Capitolo 5
HOSEOK'S POV:
Da quando padre Yoongi è andato in pensione sei mesi fa, ho “ereditato” non solo il suo lavoro ma anche il suo appartamento, in prossimità della chiesa. La vicinanza con il proprio “ufficio” è sempre un valore aggiunto, e infatti sono contento di poter intervenire quando serve senza grandi preavvisi; lo è meno il fatto che quasi tutti in zona conoscano il mio indirizzo. A iniziare proprio da padre Yoongi che, per essere uno che si è trasferito a Busan per godersi finalmente la sua pensione, sta mostrando un certo granitico attaccamento al suo vecchio quartiere. Bellissimo quartiere il Jung-gu, non posso di certo negarlo, ma le sue visite “casuali” stanno iniziando a essere così numerose da farmi dubitare della sua fiducia. Credo mi stia tenendo sotto controllo. E nemmeno in modo granché discreto.
Al mio rientro da alcune attività sportive con un gruppo di ragazzi, me lo trovo infatti davanti al portone, com’è già accaduto più volte nelle ultime settimane. «Oh, Hoseok! Eccoti!», mi saluta mentre gli vado incontro. Ho appena giocato a pallacanestro e sto grondando sudore. Padre Yoongi lo ha notato subito e il suo sguardo mi pare piuttosto critico: sì, lui appartiene alla vecchia scuola, quella che faceva molta attenzione alla forma. Io temo di essere più concentrato sulla sostanza, sudore incluso, quando serve.
«Le chiedo scusa ma come vede sono reduce da una combattutissima partita di basket con i ragazzi delle superiori. Forse dovrei limitarmi a giocare con quelli più giovani; oggi ho rischiato un bel po’ di volte», scherzo solo in parte mentre apro la porta e gli faccio segno di seguirmi. «Aveva bisogno di me?»
«Non proprio, ma passavo…», risponde come da copione.
Passa in continuazione, se mi è permesso dirlo senza alcuna cattiveria. E sebbene gli sia sinceramente molto grato di tutto l’aiuto che mi ha dato prima della pensione, quando mi ha preparato a lungo al ruolo di rettore della parrocchia – posizione non semplice in quanto richiede la capacità di stare dietro a numerose beghe anche di tipo amministrativo ed economico –, inizio a sentirmi pronto per fare di testa mia. Anche perché non sono di certo stato abbandonato a me stesso: gli affari burocratici vengono sorvegliati da un organo collegiale di altre dodici persone, oltre a me, che vengono elette tra i nostri parrocchiani più capaci. Data la zona, c’è una non comune predominanza di economisti e avvocati che badano che tutto fili il più liscio possibile. Questa è tutta gente così strutturata e organizzata, che una banale raccolta fondi benefica finisce per filare più liscia di un’IPO di borsa. Ovviamente ho anche dovuto imparare tutto il lessico finanziario da quando sono stato trasferito nella parrocchia di Myeongdong: bisogna in qualche modo integrarsi in una comunità, se si ha la pretesa di comprenderla appieno.
«Be’, si accomodi. Mi deve solo scusare cinque minuti: ho un bisogno disperato di una doccia, come può vedere. Ma si accomodi pure in sala. Tanto conosce bene questo appartamento», cerco di fare dello spirito. È un mio marchio di fabbrica, temo: scherzare è più forte di me.
Padre Yoongi annuisce, salvo bloccarsi appena messo piede nella stanza. «Hoseok, hai cambiato i divani…», commenta colpito.
Avevo dimenticato che non li aveva ancora visti, accidenti. «Sì, ma pagando di tasca mia. Abbiamo usato quelli vecchi per allestire una bella zona in sacrestia. Poi gliela mostro», cerco di rassicurarlo. Immaginavo che buttare direttamente i suoi antichissimi divani – scomodi, oltre che per nulla di mio gusto – avrebbe provocato un piccolo incidente diplomatico. A quanto pare più che piccolo. Meno male che ho dato retta a Tae – o reverendo Taehyung, volendo essere formali –, il mio braccio destro qui in parrocchia, quando mi ha caldamente consigliato di trovare una seconda collocazione ai mobili di padre Yoongi. A completare la squadra c’è anche il reverendo Jihyo, che porta il giusto tocco femminile nel nostro gruppo, e che era stata subito d’accordo con Tae.
Lui si siede sul nuovo divano con atteggiamento palesemente guardingo, come se il cuscino potesse inghiottirlo, poi solleva la testa nella mia direzione e mi lancia un sorriso di circostanza. No, la mossa non gli è piaciuta. Poco male: a un certo punto il cordone ombelicale andava tagliato. Da qualcosa dovevo pur partire; il divano, fino a prova contraria, mi sembrava il male minore. «Ti aspetto, fai pure la doccia», mi congeda.
Me lo immagino mettere il naso in ogni angolo della stanza, mentre mi attende, motivo per cui cerco di fare più in fretta che posso. Quando scendo ripulito e rigenerato, sono vestito di tutto punto e pronto a fronteggiare anche i draghi, veri o presunti che siano.
«Eccomi di ritorno». Mi siedo sulla poltrona davanti a lui. «Preparo un tè?», mi offro, ricordandomi del suo amore per la bevanda.
«Vedi, a proposito di tè, mia moglie Momo e io stavamo giusto pensando che magari potremmo aiutarti…», se ne esce.
La frase è vagamente inquietante. Momo è una cara donna, ma con una spiccata predisposizione a farsi gli affari degli altri. «A scegliere il tè?», non resisto dal domandare.
Padre Yoongi mi rivolge uno di quei sorrisi che la gente riserva ai bambini non molto svegli. «No, a trovarti una moglie!», esclama con un tono pericolosamente simile all’eccitazione.
Sbatto le palpebre perplesso. «Mi sfugge il legame che si presume esistere tra il tè e una moglie», non ho problemi a rispondergli, non senza ironia. Ma è talmente sottile che sono certo che non riesca a coglierla.
«Se tu fossi sposato, ora potresti chiedere a tua moglie di prepararcene una tazza», mi spiega.
Sono costretto a fare un profondo respiro per non scoppiare a ridere. «Per mia fortuna sono giovane e posso ancora alzarmi a prepararle un tè senza alcun bisogno di assistenza», gli faccio notare prima di alzarmi e allontanarmi in cucina.
Quando rientro in sala, qualche minuto dopo, sul vassoio ho tutto l’occorrente per versargli il suo prezioso tè. Lui lo assaggia senza commentare; l’espressione di compatimento con cui mi scruta basta e avanza.
È un peccato che Tae non sia qui a gustarsi in prima persona questa comica discussione; temo che non riuscirò in alcun modo a renderle giustizia, quando gliela racconterò.
«Momo avrebbe comunque pensato di organizzare una cena», torna alla carica dopo aver bevuto. «Niente di troppo formale, tranquillo. Una cosa in piedi, con un po’ di persone la cui conoscenza potrebbe sempre esserti utile, ora che sei al timone della barca…». Da come lo sta dicendo, però, pare che io stia per entrare in una tempesta tropicale.
«Siete davvero molto gentili. Ma non vorrei recarvi disturbo in alcun modo…», cerco di liberarmi. Sono infatti pronto a scommettere che un discreto gruppo di questi presunti invitati di Momo potrebbero essere parrocchiane single, a caccia di marito.
«Sciocchezze, altro che scomodarci. E poi siamo in pensione. Non succede mai nulla quando sei in pensione», mi confessa in un sorprendente attimo di sincerità.
Devo ricordarmi di parlare a Tae e Jihyo per affidare a padre Yoongi qualche attività di volontariato in parrocchia. Mi pare evidente che non abbia intenzione di trascorrere la meritata pensione con viaggi in giro per il mondo. Anche perché per il momento sta sempre e solo circumnavigando l’isolato di casa mia, e la mia proverbiale pazienza si sta assottigliando.
«E va bene, allora grazie mille dell’invito», non posso fare altro che accettare. Essere molto educati è ormai una grave malattia, visti i tempi che corrono.
«Ottimo, ci metteremo d’accordo sul giorno più adatto». Si alza dal divano, a quanto pare soddisfatto a sufficienza da liberare il campo, quando il tanto agognato momento del commiato viene interrotto dal campanello dell’ingresso. Questa casa è un vero porto di mare; forse aveva ragione padre Yoongi a citare l’esempio della nave.
«Un attimo solo», mi scuso allontanandomi. Dall’altra parte del portone mi ritrovo faccia a faccia con Tae, ma non è da solo: alle sue spalle nasconde una persona che non riesco a mettere a fuoco, a causa dell’altezza del mio amico. Il mio braccio destro è un vero colosso.
«Oh, qual buon vento!», lo saluto. «C’è di là padre Yoongi», lo informo cercando di comunicare con lo sguardo.
L’espressione di Tae è guardinga. «Sì, be’, io invece ho incontrato in chiesa una persona che ti stava cercando». E così dicendo si scosta per permettermi di verificare con i miei occhi di chi si tratti.
Confesso di rimanere a bocca aperta, evento che mi capita piuttosto di rado in generale, ma con una certa costanza quando si tratta di questa donna particolare: Y/n. Aveva detto che sarebbe passata e pare che sia stata di parola. Non so bene se ritenermi stupito o non esserlo affatto.
«Ah…», mi limito a pronunciare, stranamente a corto di parole, che di solito abbondano. L’evento non sfugge a Tae, che mi scruta interessato.
Lei si fa spazio e con passo deciso colma la distanza che ci separa; mi porge determinata la mano, prima di aprire bocca. «Lee Y/n, non credo che ci siamo mai presentati come si deve», mi ricorda con quella punta di sarcasmo appena accennata che le dona molto.
In genere le persone non sanno mai dosare il sarcasmo, ed esagerando finiscono per essere in qualche modo respingenti, ma Y/n possiede il raro dono di affascinarmi nonostante una chiara propensione a deridere gli altri. Che fosse una donna molto pericolosa per la pace interiore di un uomo mi è stato chiaro nel giro di pochi minuti.
«Jung Hoseok», le rispondo stringendo il suo palmo. La stretta è decisa e piuttosto lunga; lo sguardo che ci scambiamo molto difficile da descrivere. Tae è costretto a schiarirsi la voce per interrompere in qualche modo il momento di tensione. Vuoi vedere che non era solo colpa della birra, come mi sono raccontato al rientro dal pub quella famosa sera?
«È un brutto momento? Disturbo?», chiede lei.
«No, no, prego, entrate. Più siamo e meglio è», non posso fare a meno di commentare ridendo. «Vi faccio strada».
Padre Yoongi non solo si è riseduto, ma si è pure versato una seconda tazza di tè, segno definitivo che intende rimanere. Indico a Y/n l’altra parte del divano e a Tae una sedia accanto a me. Ah, ma che bel quartetto allegro che siamo.
Y/n ha indosso un vestito estivo floreale che le sta d’incanto, con i lunghi capelli neri a incorniciarle il volto. Se anche si trova in qualche modo a disagio, è innegabile che sia arrivata qui ben preparata, perché a me pare il ritratto della serenità e dell’indifferenza. Il contrasto con l’episodio del pranzo è alquanto evidente.
Tae e padre Yoongi mi fissano con aria interrogativa. La loro curiosità è del tutto giustificata, presuppongo, motivo per cui decido di chiarire subito le cose. «Y/n è la figlia di Taeyeon, la fidanzata del nostro parrocchiano Park Jin-young», spiego loro. «È qui per visitare la chiesa e discutere dell’organizzazione del matrimonio di sua madre, non è così?»
