𝐗𝐕𝐈𝐈𝐈. 𝐑𝐢𝐧𝐟𝐨𝐫𝐳𝐢
Open Sesame
(We've places to go)
We've people to see
(Let's put 'em on hold)
There's all sorts of shapes that I bet you can make
When you want to escape, say the word
Well, I know that getting you alone isn't easy to do
With the exception of you, I dislike everyone in the room
And I don't wanna lie, but I don't wanna tell you the truth
Get the sense that you're on the move
And you'll probably be leaving soon, so I'm telling you
Stop the world 'cause I wanna get off with you
Hercule era andato via già da un po' e Atlas si ritrovava a dover cercare di ospitare i suoi due amici rumorosi.
Isak mangiava una brioche calda, guardandosi intorno, come a studiare il suo appartamento. Ida, invece, lo scrutava incuriosita, forse aspettando di poter far finalmente qualche commento velenoso, giusto per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Non a caso, per anni, quando avevano tutti lavorato insieme, Atlas l'aveva tormentata, soprattutto quando aveva iniziato una relazione con Bendik, il fratello di Isak.
«Suppongo che dormirò sul divano o in camera tua.» Isak scrollò le spalle. «Quella degli ospiti la cediamo alla Miss.»
Ida sbuffò scocciata e inclinò il capo. Bevve un sorso di the, appena preparato e posò il suo sguardo malizioso su Atlas, che se ne stava poggiato alla parete. «Allora ci spieghi perché ci hai voluti qui o no?»
Era difficile dover aprirsi a loro così tanto, raccontare parte della sua vita, nella speranza che accettassero il suo bisogno di stare da parte e non condividere troppo. Iniziò ad agitarsi sul posto. Incrociò lo sguardo di Isak.
«Non mi piaci quando sei così nervoso...»
Dopotutto, però, erano i suoi amici e sapeva abbastanza bene che comprendessero il suo umore, non avevano mai provato a forzarlo e per questo gliene era grato. «Devo trovare un uomo che sta torturando bambini, la polizia ha chiesto il mio aiuto, ma io ho bisogno di voi.»
I due si guardarono un po' confusi. Non ammetteva mai quelle esigenze ad alta voce. «Questa persona fa parte del mio passato e-» Deglutì a fatica, la gola gli si seccò.
Lo sguardo di Ida si addolcì improvvisamente. Si tirò in piedi, provando ad avvicinarglisi. Atlas e Ida erano sempre stati come cane e gatto, non facevano altro che discutere e non erano mai d'accordo. Eppure, per un assurdo motivo, si difendevano sempre a vicenda, come se fossero gli unici autorizzati ad offendersi l'un l'altro. «Se non vuoi parlarne non devi...»
«Non erano abusi sessuali, almeno. Mio padre, cioè il mio patrigno, era molto credente e impazzì quasi dopo la morte di mia madre. Credeva ci fosse il demonio in me e con quest'amico mi hanno esorcizzato. Diverse volte.» Ne aveva portato quasi il conto. Ogni settimana era una punizione, tranne nei giorni di festa. Una volta a settimana soffriva come un cane e non aveva il tempo di riprendersi, che poi si ricominciava. I suoi amici impallidirono, sgranarono gli occhi spaventati e Ida gli prese la mano, intrecciando le dita alle sue. Gli accarezzò poi i capelli ricci, ancora un po' in disordine dopo la notte. Atlas sapeva che fossero dispiaciuti per lui, eppure raccontarne e parlarne ormai non gli faceva più male. Non era triste, addolorato, non riusciva più ad esserlo. Aveva spento per sempre quei sentimenti da anni, il suo cervello non riusciva a comprenderli. Provava solo tanta rabbia e voglia di spaccare qualsiasi oggetto gli capitasse a tiro. Avrebbe voluto uccidere chiunque, sentiva che la sua necessità di uccidere fosse amplificata. Ma, soprattutto, aveva tanta paura. Quando aveva rivisto Perez gli si era ghiacciato il sangue nelle vene. Si era bloccato sul posto, troppo intorpidito e scosso da quel volto, che sperava di aver rimosso. «Credevo fosse morto nell'incendio che uccise mio padre anni fa, ma invece è vivo e ha deciso di torturarmi di nuovo. Mi manda persone per uccidermi e sta torturando ragazzini come me, tutti con qualche disturbo del comportamento o troppo attivi, per rieducarli. È un pazzo e non posso permettermi di bloccarmi ancora davanti a lui.»
Isak teneva i pugni stretti in una morsa. Atlas non aveva mai avuto fratelli o sorelle, ma Isak si preoccupava di lui sempre e sembrava capirlo al volo, supportava ogni sua idea, sebbene non fosse moralmente accettabile. Gli aveva fatto fare da testimone al suo matrimonio e una sorta di padrino a sua figlia, insieme a suo fratello Bendik. Isak era la persona che si avvicinava quanto più possibile all'idea di fratello e di famiglia per lui. Era arrabbiato, forse per non aver potuto stargli accanto prima. Probabilmente lo avrebbe preso a pugni per non averlo chiamato già tempo addietro o per non avergli raccontato del suo passato. «Va bene, prenderemo quel figlio di puttana e lascerò che tu ti diverta con lui.»
Atlas sorrise appena. Annuì e andò in camera, ritornando in salotto poco dopo con alcuni fascicoli che la polizia gli aveva lasciato. Si lasciò cadere sul divano, accanto ad Isak. I suoi occhi glaciali leggevano e saettavano lungo quelle parole, cercando di captare dettagli interessanti. Si morse un labbro, nervoso e in tensione. «Sa ben nascondersi e i ragazzini sono piccoli e spaventati per parlare...»
Atlas annuì, ricordava bene quella sensazione. A scuola qualche insegnante si preoccupava dei suoi lividi e delle sue ferite, ma non poteva intervenire alcun modo in quel piccolo paese dove tutti si conoscevano e si coprivano tra loro. Soprattutto perché suo padre era amico di un cardinale così influente, che nessuno avrebbe immaginato il paese degli incubi che si abbatteva sulla sua casa e sul suo capo. Quando gli chiedevano cosa fosse successo, mentiva. Ogni volta diceva di essere caduto, non aveva il coraggio di salvarsi, perché era convinto, in fondo, di meritare quel trattamento. Avrebbe dovuto morire lui, non sua madre quel giorno. Si sentiva nervoso, osservato e la tensione continuava ad accrescere. Indicò il nome di una donna, la madre di uno di quei poveri ragazzini e sospirò piano. «Non credo sia colpa sua, non direttamente almeno. È molto credente, dalle mie ricerche. Credo che qualche volta, in Chiesa, possa aver parlato del disturbo di sua figlia e qualcuno possa aver sentito, avvisando magari Perez.» Si immobilizzò quasi, come se lo avessero appena pugnalato a sangue freddo. Pronunciare il suo nome ad alta voce rendeva quell'incubo reale, come se non fosse più solo nei suoi pensieri e nelle sue nottate peggiori.
Isak si incupì. Gli posò una mano sulla spalla e Atlas non si ritrasse. Pochi di loro potevano vantare di una certa tranquillità quando lo toccavano e i suoi amici erano tra quei pochi eletti. «Amico, hai bisogno di una pausa?»
Scosse il capo. «Sto bene. Credo dovremmo iniziare da qui, andare a messa.» Deglutì. Era l'ultimo dei suoi desideri. Erano anni che non metteva piede in un luogo cosiddetto sacro. