiacciante di una perdita imminente.

Le lacrime cominciarono a scendere lungo le mie guance, calde e brucianti come gocce di fuoco. Ogni singolo respiro era una lotta, un tentativo di non crollare completamente sotto il peso di ciò che stava succedendo.

"Dimmi cosa succede, Kai!" implorai, la mia voce spezzata dall'angoscia. Ma dentro di me sapevo che era troppo tardi, che qualcosa di irreparabile stava per accadere.

"Addio, Allison." La sua voce si spense, e con essa, anche l'ultima traccia di speranza che avevo dentro di me.

Il suono del telefono che si interrompeva risuonò nella mia mente come una campana a morto, e in quell'istante, tutto ciò che ero sembrò collassare su sé stesso.

Rimasi immobile, incapace di muovermi, incapace persino di respirare, mentre la consapevolezza della perdita si faceva strada nella mia coscienza.

Era successo di nuovo.

Ancora una volta, avevo perso qualcuno che amavo, qualcuno che significava tutto per me. Ero intrappolata in un ciclo senza fine di dolore e abbandono, come un'onda che mi travolgeva senza mai lasciarmi riprendere fiato.

Mentre le lacrime continuavano a scendere, sentii un freddo insopportabile insinuarsi dentro di me, come se la vita stessa si stesse ritirando, lasciandomi vuota e sola.

Kai se n'era andato, portando con sé una parte di me che non sarebbe mai più tornata.

Ero rimasta lì, con il telefono ancora stretto in mano, come se potessi in qualche modo richiamarlo, riportarlo indietro.

Ma sapevo che era inutile. Kai era sparito. E con lui, anche una parte della mia anima.

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