𝕾𝖕𝖆𝖈𝖈𝖍𝖎 𝖓𝖊𝖑 𝖛𝖊𝖙𝖗𝖔

Il nero manto dell'oscurità mi circondava. Mi confondeva.
Voleva strapparmi alla luce, farmi perdere fra le profondità di quella foresta che pareva non aver fine.

Il fiato mi mancava. La corsa che ero intenta a perpetrare mi stava logorando, prosciugando di tutte le forze.
Avvertivo nelle orecchie il forte pulsare del mio cuore, ma c'era anche un altro suono che cercava di raggiungermi, martellante.

Non dissimile da un ululato, ma più acuto, permeato dal dolore che impregna un guaito.
Non potevo fermarmi, era la mia unica certezza, dovevo continuare a correre e raggiungere... qualcosa.

O qualcuno.

Seguii quel debole suono che mi struggeva dall'interno. Le mie mani erano sollevate a proteggermi il viso dai rami secchi degli alberi che cercavano di afferrarmi e impedirmi di continuare.
Come anziane mani rugose e avvizzite si aggrappavano ai miei abiti, tirandone i lembi con una forza che non poteva appartenergli.

Il bruciore dei graffi sul viso, e della cute, quando quelle secche dita di legno si impigliavano fra le mie ciocche ramate, non era nulla a confronto delle lame di sale conficcate fra le costole. Come se un piromane con senso dell'umorismo avesse lasciato cadere un fiammifero di lava nel mio petto.

Era frustrante, i miei occhi pungevano di lacrime che sapevano di impotenza. Non volevo essere fermata, non volevo rimanere al sicuro, fragile e inerme, una bambina resa inquieta dalle ombre che nella notte le paiono mostruose.

Dovevo raggiungere quella persona.

Lui.

«No» rantolai.

«No!» urlai.

La luce che spezza l'oscurità in piccole schegge di umani timori, giunse.

Le molle del letto cigolarono sotto la pressione esercitata dal mio piccolo corpo, talmente rapido fu lo scatto con il quale mi rizzai a sedere.

Il respiro mi si mozzava nel petto. Una gelida patina di sudore mi imperlava la fronte e mi inumidiva il collo. Il tutto scaturito da un sogno di cui non riconoscevo l'essenza.

Una volta riuscita a quietare il battito prorompente del mio cuore, lanciai una rapida occhiata alla sveglia. Sullo schermo lampeggiava un orario che mi fece girare la testa, in un turbine di prepotente stanchezza psicologica.

Ben conscia che non sarei riuscita ad abbandonarmi al sonno, scesi cautamente al piano di sotto. Cercai di non costringere anche mia madre a patire la sofferenza di un brusco risveglio.

Arrivata nella cucinetta calda e accogliente, munita di tavolo bianco e sedie di stoffa. Mi servii un bicchiere d'acqua fresca, che scivolandomi nella gola diede un po' di sollievo alle mie corde vocali.

Era singolare come ciò che accadeva in un sogno apparisse a volte parallelo alla realtà. La corsa che avevo vissuto nella mia mente sembrava ripercuotersi sul mio intero organismo, al di fuori di essa.

Senza neanche accorgermene mi ritrovai a osservare le piccole increspature nell'intonaco della parete. Un piccolo scorcio di timori cominciava ad affacciarsi fra gli altri pensieri. Avevo cercato di riempire il mio cervello, alla ricerca di una calma che era distante da me anni luce.

Decidendo di confermarne la reale stupidità, afferrai le chiavi di casa. Indossai il mio caldo cappotto nero e, munita di pantofole rosa ai piedi, aprii la porta di casa e imboccai l'uscita, in un'azione tanto pazza quanto disperata.

Le ombre dei miei pensieri si riflettevano nel mio stomaco. Un'ansia incontenibile che, continuavo a ripetermi, non aveva alcun fondamento logico.

La via era tanto piccola e poco conosciuta da non avere bisogno di lampioni. L'unica cosa a illuminarla erano le deboli luci posizionate strategicamente nei cortili dei vicini: una muta solidarietà verso lo sventurato che si fosse ritrovato a passeggiare fra le ombre della notte.

