中盤 - Chūban*

10 marzo 1945

Tetsurou uscì in cortile stringendosi addosso i lembi dell'haori: dove diamine era andato a cacciarsi il bambino? Con la neve ancora così alta e quelle temperature inclementi, rischiava di prendersi un malanno. 

Pensava sempre a Kuroo Tomo come a un bambino, ma si era reso conto che cresceva a vista d'occhio. Ripeté a se stesso, per l'ennesima volta, che lo strano equilibrio che avevano raggiunto, fatto di lunghi silenzi e parsimonioso rispetto, non poteva - non doveva - diventare abitudine.

Ora che il braccio era guarito del tutto e non c'erano più nemmeno fasce bugiarde a fingere di proteggere una ferita rimarginata, sarebbe stato meglio se se ne fosse andato al più presto.

Meglio per chi?

Era un'ottima domanda, per la quale non aveva una risposta. Spingersi a pensare alla faccenda in termini emotivi era l'ultima cosa da fare e tuttavia tale è il cuore dell'uomo, che proprio quando si sforza di evitare un pensiero, lo pensa più forte.

Mosse qualche passo, si guardò intorno e lo scorse, vicino al lavatoio. Teneva in mano il mastello delle stoviglie, ma non le stava lavando. Si sporgeva con il busto oltre il bordo di pietra della vasca e sembrava assorto nel contemplare qualcosa.

Gli arrivò alle spalle e vide ciò che aveva catturato la sua attenzione: un insetto nero, una specie di grosso, disgustoso scarafaggio che si aggirava convulso intorno al buco dello scarico.

Tetsurou non amava gli insetti. «Se non stai attento quel coso finirà in mezzo ai nostri piatti» lo esortò, seccato.

Il bimbo trasalì e rispose senza voltarsi. «Quando aprirò l'acqua scivolerà giù nello scarico e morirà.»

«E quindi? Cosa c'è da esitare? Sei buddista?»

Tomo la credette una vera domanda e scosse il capo: la sua famiglia era shintoista. «L'insetto non mi ha fatto nulla. Se fosse carino, come una coccinella o una libellula, neanche ci penseremmo a ucciderlo.»

Non si poteva dire che avesse torto. Che l'estetica abbia un peso notevole nel metro del giudizio umano, era vero probabilmente fin dall'inizio dei tempi. E chissà che non fosse persino saggio cercare nella Bellezza conforto e indulgenza, piuttosto che giustizia. Ma non erano concetti di cui si potesse discutere con un bambino di dieci anni.

«Li hai lavati?» domandò Tetsurou, prendendogli dalle mani il mastello con i piatti.

«Sì» rispose Tomo, ancora preso dallo spettacolo nel lavatoio, dove l'insetto si muoveva rapido lungo inutili percorsi circolari, che lo riportavano immancabilmente al punto di partenza, pericolosamente vicino allo scarico.

«Allora muoviti, rientriamo» intimò Tetsurou, ma non ottenne alcuna reazione e la cosa lo infastidì.

«Si saranno sentiti così?» domandò Tomo, con una voce strana, entrambe le mani aggrappate alla pietra del lavatoio.

«Così come?»

«Così» ribadì Tomo, indicando lo scarafaggio, che girava freneticamente su stesso, tentando invano di risalire le pareti scivolose di saponata e continuando ad aggirarsi sull'orlo dello scarico. «In trappola, senza via d'uscita. A fare e rifare sempre le stesse cose stupide e inutili, solo perché non puoi fare nient'altro che buttarti dentro il fuoco e morire.»

«Dentro il buco, volevo dire» si corresse subito.  Ma Tetsurou aveva già capito.

Al mattino, dopo colazione, ascoltavano il bollettino della radio. Era un momento che odiavano, eppure non l'avrebbero perso per nulla al mondo. Si trovavano lì entrambi, di fronte allo shogiban, come se dovessero giocare. E invece di aprire di pedone, Tetsurou accendeva l'apparecchio e con la manopola sintonizzava la frequenza e allora il mondo faceva irruzione in casa loro. Loro: plurale.

«Togliersi la vita non è un disonore» commentò Tetsurou. Sapeva che stava sviando la conversazione dal suo vero oggetto, ma con i bambini di solito la distrazione funzionava.

Non funzionò in quel momento, non con quel bambino. La guerra bruciava l'infanzia come faceva con le coscienze e le case di legno.

Tomo si voltò e fissò Tetsurou negli occhi. «Non è un disonore se lo decidi tu, non se decide qualcun altro e tu non hai scelta» rispose.

Dopo il bollettino di quel mattino, Tokyo che ardeva sotto le bombe incendiarie degli americani era uno scenario che l'immaginazione proiettava senza sosta nella mente di entrambi, arricchita di dettagli macabri che, se non erano reali, avrebbero però potuto esserlo. 

