序盤 - Joban*

30 dicembre 1944

Tomo si accorse che qualcosa era cambiato il giorno che gli venne di pensare a quanto gli sarebbe piaciuta una bella corsa in slittino.

Aveva formulato quella riflessione banale mentre attraversava il cortile imbiancato con in mano il secchio del mangime per le galline e all'improvviso si era sentito ribaltare lo stomaco e le gambe avevano smesso di funzionare. Era scivolato in ginocchio nel pollaio ed era rimasto lì, immobile, con il cervello bloccato, la testa vuota e le mani sulle ginocchia, come se pregasse.

Il vecchio lo trovò così, coperto di neve come un pupazzo e mezzo congelato, in mezzo al mangime rovesciato, con le galline che gli razzolavano intorno allegramente, lasciando lunghe serie di piccole impronte a tre punte sulla neve fresca.

Kuroo Tomo fu riportato in casa in braccio e recuperò quel poco di dignità che gli restava solo dopo un bagno, davanti a una tazza di tè bollente, avvolto in una coperta di lana e seduto a capo chino di fronte al suo ospite.

Era passato un mese esatto da quando era arrivato lì ma, in tutto quel tempo sotto lo stesso tetto, avevano scambiato il minimo di parole indispensabili a comunicare concetti pratici con fredda educazione. Nessuno dei due brillava per estroversione e, di contro, nessuno dei due era infastidito dal silenzio dell'altro.

«Oggi parleremo» gli annunciò il vecchio, mettendogli di fronte la tazza fumante. Ne aveva riempita una anche per sé. «Davanti a un buon tè è più facile.»

«Mi dispiace» esordì Tomo, con un lungo sospiro, se glielo avesse chiesto non avrebbe saputo dire esattamente di cosa gli dispiacesse. Della grama figura, principalmente. Teneva entrambe le mani intorno alla porcellana rovente e le staccava solo quando il calore diventava insopportabile. Anche di dover parlare gli dispiaceva. Tuttavia si fece coraggio e aprì la bocca, ma il  vecchio scosse il capo e subito lui la richiuse.

«Faremo le cose per bene» chiarì il padrone di casa. «Io mi scuserò con te e tu ti scuserai con me, formalmente, in modo che i nostri debiti siano rimessi e, qualsiasi cosa venga dopo, inizi con il piede giusto.»

Così Tetsurou si scusò, come aveva sempre avuto intenzione di fare, per quel primo giorno in cui lo aveva colpito alla gola. Il ragazzino non sembrava rammentare granché, ma accettò le scuse con garbo. Nell'ultimo mese lo aveva osservato spesso. Era pieno di energie, audace, spavaldo, intelligente e curiosamente riflessivo, che era il suo pregio maggiore. Chi lo aveva tirato su gli aveva prestato meno attenzione di quanta ne avrebbe meritata, ma questo lo aveva reso umile, il che, per un carattere così vivace e un intelletto così pronto, non era un male.

«E' tuo turno» gli comunicò.

Il bambino si inchinò e unì le punte delle dita sul tatami: «Sumimasen, Noma-sama» pronunciò solenne.

«Per cosa ti stai scusando?»

Il bambino fece un sospiro profondo. «Per tutto quanto» disse. E sarebbero state scuse perfette se non avesse sollevato quegli occhi pieni di dolore e di vita, che continuavano a vomitare domande, anche quando le sue labbra erano sigillate.

«Alzati» ordinò Tetsurou. «Vieni a sederti qui e parliamo. Vorrei sapere da dove vieni.»


«Da Tokyo» rispose Tomo, abbassando lo sguardo. Si avvide in quel momento della scacchiera aperta sul piano del tavolo. Il vecchio la teneva spesso così, con le tessere in varie posizioni, come se giocasse contro un avversario invisibile. Era una cosa che gli sembrava sciocca, ma niente di quello che il vecchio faceva o diceva era sciocco.

Il vecchio rifletté.  «L'evacuazione di agosto?»

Il governo, in previsione di ulteriori e più feroci attacchi aerei sulle grandi città, aveva ordinato alle famiglie di collaborare all'evacuazione dei bambini.

Tomo annuì. Teneva gli occhi sgranati fissi sulle tessere dipinte, perché, se li avesse chiusi, sarebbe precipitato indietro, all'assemblea in cortile, ai volantini sui muri del quartiere, alla valigia preparata con cura, con dentro i quaderni e le matite, due divise e sei paia di mutande. Al treno che correva e si portava via la mamma e la nonna dietro un vetro sporco, mentre si sentivano passare gli aerei e se fossero giapponesi o americani, da giù non si poteva dire.

«Eri con la scuola? E' dai campi scuola che vieni?»

Tomo avrebbe voluto mentire; sarebbe stato facile, bastava fare di sì con la testa. Ma in quel momento, non ci riuscì. Si sentiva il cuore pietrificato, i muscoli rigidi. I pensieri gli esplodevano in testa come pallottole, si coprì le orecchie con le mani, si rannicchiò su se stesso con uno scatto, rovesciando la tazza. Improvvisamente, il braccio gli faceva di nuovo male e intorno era buio e umido, come in una cantina. E puzzava di cose sporche.