Accelerai il passo. Percorrevo quella strada da quando da piccola avevo imparato a fare piccoli passettini, mano nella mano con mia madre. Quella volta lo feci a una velocità che mai avevo creduto di poter raggiungere.

Quando giunsi all'abitazione, sorrisi, leggermente imbarazzata dell'irrazionalità che mi aveva pervaso. Il silenzio circondava quel luogo. Nessun massacro stava avvenendo sotto il mio sguardo impotente.

Tuttavia, quando provai a spingere il cancelletto di metallo scuro e freddo del giardino, questo si spalancò con un debole cigolio. Di notte Sebastian lasciava chiuso. Sparse brividi, gelidi come il debole tocco delle dita ghiacciate e dimenticate di un invisibile fantasma, lungo la mia schiena pallida.

Percependo un groppo in gola persistente, mi feci coraggio ed entrai. Trovai aperta anche la porta della casa, un pesante portone di mogano.

Il silenzio continuava ad aleggiare nell'aria ma non mi pareva più rassicurante come prima. L'effetto che esso aveva su di me era totalmente mutato, in un'inquietudine senza precedenti.

Il pensiero di scappare, tornare lì solo alle luci del sole per vedere Sebastian sdraiato sul letto come suo solito e bisticciare con lui fino allo sfinimento, era una debole presenza. Una tentazione potente, che percepii appena sotto gli strati di puro terrore, e che ignorai facilmente.

Salii a passo svelto. Le pantofole morbide attutivano il debole tonfo impresso sul suolo dai miei passi.
Senza indugiare oltre, per timore di una rinuncia, spalancai la porta della sua stanza.
Ciò che vidi interruppe, per un fragile istante, ogni mia funzione vitale, che improvvisamente non mi parve più esserlo così tanto.

Senza neanche accorgermene mi accasciai a terra, seduta. Le ginocchia puntate verso l'esterno, un mugolio sofferente mi varcò le labbra, non provocato dall'impatto con il parquet, ma dalla catena che sembrava essersi stretta attorno al mio cuore dolorante. La nausea mi pervase l'intestino.

I comodi pantaloni del mio pigiama niveo si imbrattarono di un rosso acceso: il rosso della viscosa sostanza che ricopriva il suolo con odiosa pacatezza.

Lui era lì.

La schiena accostata al letto, seduto sul pavimento, le braccia forti a circondare le ginocchia, la testa sprofondata fra esse.
Volevo dire qualcosa, ma tutto ciò che sentivo di poter esprimere era dolore.

Anche quella volta fu Sebastian la mia ancora. Seppur distrutto, seppur dolorante e ferito. Il suo sguardo si rivolse a me. Un argenteo scoglio a cui avrei sempre avuto il permesso di aggrapparmi. Mai mi avrebbe lasciato affogare.

Mi mossi verso di lui, non curandomi di star trascinando con me anche quella vermiglia sostanza maledetta.

I tratti perfetti del suo volto erano contorti in un composto di torturata sofferenza fisica. Il genere di sofferenza che non mi era mai capitato di scorgere sul suo viso, o nelle profondità del potente piombo di quelle iridi.

«Rose» gemette, sorpresa che riusciva a farsi strada nella sua voce, appena udibile sotto la foschia di dolore, e una necessità che mai avevo creduto lui potesse avere di me.

Le catene attorno al mio cuore si polverizzarono, volando via nel vento e lasciandomi raggiungere finalmente dalla forza di emettere un respiro profondo.

Lo strinsi fra le mie braccia in una morsa che lo fece gemere nuovamente. Non me ne curai, sguazzando nell'egoistica convinzione che se lo meritasse, visto il dolore che mi aveva procurato.

Strano come l'amore potesse partire dagli estremi dell'egoismo per poi giungere alle vette più alte, permeate da empatia senza fine e altruismo privo di propri interessi, che portava al totale annullamento di sé stessi per l'altra persona.

Io non potevo vivere senza di Lui.