«Ma certo», annuisce con la stessa espressione neutra con cui è arrivata sino a qui. È una brava attrice quando l’occasione lo richiede e non si lascia prendere in contropiede, altra cosa da ricordare.
«Be’, ma allora direi di lasciarvi liberi di fare il giro della chiesa…», suggerisce Tae. Padre Yoongi è costretto a mostrarsi d’accordo e ad alzarsi dal divano una seconda volta. «Le faccio strada mentre esco a mia volta», si offre il mio braccio destro.
«Signorina Y/n, Hope… buona visita», si congeda il nostro precedente rettore.
Nel giro di pochi minuti Y/n e io ci ritroviamo soli, ed è solo a quel punto che l’espressione della mia ospite muta, facendosi appena un pizzico più guardinga. Non è realmente rilassata come vorrebbe farmi credere.
«Sono ovviamente molto interessata a visitare la chiesa, ma prima volevo sfruttare l’occasione per scusarmi», dice sorprendendomi non poco. Incrocia le gambe e posa le mani sul grembo.
«Non c’è niente di cui scusarsi», la rassicuro con il mio solito modo di fare bonario. «Ci siamo presentati per davvero solo oggi, in fin dei conti, no?», le ricordo con un sorriso.
«Non esattamente». Y/n potrebbe cogliere la palla al balzo e chiudere qui qualsiasi possibile discussione, ma non lo fa, curiosamente. Le persone che scelgono la strada meno scontata e meno facile mi colpiscono sempre, lo ammetto. «Io direi che le mie scuse sono più che necessarie, con o senza presentazioni di mezzo. Perciò, reverendo Hoseok, volevo chiederle scusa prima per quella disdicevole serata al pub, e poi per la scena a casa di Jin-young. Che ci creda o meno, non sono solita né assaltare gli uomini né rinchiudermi in bagno». Ci sa fare con le parole, oltre ad avere un bel timbro.
Mi ritrovo a sorriderle come un ebete. «E invece ci credo», le rispondo.
«Strano, non capisco sulla base di cosa», insiste. Che fosse una persona ostinata già si era intuito.
«Semplice: sono uno che si fida delle parole delle persone. E ti pregherei di chiamarmi Hope».
«L’ultima volta in cui l’ho fatto ne sono nate un sacco di interpretazioni errate. Perciò ora preferisco essere più formale, se non le dispiace», mi fa presente. «Ed è molto meglio che non mi metta a commentare questa follia del credere alle persone…».
È buffa quando si indigna. «Più che forma, è sostanza», rettifico, all’improvviso desideroso di non abbandonare del tutto questa strana discussione.
Lei mi scruta confusa. «Mettiamola così: il suo essere un reverendo, padre Hope, è forma e sostanza insieme», mi concede magnanima.
«Ma sono anche sempre e solo un banale uomo. Perciò Hope, visto che non sei una delle mie parrocchiane», insisto per motivi che iniziano a sfuggire anche a me.
«Sul fatto che un reverendo sia anche un banale uomo, io ho qualche dubbio», ammette pensierosa. «Uno vi immagina sempre irreprensibili».
«E immagina male. Quella sera al pub avevo per caso un’aureola sopra la testa?», la canzono.
«No, nessuna aureola», mi concede. «Ma forse in questo caso sarebbe servita».
«Sciocchezze, non è morto nessuno». Al massimo ho fatto fatica a dimenticarmi di lei e a prendere sonno quella sera, ma è un problema mio, non suo. «Perciò, possiamo smetterla per cortesia con il lei?».
Y/n sospira. Si direbbe che non le piaccia granché cedere. «E va bene… In effetti potrebbe essere un tantino ridicolo cercare di mettere della distanza tardiva da un uomo che si è palpeggiato».
