𝐗𝐗. 𝐏𝐮𝐠𝐧𝐚𝐥𝐚𝐭𝐨
It turned into something bigger
Somewhere in the haze, got a sense I'd been betrayed
Your finger on my hair pin triggers
Soldier down on that icy ground
Looked up at me with honor and truth
Broken and blue, so I called off the troops
That was the night I nearly lost you
I really thought I lost you
We can plant a memory garden
Say a solemn prayer, place a poppy in my hair
There's no morning glory, it was war, it wasn't fair
And we will never go back
To that bloodshed, crimson clover
Uh-huh, the worst was over
My hand was the one you reached for
All throughout the Great War
Always remember
«Ma guarda che meraviglioso figurino.»
Atlas avrebbe ucciso Isak prima o poi, poco importava che fosse il suo migliore amico, a volte doveva imparare a tenere a freno la lingua. Gli scoccò un'occhiataccia, nel mentre che abbottonava la camicia. Era agitato, non si sentiva a suo agio e avrebbe vomitato molto probabilmente.
«Giuro che se continui ti ammazzo. Così posso raccontare a tua figlia cosa succede quando non si sta zitti.» Gli puntò un dito contro, quando sentì Ida alle sue spalle ridacchiare.
Si voltò a guardare l'amica, che gli si avvicinò a passo lento e cadenzato, prima di soffermarsi ad osservarlo per qualche istante. Gli sistemò un ciuffo di capelli ribelle e gli ammiccò, porgendogli poi la giacca.
«Smettila Isak. Non metterlo a disagio, è il suo primo appuntamento.» Sorrise poi divertita, sghignazzando insieme al suo futuro cognato. Atlas avrebbe potuto rendere Eyre e Bendik vedovi in una sola sera e con un solo colpo.
Atlas socchiuse gli occhi e liberò le mani dalla presa mortale chiusa a pugno. «Non è un appuntamento.» Si sentiva in dovere di chiarirlo. Era agitato, quello era palese a tutti, invece. Non aveva mai fatto cose simili, non ne aveva mai avuto il tempo.
Eppure, in cuor suo, sapeva che era molto simile al concetto di appuntamento, semplicemente preferiva non pensarci.
Isak ridacchiò ancora e si passò una mano nella folta barba rossa. «Proprio per questo hai messo una camicia nuova, vero?»
Atlas si irrigidì. «Vuoi per caso un naso rotto?!» Aveva sempre avuto un debole per le camicie, gli piaceva essere elegante, ma mai troppo. Così ne aveva indossata una bianca, dei jeans e un capotto abbastanza lungo, per restare al caldo. Era pur sempre novembre e il freddo si sentiva così tanto, da poter ghiacciare quasi le ossa. Si guardò attorno e fece per prendere la pistola, ma Ida lo fermò.
«È un appuntamento, non una sparatoria, perché non te la godi, ogni tanto?»
Sbuffò. «Non è un appuntamento.» Doveva chiarirlo. Riusciva a demonizzare e allontanare il nervoso. Si guardò attorno e prese il proprio giaccone. Afferrò le chiavi di casa e lanciò un'ultima occhiata ai suoi due amici. Sembrava avesse l'aspetto di chi era pronto a marciare sul fronte di guerra. Isak a stento riusciva a trattenere una risata.
«Sei troppo agitato, tanto è già tuo.»
Atlas fece per avvicinarsi al tavolo e prendere la pistola, ma Ida fu più veloce e lo spinse all'indietro. «Lascialo stare, Isak. Siete due bambini, Cristo.» Aggrottò la fronte e gli sorrise poi. «Come vi organizzerete?»
Atlas scrollò le spalle. «Ha detto di andare da lui, così finiva di prepararsi perché ha finito tardi al commissariato e poi uscivamo.» Decise che quello era il momento migliore per fuggire via. Uscì da casa e si riversò per la strada.
Alzò una mano per attirare l'attenzione di un taxi e salì al suo interno. Diede al tassista l'indirizzo del palazzo di Hercule e nascose le mani nelle tasche del giaccone, cercando di non pensare a cosa fare o cosa dire. Quando era un ragazzino e frequentava le superiori, si era sempre tenuto lontano dagli altri, anche perché non era un'amante della compagnia e nella sua solitudine si trovava benissimo. Viveva in una comunità, una sottospecie di orfanotrofio e per anni era riuscito sempre a non farsi adottare da nessuna famiglia.
Nessun legame, nessun problema.