Perché la mia vita era composta dai riflessi fragili dei suoi sorrisi, delle sue parole gentili, del suo respiro, della sua pigrizia e del suo odore di bosco.

Semplicemente di Lui.

Se la mia vita fosse stata un mondo composto da riflessi negli specchi dell'anima, Lui sarebbe stato in ognuno di essi. Non ero pronta a vederli frammentarsi fra le crepe di un'esistenza grigia e priva di qualsivoglia calore.

Quando lo lasciai andare, Sebastian mi passò con gentilezza una mano sul viso che sembrò lenire parte del mio dolore durante il suo dolce percorso, macchiandosi delle liquide lacrime, frutto della mia tetra sofferenza.

Non ricordavo quando avessero iniziato a rigarmi le guance, solcandole con lievi tracce salate.

Un esile singhiozzo, esile come la forza residua del mio animo in quell'istante, mi varcò le rosee labbra.

«Sta' tranquilla» affermò lui, con una sicurezza che avrei voluto possedere.
Annuii, ma non potei fare niente per controllare l'aria che fuggiva e giungeva alle mie labbra ad un ritmo irregolare, pari passo con il rapido battito del mio muscolo cardiaco.

Mi scostò gentilmente i capelli sudati dal viso e posò la fronte sulla mia. La mano intenta in una carezza gentile.

«Sto bene, sono qui».

Tastai con dita gentili la consistenza del suo viso. Gli zigomi, pallidi e perfetti, le labbra, rosa e morbide, e la cornice definita di quei lineamenti da me tanto amati.
Annuii nuovamente, più convinta, accompagnando il gesto con un debole «Sì» stremato.

«Che cosa è successo?» sussurrai poi, ritirando la mano con rammarico, per potermi asciugare le lacrime con la manica del morbido giacchetto.

Scosse la testa. «Niente», fu la sua risposta. Mi stupii di come riuscisse a dirlo con così tanta convinzione. Lui, accasciato sul pavimento vicino al letto, un pavimento imbrattato di sangue, dolore nella pelle, insinuava che non fosse accaduto nulla.
Ci avrei persino creduto se la stanza non fosse stata ridotta a uno stato tanto disastroso.

«Sì, certo» sbottai, sfogando la frustrazione in una risata palesemente isterica.

«Rose...» mi richiamò.

«Sebastian...» ricambiai, con stizza. I nervi non riuscivano più a reggere.

Lui emise un debole grugnito. Mi prodigai in uno sguardo preoccupato, dimentica del resto del mondo. Strinse le braccia attorno alle proprie ginocchia con forza maggiore.

«Dove sei ferito? Come? Dobbiamo andare in ospedale?» Domandai frenetica, rompendo quel terso silenzio, conscia di star dicendo idiozie dettate dalla paura.

Sbuffò con un sorriso. «Non sono ferito» affermò, le labbra contratte, un ciuffo di capelli disordinato sul viso. Non potei fare a meno di chiedermi se avrei mai appreso come distinguere le sue menzogne dalle sue rare verità.

Lo notò. «Davvero» proruppe «Lo ero, ma le mie ferite si rimarginano rapidamente, se fossi arrivata all'orario giusto...» aggiunse poi con rammarico, denti scoperti in un'espressione amara, gli occhi puntati su di me «Non avresti dovuto assistere a tutto questo».

Mi invase la totale incredulità e non potei fare a meno di torturarmi. Mi domandai quante volte fosse rimasto ferito senza che io ne sapessi nulla, certo non così gravemente.

Si issò sul letto morbido con un lieve sforzo. «Ho solo qualche costola ancora contusa» mi informò.

«Non dovresti muoverti troppo» mi morsi le labbra, quasi attirando altro sangue. Lo ammonii, fingendo che, in realtà, il fatto che si fosse alzato non mi avesse fortemente rassicurata. «Che stavi facendo prima che arrivassi?» Chiesi, perplessa.