Scoppio a ridere e mi sento arrossire allo stesso tempo. Il problema è che per quanto abbia cercato di dimenticarmi di lei e di quella serata, il ricordo è rimasto invece. Impresso con un’ostinazione che non ricordo di aver provato da tempo. Forse anche Y/n si merita un po’ di sincerità da parte mia, in modo da poter chiudere una volta per tutte questo famoso incidente. «Y/n, non è stata solo colpa tua. Anch’io mi devo scusare: a mia parziale discolpa ero e sono del tutto fuori allenamento. Non esco con molte donne, sono sempre preso da mille altre cose», le confesso, preparandomi alla parte più difficile. «Ma tu mi sei piaciuta subito. Evidentemente tu l’hai percepito forte e chiaro perché sei più attenta a queste cose. Ero consapevole che mi stavo avventurando in acque molto più profonde del solito, ma l’ho fatto comunque. Perciò avevi ragione ad avercela con me: avrei dovuto presentarmi meglio, avrei dovuto specificare anche l’altro pezzo di me». Che sia solo un banale lavoro è una plateale bugia e mi pare che ci siamo appena impegnati a essere sinceri l’uno con l’altra.
«Sei gentile a volerti prendere parte delle colpe», mormora riflessiva. «Perché sei una di quelle persone, presuppongo…».
La scruto senza comprendere a fondo. «Quali persone?»
«Quelle che si prendono sempre la responsabilità di tutto», mi spiega con aria vagamente ironica.
Scrollo le spalle, quasi a disagio. Un po’ lo sono, ma solo perché finora non mi era mai parso un difetto. «Solo quando serve», replico.
Lei scuote la testa, per nulla convinta. «Non ci casco nemmeno un po’. Ecco, se avessi mostrato questo lato di te quella sera, non credo che mi sarei mai avvicinata».
Interessante a sapersi. «Essere responsabili è fuori moda, me ne rendo conto», la canzono in modo bonario.
«Terribilmente. Essere buoni ancora di più», aggiunge.
«Perciò sei alla ricerca di un uomo cattivo…», desumo.
«Qualcuno che sia in grado di bilanciare la mia naturale perfidia, mettiamola così».
Ora sono certo che stia volutamente esagerando. «Se lo confessi facilmente, vuol dire che presumi sia in verità una qualità. Sempre per la storia che la bontà è fuori moda e la cattiveria motivo di vanto».
Mi scruta colpita. «Perciò, se ho capito bene, mi stai dando della superficiale. Molto interessante». Lo dice come se fosse qualcosa di realmente curioso e meritevole di riflessione.
Scrollo la testa. Y/n mi sembra una donna molta brava ad attaccarsi ai dettagli. «No, affatto. Sto solo dicendo che ci tieni a essere percepita in un certo modo».
«E a te questo modo non pare quello corretto…», intuisce. L’espressione è di chi sta attendendo un passo falso per mangiarti, metaforicamente parlando.
«Più che altro, io penso sia inutile sprecare tempo e fatica cercando di passare per qualcosa di differente da quello che si è. Fingere, alla lunga stanca, non credi?». Sospetto che la mia domanda sia una sorta di provocazione ai suoi occhi, ma questo non mi fa desistere in alcun modo.
«Tu non hai la più pallida idea di come io sia davvero», mi fa notare. «Stai dando per scontato che io corrisponda a un certo disegnino che ti sei fatto nella testa».
Soppeso con attenzione le sue parole. «Diciamo che ho una certa esperienza a proposito delle persone…».
«Stai invocando la tua professione?», chiede ridendo.
«Qualcosa del genere. Ma non è solo una professione», ci tengo a chiarire. «Per me è anche un modo di essere».
«Sempre per quella storia che secondo te la trasparenza deve essere massima con il prossimo. Ognuno dovrebbe mostrare all’altro quello che è, corretto?»