«Calmati» disse il vecchio.

Tomo lo sentiva da una grande distanza, come una voce portata dal vento.

«Calmati, adesso» ripeté. E sembrava già più vicino.

Era vicino. Stava asciugando la chiazza umida di tè sul tavolo. La tazza era rotolata giù sul tatami, spargendo liquido, ma non si era rotta. Tomo tornò in sé; si aspettava una sgridata o un manrovescio, che però non arrivarono.

Il vecchio tornò al suo posto, riempì nuovamente la tazza e gliela fece scivolare di fronte, in un gesto elegante e silenzioso, trattenendo con una mano la manica del kimono.

«Tomo-san» lo chiamò.

Tomo sollevò gli occhi. Il riverbero della neve illuminava la stanza, un pettirosso saltava sulla cornice della finestra, il fumo saliva dalle tazze in lunghe spirali che poi sparivano fra le travi del soffitto. L'acero aveva perso tutte le foglie.

Sorbì un lungo sorso, sentì il fiotto caldo sciogliersi nella gola e scendere lungo tutto il suo corpo. Era amaro, ma buonissimo. «E' una shogiban» disse a voce bassa, sfiorando con un dito il profilo di legno della scacchiera. Non l'aveva formulata come una domanda.

«Sai giocare?»

Tomo scosse il capo. «So come si muovono i pezzi. Mio padre e mio fratello maggiore qualche volta giocavano.»

«E tu non volevi imparare?»

Tomo provò a toccare una tessera, ma poi ritrasse subito la mano, come se scottasse. «Prima ero troppo piccolo, poi è venuta la guerra.»

«Tuo padre è al fronte?»

«Mio fratello è soldato. Mio padre era sulla Shoho**, nel Mar dei Coralli» disse, bevendo l'ultimo sorso tiepido. Mar dei Coralli era un bel nome. Tomo aveva cercato sull'atlante, una volta sola: nel punto dove era affondata l'immensa portaerei su cui serviva Kuroo Toshiro c'era una grande macchia celeste uniforme e piccole isole gialle irregolari, come grumi di vomito schizzati sulla pagina.

«Tra due giorni è capodanno» osservò Noma Tetsurou.

A Tomo parve che non c'entrasse nulla con tutto quello che gli aveva detto e si pentì di essere stato così aperto.

«Domani puliremo la casa» proseguì il vecchio. «Dopodomani pregheremo, mangeremo carne e poi ti insegnerò a giocare. E' un ottimo giorno per una prima lezione» concluse, prima di accostare le labbra alla tazza.

Tomo non era più tanto sicuro di voler imparare, ma non ci teneva a far proseguire quella conversazione, quindi serbò per sé i suoi pensieri e altrettanto fece il suo interlocutore. Il silenzio se li riprese, calando nella stanza e asciugando il rumore di tutte le parole che erano state dette e anche di quelle non ancora pronunciate.


Anche Tetsurou aveva avuto un figlio e gli aveva insegnato lo shogi: era diventato un bravo giocatore. Noma Hitoshi vinceva spesso e quando perdeva lo faceva con garbo, da gentiluomo, come aveva imparato a Oxford quando era ragazzo. Tetsurou l'avrebbe voluto più simile a sé e pensava che sarebbe successo, con il tempo.

Il tempo non era bastato: Hitoshi e il suo sorriso intelligente erano rimasti nel Mar dei Coralli, non a bordo della Shoho, bensì al posto di guida di uno dei suoi quarantaquattro velivoli. La Casa di Yamato*** aveva mandato una lettera di condoglianze. L'ammiraglio Goto era venuto a porgerle di persona. Qualcuno diceva che l'imperatrice madre avesse partecipato alla cerimonia funebre, restando appartata. Tetsurou aveva scoperto che le ossa di un figlio sono bianche e anonime come quelle di chiunque altro. E sono poche, nel caso di un pilota precipitato nell'oceano.

Contemplò di fronte a sé il vuoto di un figlio che aveva perduto il padre e  gli fu restituito quello d'essere un padre che aveva perduto il figlio. Rimanevano un padre e un figlio vivi, rancorosi e soli.

In silenzio, odiarono insieme il Mar dei Coralli, il dolore, la morte e la vita. 



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* joban è l'apertura, ossia una precisa sequenza di mosse iniziali che garantisce vantaggi o potenzialità strategiche in una partita di shogi. Negli scacchi occidentali, il concetto è identico.

** la Shoho era una portaerei leggera della flotta giapponese, che fu affondata il 7 maggio del 1942 in quella che fu la prima battaglia esclusivamente combattuta da aerei imbarcati su navi, che si scontravano fra loro e con le navi nemiche.

*** Casa di Yamato è uno degli appellativi con cui ci si riferisce alla famiglia imperiale giapponese.

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