Scrollò le spalle. «Stavo cercando di recuperare le forze» dichiarò, muovendo cautamente dita tremanti fra i propri ricci «piuttosto, tu non saresti dovuta venire così presto. Devi esserti spaventata. Mi sono preoccupato. Il tuo cuore ha saltato qualche battito di troppo».

Avvampai, colta dall'imbarazzo, ma anche dalla frustrazione. Non sopportavo la sua totale mancanza di comprensione dei sentimenti che mi animavano. Non avevo idea di come potesse non aver capito che non ero solo spaventata, ma anche preoccupata per lui.

«Sei proprio un cagnaccio» sbuffai, preferendo ridere di quel particolare che componeva una delle tante sfaccettature del suo animo e che, in fondo, apprezzavo e accettavo. Come tutto il resto.

Sembrò palesemente rassicurato «Adesso ti riconosco, stavo giusto per chiedermi che fine avesse fatto la mia Ro» considerò.

Ignorai la sua frecciatina, troppo presa ad osservare lo spazio circostante e le mie morbide pantofole, macchiate e corrotte dal sangue, come i miei pantaloni.

«Dobbiamo ripulire questo casino» constatai, spostando una ciocca dietro l'orecchio. «Pensa se tua nonna decidesse di venire a trovarti proprio oggi. Le prenderebbe un infarto» gli ricordai.

Sebastian non mancò di sminuire agevolmente la situazione «Naaah» biascicò, una mano a stringere poco sotto le costole e il busto semisdraiato sul letto. «Probabilmente penserebbe che mi hai finalmente sventrato e ti cercherebbe per venire a darti il cinque» mi corresse. L'espressione sorprendentemente entusiasta.

Lo guardai. Mi finsi scioccata e gonfiai le guance. Non riuscii comunque a celare un sorriso.

Con uno sgambetto a tradimento mi gettò sul letto, al suo fianco. Rimbalzai per un po', stordita, puntando le mani nel materasso. Mi misi seduta mostrandogli una rapida linguaccia.

Lui sorrise; «Ripuliremo, ma non ora, dormiamo un po', altrimenti non riusciremo a restare svegli a scuola» si giustificò, spostandosi sul fianco destro con un verso rauco.

«Scuola?» Chiesi incredula «Sei quasi morto e vuoi andare a scuola?». Il giorno prima non ne aveva neanche avuto voglia. Mi inumidii le labbra con la lingua.

«Non esagerare» borbottò, punto nell'orgoglio, sdraiandosi. «Non sono quasi morto». Sorrise sornione, come in risposta a una battuta che solo lui avrebbe potuto cogliere: «dovresti vedere gli altri, loro sì che che sembrano morti».

«Aspetta» lo fermai, sdraiandomi anche io, il gomito sul materasso e il palmo a sorreggermi il mento, rivolta verso si lui. «Gli altri?» Domandai, osservandolo fra le ciglia ramate.

Lui batté le palpebre, fingendosi confuso «Ho detto gli altri?» borbottò, le palpebre socchiuse, lunghe ciglia corvine inarcate verso l'alto a ombreggiare gli zigomi «Mi sarò sbagliato, mi è caduto addosso un albero, in effetti».

Lo osservai scioccata e lui distese le labbra carnose in un sorriso innocente, lasciandomi intravedere i denti perlacei.

«Ti lascio in pace per il momento solo perché sono stanchissima, ma non finisce qui» promisi sicura, disposta a tormentarlo pur di ricevere anche solo un briciolo di verità.

«Lo so» rispose, scoccandomi un bacio sulla fronte, le labbra morbide e calde.
La dolcezza di quei piccoli gesti, che lui faceva senza pensarci, mi scaldava sempre il cuore.
Mi addormentai, crogiolandomi nel suo profumo di foresta.

Quando mi svegliai lanciai subito uno sguardo a Sebastian: stava ancora dormendo beatamente. Sorrisi e cominciai a rassettare e pulire.

Mi raggiunse poco dopo. Sembrava essersi completamente ripreso dalla spirale di dolore che aveva riempito i suoi lineamenti poco tempo prima.