Aveva vissuto abbastanza male il proprio orientamento sessuale all'inizio, motivo per il quale tendeva a non uscire con nessuno dei suoi coetanei, né ad avvicinarsi a qualche ragazzina.
L'ultima volta che aveva deciso di violentarsi, aveva invitato a uscire una certa Lyanna Curtis, perché sembrava carina e abbastanza folle da essere interessata a lui.
Fu probabilmente il suo unico appuntamento, ma non amava ricordarlo. Dopo averla accompagnata vicino casa, si erano scambiati un bacio e pochi istanti dopo aveva vomitato. Non era uno stomaco debole, ma era l'unico modo con cui il suo corpo scaricava la tensione. Aveva accumulato così tanta ansia da essere crollato a fine serata.
Da quel momento aveva capito che le relazioni e le uscite non fossero il suo campo e che era meglio se ne tenesse a debita distanza. Col tempo, aveva iniziato ad accettare se stesso e il fatto che fosse difficile che amasse davvero o che potesse essere compreso e amato. Aveva iniziato soltanto a distrarsi col piacere della carne, quando aveva voglia di scaricare il nervosismo in qualche modo diverso dal solito omicidio.
Fissava, attraverso il finestrino, le luci della città incatenarsi tra loro, fondersi con quell'aria magica e tetra che solo Edimburgo di notte poteva avere.
Atlas, pur essendo di origini cubane, aveva vissuto per anni a Londra, spostandosi spesso per lavoro anche in America o in altre parti del mondo, soprattutto quando aveva vissuto nell'esercito per qualche anno. Si era trasferito da poco ad Edimburgo, forse per l'esigenza di cambiare aria, conoscere un posto nuovo e che fosse abbastanza lontano da casa, sebbene a volte sentisse la mancanza dei tempi migliori, troppo lontani e brevi per poter sorridere al ricordo.
«Siamo arrivati.» Il tassista attirò la sua attenzione. Atlas pagò la corsa e scese dal taxi, guardandosi intorno, un po' nervoso.
Prese un forte respiro e citofonò al palazzo di Hercule. Il medico gli aprì il portone e si infilò all'interno, fino a raggiungere il suo appartamento.
«Ho aperto! Entra.» La voce di Hercule gli giunse lontana, forse si stava ancora preparando.
Probabilmente avrebbe dovuto avvisarlo che non erano soli per quei minuti, giusto per abituarlo all'idea di una peste di cinque anni.
Entrò nell'appartamento e restò pietrificato, quando una bambina dai folti capelli ricci, tirati in alto da due codini, gli andò incontro sorridendogli a trentadue denti.
Forse qualche dente in meno a giudicare dalle piccole finestrelle. «Io sono Havean, tu chi sei?» inclinò il capo.
Se avesse potuto urlare, l'avrebbe di sicuro fatto. La osservava perplesso, fissando la pelle scura e gli occhi color nocciola, profondi, che lo scrutavano con curiosità. «Atlas.»
«È uno strano nome.» Inclinò il capo, dondolandosi sui piedi.
«Almeno non significa paradiso. È un nome da spogliarellista anche..» Era sempre stato certo che i bambini avessero dovuto detestarlo, invece, non sapeva mai come, riuscivano sempre ad affezionarsi a lui, a tal punto che gli giravano intorno, ronzando come mosche fastidiose. Anche Leyla, la figlia di Isak, lo adorava, lo chiamava addirittura "zio" e ci provava davvero a comportarsi in maniera normale con lei, solo che non sempre era facile.
Parlava troppo.
La bambina ridacchiò e gli si avvicinò, Atlas non poteva arretrare o si sarebbe scontrato con la porta.
«Sei strano.»
Atlas scrollò le spalle. «Grazie, suppongo.»
Lo abbracciò d'istinto, cogliendolo alla sprovvista, e si irrigidì. Essendo alta più o meno mezzo metro e un tappo, non arrivava nemmeno alla sua pancia, motivo per il quale sembrava più un koala aggrappato alle sue gambe. Tossicchiò. «Ahm- ehm, sì, sì. Ora puoi anche staccarti.»
Le diede una leggera pacca sulla spalla, nella speranza che quell'incubo si concludesse il prima possibile.
Heaven -anche detta la piccola cozza- non sembrava essere dello stesso parere, tutt'altro. «Quanti anni hai? Sembri più vecchio di papà.»