Mentre ascoltavano la radio, che parlava di interi quartieri che bruciavano, di edifici, abiti, persone che prendevano fuoco spontaneamente per il calore che la città emanava dal suo cuore infuocato, avevano entrambi percorso con la mente le strade che conoscevano, i negozi, le case, i panorami familiari, i luoghi abituali e quelli significativi e li avevano immaginati avvolti dalle fiamme, accartocciati dal fuoco, riarsi, ridotti in cenere e brandelli nel vento, pronti a sbriciolarsi fra le dita se riuscivi a catturarli.

Era successo già una ventina di giorni prima che gli americani lanciassero ordigni incendiari, ma questa volta, così aveva detto la radio con la sua voce asettica, le bombe erano diverse, c'era una nuova gelatina dentro**, che le faceva bruciare di più e molto più a lungo. In pochi minuti di raid aereo, enormi città pulsanti di vita venivano ridotte a immensi roghi che divoravano edifici,  persone e secoli di storia, annientando speranze, sogni, vite.

Noma Tetsurou era stato un guerriero, l'erede di un clan di samurai, un maestro d'armi nella Casa di Yamato. Conosceva la guerra e la diplomazia, eppure in quel momento si trovò senza parole, sotto quegli occhi inquisitori, che pretendevano risposte.

Appoggiò il mastello e prese una scodella dalla pila di stoviglie. «Fai andare piano la pompa e riempila» disse.


Tomo ubbidì, azionò dolcemente la leva, tirandola verso il basso, finché non scese un rivolo d'acqua sottile.

Cosa avesse in mente il vecchio non lo poteva immaginare e ci rimase quasi male quando lo vide rovesciare la scodella in un colpo, lungo il profilo verticale dell'acquaio. L'acqua aderì alla pietra e scivolò giù, travolgendo lo scarafaggio. La spinta lo portò oltre il bordo dello scarico e l'istinto di Tomo fu cercare di salvarlo, ma la mano di Testurou gli bloccò il polso.

L'insetto zampettò con foga, aggrappato alla vita e, poiché il fiotto era stato improvviso ma non troppo violento, riuscì a riemergere dal buco. Riprese ostinatamente a muoversi come prima, senza un piano preciso, in cerchi sempre più larghi, ma questa volta scoprì di far presa sulla parete verticale e, lentamente, con sforzo visibile, si arrampicò fino in cima alla vasca e fuggì via, senza voltarsi indietro.

Tomo lo seguì con lo sguardo finché non lo vide sparire nell'erba. Si sentì immotivatamente contento per quella vita risparmiata, anche se era un insetto e faceva un po' schifo. Sperò di non ritrovarselo nel letto.

«Chi ha salvato lo scarafaggio?» chiese Tetsurou.

Era il tono "da shogi", quello che il vecchio usava quando voleva insegnargli qualcosa. A Tomo piaceva molto. Odiava ancora i vecchi, ma Tetsurou-sama era diverso. 

«Siete stato voi: l'acqua ha lavato via il sapone» rispose pronto.

«Pensi che potessi sapere con certezza che rovesciandogli l'acqua addosso non sarebbe finito giù nello scarico?»

Tomo si mordicchiò le labbra. Lo faceva sempre quando rifletteva. «Credo di no.»

«Quindi chi ha salvato lo scarafaggio?»

«Si è salvato da solo?»

Il maestro annuì. Quando Tomo rispondeva bene emetteva una specie di breve mugolio di approvazione, che, in qualche modo, conteneva una lode.

«E perché si è salvato?» continuò Tetsurou.

«Si è arrampicato e... »

«Continui a confondere il come con il perché. Pensaci bene, perché si è salvato?»

Era un'obiezione che gli aveva mosso molte volte di fronte alla scacchiera. Tomo si concentrava talmente sulle sequenze e sulle tecniche che perdeva di vista le motivazioni per fare o meno una certa mossa.

«Si è salvato perché... perché non si è arreso?»

«Giusto» approvò Tetsurou, ma senza il mugolio, segno che alla risposta mancava qualcosa. «Ha continuato a fare quello che faceva prima, anche se prima non aveva funzionato... »

Tomo era perplesso: fare sempre la stessa mossa inutile non gli sembrava una tecnica di gioco che il maestro potesse apprezzare.

Tetsurou riappoggiò la ciotola in cima alla pila e sollevò il mastello. Provò a rispiegare il concetto con parole diverse: «Ha fatto tutto quello che poteva fare. Non ha avuto paura di fallire anche se era già successo. Ha pensato che vivere fosse più importante di morire in fretta.»

«Voi dite che uno scarafaggio pensa tutte queste cose?»