Mentre mi prodigavo ad alzare da terra i soprammobili che sarebbero dovuti essere sopra la scrivania, mi ritrovai fra le mani una famigliare foto dalla cornice rosa. Un mio regalo, piccolo ricordo di un gioioso attimo di felicità.

Sfiorai delicatamente con le dita pallide il vetro screpolato che era posto a protezione dell'immagine. Era andato in pezzi, come un cuore dolorosamente calpestato. Però quel semplice, per quanto friabile, materiale poteva essere sostituito, o aggiustato. Anche la cornice era scheggiata.

«Deve essere caduta a terra ieri sera, quando sono entrato» mormorò Sebastian, da sopra la mia spalla. Mi accorsi della sua presenza soltanto in quel momento. Si era lavato e cambiato.
Avvicinò la testa alla mia per scrutare meglio foto «Domani la farò sistemare», dichiarò.

Scandagliai con attenzione i due bambini che vi erano raffigurati. La loro innocenza era perfettamente impressa sulla carta, inconsapevole.

Le labbra posate sulla guancia del bambino dalle grige iridi, una ragazzina faceva sfoggio di sé e di due lunghe trecce rosso fuoco, munita di gelato al cioccolato. Lui aveva la bocca arricciata in un broncio scontento che a quell'età appariva adorabile.
Entrambi non sembravano superare la soglia dei dodici anni.

«Ti ricordi quando abbiamo scattato questa foto, o meglio, quando mia madre l'ha scattata?» Chiesi, pervasa dai ricordi di una vita che sembrava essere appartenuta a un'altra.

Sebastian annuì rapidamente. Uno sguardo curioso gli passò sul viso, sembrava non riuscire a comprendere il senso di quella domanda.

«Eravamo al Luna Park» rispose, paziente ma esitante, increspando le labbra «per me era la prima volta, avevi convinto la zia Kate a comprarci il gelato, ma tu l'avevi lasciato cadere, così ti avevo dato il mio».

Quando Sebastian era piccolo zia Kara, sua madre, era sempre impegnata, per lavoro. Lui si ritrovava a passare la maggior parte dei suoi bei ricordi fra i due fuochi che io e mia madre, Kate Flores, eravamo già all'epoca.

E, visto che la mela non cade mai troppo lontana dall'albero, da subito lei aveva preso in simpatia quel ragazzino dagli occhi grigi, musone e un po' troppo maturo per la sua età. Arrivando a dargli il permesso di chiamarla zia.

«Eri proprio un'imbranata» Sebastian mascherò una risata con uno sbuffo, riportandomi bruscamente alla realtà.

Avvertii un certo calore raggiungere le guance. Gli assestai una manata sulla schiena. La mia vena sadica, tuttavia, non venne soddisfatta. Era tornato l'intoccabile essere possente come un lupo che era, nella sua non molto comune quotidianità.

«Ero una bambina» tentai di giustificarmi, non distogliendo lo sguardo dalla foto. Quel piccolo pezzetto della lunga diapositiva della mia vita «Eravamo così spensierati, non dovevamo preoccuparci di niente».

Sebastian mi lanciò un'occhiata che pareva avere lo scopo di subentrare nel mio animo. Scovarne le ombre. «Rose» mi richiamò. Tentò di intercettare le mie iridi bluastre e, in una muta resa, mi volsi verso di lui. «Non devi occuparti di niente neanche adesso» affermò, la certezza era intrinseca in lui e nelle sue rassicuranti parole.

Sorrisi: «Lo so, è proprio questo il problema» schernii. Assunse un'aria offesa.

«E questo che vorrebbe dire?» Domandò. Un sorrisetto a tirargli un angolo delle labbra carnose.

«Niente, niente» feci blanda, lanciandogli un'azzurra occhiata impertinente.

Posai la foto con attenzione millimetrica e poi mi rivolsi a lui. «Allora? Andiamo?» Imitai le sue parole del giorno prima, ricevendo, in cambio, un timido e tenero buffetto.

Mi preparai, sfruttando quella disastrosa occasione per indossare gli abiti che lasciavo, per ogni evenienza, sparsi per i cassetti della stanza ordinata di Sebastian, occupandoli.