Atlas socchiuse gli occhi. Probabilmente Hercule aveva deciso di torturarlo con quell'incontro e si domandava se fosse morto scaricandosi nel cesso, per aver abbandonato sua figlia con un sociopatico in salotto. «Ne ho trentasette, sono solo due in più. Tu quanti ne hai?» Odiava dover conversare.
La bimba si staccò, finalmente, e lo condusse verso il divano del salotto. «Sei anni. Papà mi aveva detto di essere brava e dolce, perché eri poco paziente.»
«Eccomi! Scusa, tra poco arriva la mamma di una sua amica per un pigiama party e andiamo.» Hercule gli sorrise, si abbassò sulle ginocchia e posò un bacio sulla fronte della figlia.
Atlas deglutì, distolse lo sguardo. Era strano per lui che esistessero gesti d'affetto simili. «Nessun problema.» Mentì.
Era un grandissimo problema, odiava i bambini. Non gli avevano mai fatto nulla di male, semplicemente lo terrorizzavano. Erano troppo felici e buoni. Il mondo non li meritava.
Hercule si tirò in piedi. Pochi secondi dopo il citofono suonò e accompagnò sua figlia fuori, lasciandolo lì ad aspettare per un paio di minuti. Quando lo raggiunse, di nuovo, prese le chiavi di casa e si sistemò la giacca blu. Atlas osservò la camicia azzurra, che metteva in risalto i suoi stupidi occhi. «Ci sono, andiamo? Ho prenotato un tavolo per due in un ristorante tranquillo. Possiamo raggiungerlo a piedi.»
Atlas annuì e lo seguì fuori dall'appartamento. All'improvviso aveva l'impressione di aver perso tutte le certezze della sua vita. Non sapeva più di cosa parlare e la gola gli si era seccata. La voce era morta in gola e probabilmente il suo cuore stava iniziando a perdere battiti.
Si incamminarono ed Hercule lo osservò divertito. «Qualcosa non va?»
«No, fa solo freddo.» Atlas si strinse nel cappotto.
«Capisco... spero che Heaven non ti abbia esaurito, a volte è una gran chiacchierona.»
«No, mi ha solo chiesto quanti anni avessi. Sembro più vecchio di trent'anni?»
Hercule ridacchiò e scosse il capo. «Probabilmente se la smettessi di essere sempre imbronciato avresti meno rughe.»
Atlas roteò gli occhi al cielo. «E vorresti suggerirmi la tua skincare forse?»
«Ho sentito che hai detto che ha un nome da spogliarellista...» Hercule sembrava stressato. «Ti pare?!»
«Oh che c'è, dottore, è il tuo incubo?»
«Quello di ogni padre direi.»
Atlas ghignò divertito. «È pur sempre un onesto lavoro.»
Hercule roteò gli occhi al cielo e fece finta di ignorarlo, poi alzò le mani in segno di resa. Sembrava rilassato o perlomeno si sforzava di apparire tale. Si passò una mano in volto. «Sai, mi aspettavo che non avresti mai accettato. Ero sicuro che all'ultimo avresti trovato un modo per non presentarti.»
Atlas trasalì. Ci aveva pensato. Continuamente.
Ci aveva pensato mentre si preparava, quando si sistemava i capelli e perfino mentre guardava Edimburgo dal finestrino del taxi, in maniera disincantata. Era sempre stato più facile uccidere a sangue freddo, senza pressioni, piuttosto che affrontare situazioni sociali importanti. Si sentiva a disagio con le altre persone, eppure per Hercule si stava sforzando. Non avrebbe mai ammesso ad alta voce il motivo, ma forse per una volta poteva concedersi un sorriso, poteva darsi un'opportunità. «Ho valutato la possibilità, in effetti.» Scrollò le spalle. Indossò poi un sorrisetto divertito. «E poi avevi paura perché ti sarei mancato troppo?» Inclinò il viso.
Hercule si voltò a guardarlo e scosse il capo. Vide le sue labbra incurvarsi appena all'insù, nonostante stesse cercando di nascondere un sorriso genuino. «Molto probabile.» Si fermò, poi, davanti a un grande palazzo. Atlas fissò le ampie finestre, dalle quali intravedeva le luci giallognole del locale. Era un posto piuttosto tranquillo, ci era stato qualche volta, soprattutto perché alcune sue vittime si nascondevano lì durante qualche viaggio. Sapeva anche che il ristorante al suo interno fosse abbastanza conosciuto e soprattutto molto apprezzato dagli studiosi del posto, era circondato da scaffali, pieni zeppi di libri. A volte dava l'aria di un caffè letterario.