«Lo so cosa stai per dire», l’avverto, intuendo la direzione della sua prossima osservazione. «Che per essere uno che sta insistendo tanto su questo punto, non sono stato pienamente limpido con te quella sera…».
«Complimenti, dico davvero. Stavo giusto per rinfacciartelo», non nega.
«Servirebbe a qualcosa ricordarti che ti ho chiesto scusa per questo?»
«Non proprio. Mi tengo stretto il mio diritto di ritenermi offesa. Dovresti saperne qualcosa di espiazione, no?», stuzzica.
«Il problema è che, in genere, sapere di avere di fronte un prete rende le persone piuttosto ingessate». Sincerità per sincerità, diciamo pure le cose come stanno. «Saresti scappata, ammettilo».
«Sarei scappata», confessa con una risata. «Intendo dire, se ti fossi presentato come un prete, sì, non mi fa onore ma sarei fuggita senza mai guardarmi indietro».
«Lo vedi? Non stavo cercando di mentirti, ma di metterti a tuo agio».
«Oh, ma mi hai messo eccome a mio agio», va avanti a ridere con tono allusivo.
«Ecco, riguardo a quel punto, credo di aver mandato dei segnali sbagliati», mi tocca riconoscere. «Sai, ragionandoci a mente fredda, forse potresti darmi dei suggerimenti…».
Sbatte le palpebre confusa. «Chi, io? Suggerimenti di che genere?». Non so come mai, ma ho l’impressione di averla quasi offesa.
«Su quello che ho fatto di sbagliato quella sera. Come ho detto, non esco con molte donne».
«Lo dici come se fosse un vanto», mi fa notare piccata.
«Sì, be’, non in senso assoluto…».
«Come se invece qualcun altro – prendiamo per esempio me – fosse da condannare perché ha una vita sociale e sentimentale più attiva».
La osservo sospirando. Le Eve moderne si presentano sotto tante forme, tra cui quella di Y/n, ne sono certo; la mia fortuna è stata aver passato quasi indenne gli anni della giovinezza. Una persona meno strutturata e più giovane avrebbe perso la testa per una come lei senza se e senza ma. «Ho detto questo?», chiedo.
«No, ma l’ho letto tra le righe».
«Perché ti stai giudicando», devo farle notare. «Bada bene, non sono io a farlo – non mi interessa giudicare gli altri e non è affatto nel mio carattere – però è interessante che sia tu a essere quella severa con te stessa».
Apre la bocca e mi osserva con gli occhi sgranati. «Cosa? No!», esclama colpita. Vuoi vedere che alla fine abbiamo trovato un suo punto debole?
«Davvero? Riflettici bene e poi ne riparliamo volentieri», le consiglio alzandomi dalla poltrona. Temo di essere stato un po’ brusco con lei; per oggi basta e avanza. «E ora andiamo a visitare la chiesa?», le suggerisco tornando ai miei soliti modi affabili. Per un attimo è riuscita a tirar fuori un lato del mio carattere che compare di rado. Non sono del tutto certo che mi piaccia.
Lei scuote la testa come se faticasse ancora a farsi un’idea della nostra discussione. «E va bene, vediamo questa chiesa…», acconsente alla fine, alzandosi in piedi a sua volta. È una donna alta; l’avevo già notato mentre giocavamo a freccette, ma non avevo riflettuto a fondo su quanto mi piaccia questo di lei.
«La prima chiesa costruita qui risale al 1810», le spiego mentre usciamo dal mio appartamento e percorriamo i pochi metri che ci separano dall’edificio. «Quando è stata pensata, qui intorno c’erano quasi solo campi e la cappella doveva servire come luogo di culto per chi andava in campagna d’estate».
«E invece oggi non è rimasto un centimetro libero», osserva ironica, mentre ci fermiamo davanti alla facciata.