A Tetsurou sfuggì una mezza risata, cosa che non succedeva quasi mai. Per nasconderla, si incamminò verso casa e il bambino lo seguì. 

«Ha agito per istinto.»

«Non fate che dirmi che sono troppo istintivo» protestò Tomo.

«Tu non sei uno scarafaggio» obiettò il maestro. «Quello che volevo dire è che quando si è alle strette, bisogna fare tutto quello che si può, finanche ritentare strade già battute, se non ci sono alternative. E che in ogni caso, la responsabilità di salvarsi ricade su noi stessi, sempre.»

«Anche se ti lanciano le bombe con gli aerei?» chiese Tomo. Strascicava i piedi nella neve ghiacciata, bagnandosi i piedi e lasciando solchi, anziché impronte definite.

«Sempre, Tomo.»

Tomo alzò lo sguardo: non lo chiamava quasi mai per nome. Anzi, non si chiamavano l'un l'altro a meno che non fosse strettamente necessario.

«Anche se ti cacciano da casa? Anche se non hai da mangiare? Anche se ti sparano addosso? Anche se... » Tomo si bloccò a metà di quel conato di parole disperato e rabbioso. «Non è giusto!» gridò, con i pugni stretti e il viso contratto.

«No. La vita non è giusta. E il destino a volte è crudele. Anche gli uomini che lo incarnano possono esserlo. Ma la responsabilità delle tue azioni è sempre e soltanto tua.»

«La colpa è loro» si oppose Tomo vivacemente. «Se le persone odiano, rubano, se muoiono è colpa di chi le ha odiate e affamate e uccise.»

«Se lo scarafaggio fosse finito nello scarico sarebbe stata colpa mia?»

«Sì.»

«E visto che non è successo e l'acqua ha lavato via il sapone, se si è salvato è merito mio?»

«Sì» disse Tomo, più incerto.

«Dunque ho fatto tutto io?»

Il bambino annuì appena, ma non rispose.

«E se anziché uno scarafaggio fosse stato un serpente e mi avesse morso e ucciso? La mia morte sarebbe stata colpa mia o merito del serpente?»

Tomo si trovò confuso a considerare l'ipotesi. «Era solo uno scarafaggio... »

«Colpa e merito cambiano volto a seconda di chi le giudica, di come le giudica, di quanto è acuto e retto il suo pensiero. Persino la verità può avere più di una forma. Ma quando decidi di agire, in qualsiasi modo, per qualsiasi motivo, è sempre una tua responsabilità. Di fronte alla fame puoi morire, puoi chiedere o puoi rubare. Nessuna delle tre cose è giusta in se stessa. Giustizia o ingiustizia, opportunità o problema dipendono da molte variabili. Come quando si entra nel mediogioco e diventano possibili un numero molto elevato di mosse, con tutto un ventaglio di conseguenze. Puoi provare a prevedere cosa farà l'avversario, ma come poi muoverà dipende solo da lui, come reagirai, solo da te. E' chiaro questo?»

Tomo riprese a camminare. Appena raggiunse la tettoia si tolse la neve di dosso, scrollandosi come un cagnolino. «E' chiaro» disse, tenendo aperta la porta di casa, mentre Tetsurou passava, con l'ingombro del mastello. «Credo.»

«La vita è come lo shogi: mosse impreviste, promozioni, castelli, pezzi paracadutati che non ti aspettavi, avversari che avevi sottovalutato. La sorte è il tuo avversario, ma sei sempre tu a muovere.»

«Un pezzo solo, però» osservò Tomo, con un piccolo sbuffo nasale. Aveva capito, ma restava un concetto astruso e, gli sembrava, non sempre così lineare da applicare.

«Un pezzo solo» confermò Tetsurou. 

«E' una partita con un grosso teaiwari***»  si lagnò Tomo.

Noma Tetsurou annuì e, addirittura, sorrise. Il mugolio di approvazione, questa volta, fu lunghissimo.



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* Chuban è il mediogioco, ossia la fase che inizia con la prima cattura e termina nel momento in cui un giocatore riesce ad avviare una sequenza di scacco. Lo scopo del giocatore, durante il mediogioco, è il guadagno di materiale e l'indebolimento delle difese avversarie, tentando nel frattempo il rafforzamento delle proprie. 

** Si tratta delle prime bombe al Napalm, lanciate su Tokyo fra il 9 e il 10 marzo 1945

*** Teaiwari sono gli handicap che si utilizzano nelle partite con i principianti, in modo da equilibrare lo svantaggio rispetto all'avversario. Si va da handicap leggeri fino alla rimozione di quasi tutti i pezzi di una delle due parti. Ognuno di questi handicap è formalizzato e ha un nome.

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