All'improvviso gli salì, di nuovo, l'ansia, nonostante sapesse che era soltanto una serata a proprio vantaggio, avrebbe potuto sviare qualsiasi conversazione, muoversi in tranquillità. Eppure, Hercule riusciva sempre a tirar fuori qualcosa dal suo animo durante una chiacchierata. Non gli aveva mai chiesto di non essere se stesso, paradossalmente era stato il primo ad avvicinarsi, ignorando tutti i motivi per cui avrebbe dovuto scappare. Probabilmente Hercule o era straordinariamente stupido o un completo coglione.
Il medico gli fece cenno di seguirlo, mentre si avvicinava al maître di sala, Atlas si guardò intorno. Sorrise quasi involontariamente notando tutta la cura dei dettagli all'interno, con alcune poltroncine nella sala d'attesa. I candelabri illuminavano la sala e i tavoli circolari erano sistemati con straordinaria ed ordinata eleganza. Hercule sapeva chiaramente dei suoi problemi per l'ordine e sembrava avesse scelto appositamente quel posto. Fissò la sua figura, davanti a lui. La camicia celeste gli fasciava il busto ed era appena sbottonata. Aveva appena sfilato il cappotto, porgendolo a uno dei camerieri, e Atlas lo imitò, sebbene non ne fosse particolarmente entusiasta.
Mentre percorrevano i corridoi del locale, seguendo il cameriere fino al loro tavolo prenotato, camminavano uno accanto all'altro e le loro spalle si sfiorarono più di una volta. Atlas deglutì, guardandosi intorno, e cercò di celare quel nervosismo, che aveva iniziato a diffondersi lungo tutto il suo corpo, come una scarica elettrica.
«Questo è il vostro tavolo, signori. Vi lascio il menù e la carta dei vini. Nel frattempo vi porto dell'acqua, naturale?»
Atlas avrebbe voluto commentare. L'acqua serviva solo per una doccia, ma forse non era il caso. Si accomodò, lasciando che fosse a Hercule a confermare. Si nascose dietro il menù, cercando di darsi una regolata e prese un forte respiro.
«Qualcosa ti turba?»
Lo odiava. Lo detestava per provare a indovinare i suoi pensieri, indovinando la maggior parte delle volte. «Sei uno strizza cervelli o uno strizza morti?»
Hercule sorrise, ancora. Si sistemò meglio la camicia e ringraziò il cameriere non appena portò loro l'acqua. «Lo hai detto tu stesso che non era un appuntamento, non vedo perché tu debba essere così in tensione.» Sistemò alcune posate.
«Infatti non è un appuntamento.»
Il medico storse il naso. Sembrava infastidito da quelle continue negazioni. «Perché sei così terrorizzato? Anche se lo fosse?»
Atlas fece scorrere il suo sguardo dal menù al volto di Hercule. Osservò i suoi occhi chiari, a volte, durante le giornate meno soleggiate, gli sembravano grigi. Gli piacevano, gli ricordavano il cielo, anche quando in tempesta. «Lyanna Curtis.»
Hercule aggrottò la fronte. Aveva un'espressione confusa, eppure anche in quel momento lo trovò carino. Come trovava carino il terrore nello sguardo delle sue vittime. «Come scusa?»
«Il mio primo e unico appuntamento.» Chiarì, forse non era cosi ovvio com'era sembrato nella sua mente. «Avevo sedici anni e una sorta di omofobia interiorizzata. Quindi avevo pensato che sarebbe stato del tutto normale invitare una ragazza a cena.»
Lo sentì ridacchiare sommessamente. Si portò una mano davanti alla bocca. Atlas non aveva la più pallida idea di come si conducesse un appuntamento o un'uscita seria con qualcuno. Di solito andava a bere in un locale, approcciava col primo idiota che sembrava disponibile e dopo un po' se ne andava via o da casa sua o da qualsiasi stanzino discutibile. Tornava a casa, faceva una doccia e la sua giornata ricominciava. «Ed è andata male?»
«All'inizio anche bene, sembrava interessata, credo. O perlomeno ascoltava quelle poche cose di cui mi andava di parlare.»
«E poi?» Quell'idiota era davvero preso dal racconto, era strano.
«E poi l'ho accompagnata a casa. Ci siamo baciati e pochi istanti dopo ho vomitato ai suoi piedi.»