«Capita, quando riesci ad accaparrarti una zona “in”», scherzo. «In ogni caso, la struttura attuale che stiamo guardando è stata costruita alla fine dell’Ottocento, a mano a mano che la città si ingrandiva. Lo stile era romanico, ma poi negli anni Venti del secolo scorso la chiesa è stata oggetto di una ristrutturazione in stile neogotico».
«Originalissimo…», commenta.
«Siamo d’accordo, non lo è affatto a Seoul, ma va dato atto a chi l’ha deciso a suo tempo che il neogotico fa sempre un certo effetto. Sei già entrata?»
«No, sono stata intercettata sulle scale», mi confessa mentre ammiriamo il grande rosone della facciata.
«Ebbene, preparati a rimanere a bocca aperta», le preannuncio.
Lei mi lancia un’occhiata diffidente. «È solo una chiesa, reverendo Hope».
Io preferisco non risponderle, ma apro il portone d’ingresso e lo tengo ben spalancato mentre Y/n varca la soglia. La seguo subito dopo, attento a non perdermi la sua reazione; potrei essere un tantino di parte, ma questa chiesa è da togliere il fiato. E infatti per un lungo istante la mia ospite si limita a osservare ogni angolo dell’edificio, senza proferire parola. Quando si incammina lungo la navata centrale, le sono subito accanto: lei scruta gli archi neogotici e io scruto lei e la sua espressione colpita.
La giornata odierna è particolarmente soleggiata e la chiesa di Myeongdong colpisce subito con le sue tre navate, ma ti lascia senza parole quando alzi la testa e osservi il soffitto di legno lavorato e le alte vetrate dai mille colori. Y/n avanza con passo lento ma costante, fermandosi solo alla fine, in prossimità dell’altare.
«Abbiamo anche un bellissimo organo che è arrivato a noi da San Francisco: ben 5538 canne», sono fiero di informarla. «Tua madre e Jin-young avranno una bellissima cerimonia», la rassicuro.
Y/n mi lancia un’occhiata malandrina. «Se fossi in compagnia di qualsiasi altra persona, a quest’ora avrei già fatto una battutaccia. Ma sono con te. In chiesa. Perciò mi sto trattenendo», ci tiene a chiarire.
«Non capisco cosa ci sia di comico…».
«Oh, ma lo so. È proprio questo il problema», commenta. «In ogni caso, poco importa. Sì, la chiesa è notevole», ammette a denti stretti. «Ma mia madre non è una gran credente…», mi avverte. «Voglio dire, tu sei un reverendo e in questa chiesa vedi un valore spirituale, ma noi siamo persone un tantino più elementari».
«Tanta gente vuole sposarsi in chiesa solo perché la scenografia è migliore», la tranquillizzo.
«E questo non ti infastidisce?», vuole sapere.
«Chi sono io per giudicare gli altri?»
«Questo concetto è un po’ un tuo mantra», osserva pensierosa.
«Non mi piace vivere con la convinzione che il mio punto di vista sia l’unico corretto», le rispondo diretto. «Non credo sia il modo giusto per porsi nei confronti del prossimo. Perciò, se due persone desiderano sposarsi in chiesa e di fronte a Dio, chi sono io per esprimere un parere al riguardo? O, peggio, per sentenziare su quello che si può o non si può fare…». Su questo punto sono in tanti a non essere d’accordo con me, a iniziare da padre Yoongi, che ha sempre avuto un approccio più rigido al tema.
Y/n scrolla le spalle. «E va bene, vuoi fare l’eroe senza macchia, ho capito…», mi prende in giro.
«Davvero mi vedi in questo modo?», sono curioso di sapere.
«A tal punto che non riesco bene a capire come mi sia potuta sbagliare quella famosa sera…», riflette.
Mi permetto di avvicinarmi e sussurrarle nell’orecchio. «Oh, ma la parte vanesia di me ti è grata».
Lei trattiene una risata. «Figurati, non esisterà nemmeno. No, no, non ci casco più: tu sei buono, saggio e pio», elenca quelli che, sospetto, siano per lei una sorta di macchia indelebile all’onore.