Dovevo passare a casa solo per prendere lo zaino. Almeno in tal modo mia madre si sarebbe evitata una precoce morte per crepacuore alla vista di sua figlia tra sporche vesti insanguinate.

Abbandonammo l'abitazione, Sebastian borbottava di cattivo umore.
Eppure un lieve e malincolico sentore continuava ad accompagnarmi.

Non riuscivo, saggia come non desideravo essere, a scrollarmi di dosso l'orrida sensazione che qualcosa si muovesse sul palcoscenico, si preparasse nella mia attesa. Io ero costretta ad aspettare dietro le quinte, inconsapevole, una tenda scura a celarmi la vista del male. Fin quando non fosse giunto il momento di scostarla.

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𝕰 𝖆𝖉𝖊𝖘𝖘𝖔 𝖘𝖔𝖑𝖔 𝖒𝖊!

𝖡𝗎𝗈𝗇𝗀𝗂𝗈𝗋𝗇𝗈!
𝖢𝗁𝗂𝖾𝖽𝗈 𝗌𝖼𝗎𝗌𝖺 𝗉𝖾𝗋 𝗂𝗅 𝗅𝗂𝖾𝗏𝖾 𝗋𝗂𝗍𝖺𝗋𝖽𝗈, 𝖾𝖼𝖼𝗈𝗆𝗂 𝗊𝗎𝗂 𝖼𝗈𝗇 𝗂𝗅 𝗇𝗎𝗈𝗏𝗈 𝖼𝖺𝗉𝗂𝗍𝗈𝗅𝗈, 𝗅𝖺 𝗋𝖾𝗏𝗂𝗌𝗂𝗈𝗇𝖾 𝗌𝗍𝖺 𝗉𝗋𝖾𝗇𝖽𝖾𝗇𝖽𝗈 𝗉𝗂𝗎̀ 𝗍𝖾𝗆𝗉𝗈 𝖽𝖾𝗅 𝗉𝗋𝖾𝗏𝗂𝗌𝗍𝗈, 𝗍𝗎𝗍𝗍𝖺𝗏𝗂𝖺 𝗇𝗈𝗇 𝗆𝖾 𝗇𝖾 𝗉𝖾𝗇𝗍𝗈, 𝖺𝖿𝖿𝖺𝗍𝗍𝗈, 𝖽𝖾𝗏𝗈 𝗌𝗈𝗅𝗈 𝖿𝖺𝗋𝗆𝖾𝗇𝖾 𝗎𝗇𝖺 𝗋𝖺𝗀𝗂𝗈𝗇𝖾... 𝗈 𝗎𝖼𝖼𝗂𝖽𝖾𝗋𝗆𝗂.
𝖲𝖻𝗂𝗓𝗓𝖺𝗋𝗋𝗂𝗍𝖾𝗏𝗂 𝗉𝗎𝗋𝖾 𝗇𝖾𝗅𝗅'𝖾𝗌𝗉𝗅𝗂𝖼𝖺𝗋𝖾 𝗂 𝗏𝗈𝗌𝗍𝗋𝗂 𝗉𝖾𝗇𝗌𝗂𝖾𝗋𝗂, 𝗆𝗂 𝖿𝖺 𝗌𝖾𝗆𝗉𝗋𝖾 𝗆𝗈𝗅𝗍𝗈 𝗉𝗂𝖺𝖼𝖾𝗋𝖾 𝖼𝗈𝗇𝗈𝗌𝖼𝖾𝗋𝖾 𝗂 𝗉𝖺𝗋𝖾𝗋𝗂 𝖾𝗌𝗍𝖾𝗋𝗇𝗂 𝖼𝗁𝖾 𝗇𝗈𝗇 𝗌𝗈𝗇𝗈, 𝖾 𝗆𝖺𝗂 𝗌𝖺𝗋𝖺𝗇𝗇𝗈, 𝖽𝗂 𝖺𝗅𝖼𝗎𝗇 𝖽𝗂𝗌𝗍𝗎𝗋𝖻𝗈.

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