Hercule cercò di trattenere una risata. Atlas, invece, tornò a prestare attenzione al menù. Forse avrebbe scelto un filetto di carne ai ferri. «Ovviamente era solo uno scarico di tensione, ma lei pensava fosse per il bacio e mi ha detto che pensava che fossi gay.»
Hercule lo fissò incuriosito. «Ed era carina, almeno?»
Atlas scrollò le spalle. «E io che cazzo ne so, non so valutare la bellezza delle persone.»
«E allora io non lo sarei?»
Atlas lo guardò storto. «Non credo che il tuo ego abbia bisogno del mio parere.» Alzò la mano per chiamare il cameriere, sospendendo il giudizio. Sentiva il suo sguardo bruciargli addosso. Fissò di sbieco Hercule, mentre ordinava in tutta tranquillità.
Atlas non ne capiva assolutamente nulla delle persone, né di cosa andasse valutato per poter instaurare una relazione. Era abbastanza certo che fosse quasi impossibile stargli dietro, era difficile restare accanto a qualcuno che non avrebbe mai compreso -a causa di forze maggiori- certi stati d'animo.
Il resto della cena trascorse in maniera tranquilla e non poteva quasi credere che tutta la tensione fosse volata via, come una semplice scrollata di spalle. Ed era consapevole non fosse assolutamente merito suo, ma di Hercule.
Aveva iniziato a scalfire la muraglia che aveva costruito attorno a sé, con la stessa costanza ed efficacia di una goccia contro una roccia.
Dopo la cena, passeggiarono appena per le strade di Edimburgo. Natale era alle porte e i mercatini e le luci illuminavano l'aria, trasformandola in qualcosa di ancor più magico. Poteva sentire il profumo di cannella provenire da qualche piccolo stand e arricciò appena il naso, un po' affamato. Di solito tendeva a non ascoltare i discorsi delle persone, lo annoiavano parecchio. Invece, adesso ricordava tutto quello che Hercule gli raccontasse, come se riuscisse ad appuntarselo mentalmente. Gli aveva rivelato di essere un appassionati di corse d'auto e la cosa lo aveva sorpreso abbastanza.
Faceva freddo e, se avesse continuato così, avrebbe anche iniziato a nevicare. Da bambino amava la neve, ne faceva sempre innumerevoli pupazzi e trascorreva il tempo ad osservarli. Erano così semplici e venivano sempre allegri, quasi felici. Avrebbe voluto che almeno un attimo della sua vita fosse così, prima di sciogliersi al sole.
«Ehm, ti va una cioccolata calda da me?» Hercule sembrava nervoso, ma non ci diede particolare peso.
Col senno del poi, si sarebbe dato dell'idiota da solo a voler credere a qualcosa, per una volta tanto.
Hercule, in fondo, gli avrebbe insegnato che, per quelli come lui, l'amore sarebbe sempre stato impossibile. Non era altro che un traditore, che aspettava il momento migliore per pugnalarlo alla schiena.
Colpiva con stilettate invisibili e le sue cicatrici erano ancor più complicate da curare.
«Mh, va bene.» Evitò commenti stupidi e idioti. Inoltre stava iniziando a piovere e dovettero chiamare un taxi per evitare di bagnarsi.
Non appena si accomodò al suo fianco, lo sentì rabbrividire. Era in tensione. «Tranquillo, dottorino, non mangio mica.»
Hercule sorrise un istante. «Oh lo so bene.»
Una volta arrivati davanti casa sua, lo vide armeggiare agitato con le chiavi. Aprì la porta e si spostò di lato per farlo accomodare. Atlas si guardò attorno, nel buio della casa e si irrigidì. Vide un'ombra, una figura tarchiata, davanti a sé. Assottigliò lo sguardo per osservare meglio. Fece per girarsi, ma in pochi istanti gli furono addosso.
Un colpo violento lo colpì al capo e si portò le mani alla testa, sanguinante.
Doveva sempre portare una pistola, avrebbe dovuto ricordarlo ai suoi amici. Quando fece per tirarsi in piedi, il medico gli iniettò una siringa al collo, e sentì i muscoli indebolirsi.
Gli lanciò un'ultima occhiata carica di risentimento.
Hercule aveva lo sguardo annebbiato. «M-mi dispiace, davvero.» gli sussurrò appena all'orecchio.
Le palpebre si appesantirono e crollò sulle proprie ginocchia.
Prima di perdere i sensi, il suo pensiero fu uno: avrebbe ucciso Hercule Jarvais con le proprie mani.
Angolino
Sto scappando per destinazioni ignote, ciao.
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