«Molto meno di quello che pensi».
«Ah, certo, all’elenco mancava la modestia». Si volta nella mia direzione e sorride. «La perfezione è fastidiosa, non glielo ha mai detto nessuno, reverendo Hope?», si fa beffe di me. Ha classe nel prendere in giro il prossimo, nessun dubbio al riguardo.
«Ma come, non erano difetti?», le ricordo stando al suo gioco.
«Solo per una come me», afferma sibillina prima di lanciare un’ultima occhiata all’altare e girarsi in direzione dell’uscita. Percorre la navata in silenzio e si incammina fuori. Apre la sua borsetta e ne estrae un paio di occhiali da sole piuttosto imponenti. Una volta che li ha messi sul naso, è al riparo da tutto. Nessun rischio che si possano leggere i suoi pensieri.
Lo interpreto come un buon segno, per assurdo che possa sembrare: è a disagio e vuole creare della distanza. Vuol dire che Lee Y/n non è così fredda come vorrebbe a tutti i costi apparire.
«Be’, grazie mille del giro turistico, padre Hope», si congeda allungando il palmo verso di me.
«Dovere», le rispondo stringendolo.
Questa volta il contatto è ancora più lungo della stretta a casa mia. Non riesco a fingere che non mi pesi lasciar andare la sua mano. Sono sempre stato pessimo nella finzione. Forse è ora che io inizi a sviluppare un minimo di capacità, proprio in senso di autoconservazione.
«Altro punto dell’elenco: il senso del dovere».
«E tu, Y/n, che qualità hai?». Domanda forse non molto opportuna, ma sono stanco di essere accusato di una serietà fine a sé stessa che non mi rappresenta nemmeno un po’.
Lei ci riflette un attimo prima di rispondere. «So scrivere, dicono. Ma è praticamente tutto quello che sono in grado di fare. E tu di certo non potresti mai leggere nulla di quello che produco», ride di sé stessa.
«E perché no? Io sono un grandissimo lettore», le faccio presente.
«Ovviamente», continua a ridere, come se a questo punto da me si attendesse il peggio del peggio. «Ma in questo caso è meglio così, credimi».
«Sai, non credo di aver compreso quale sia questo caso…», mormoro riflessivo. «Non giudicare sbagliato ciò che non conosci, cogli l’occasione per comprendere», cito.
Un’altra mezza risata da parte sua. «E questa massima di chi sarebbe? Qualche pomposo santo irreprensibile?», è curiosa di scoprire.
«Pablo Picasso», sono felice di poterla stupire.
«Reverendo Hope, ma lei è un uomo dalle molteplici conoscenze», si complimenta. «Non sapevo citasse peccatori simili». La presa in giro non è affatto velata ma nemmeno stonata.
«Questo perché lei, signorina Y/n, sa molto poco di me».
«E viceversa», mi ricorda.
«Be’, potremmo conoscerci, se mi facessi leggere qualcosa di quello che scrivi», insisto.
Scuote la testa imperterrita. «Il mondo è già un posto difficile», mi avverte.
«Così facendo mi incuriosisci», le confesso.
«E tu resisti. In fin dei conti la storia di Eva e della mela sappiamo già com’è andata a finire, no?», si fa beffe di me. Inizia a scendere gli scalini, intenzionata ad andarsene. «Grazie di tutto. Ci vediamo al matrimonio, reverendo», mi saluta con un tono quasi tombale.
«E se ci dovessimo incontrare per caso prima?».
Lei si blocca per un attimo. «Cielo, speriamo proprio di no», confessa con un candore che non riesco a fare a meno di trovare adorabile.
Riprende la sua discesa e si incammina con passo deciso sul marciapiede in direzione Insa-dong. Non so bene come mai, ma ho l’impressione che questa giornata di sole sia stata brevemente attraversata da un vero e proprio uragano.
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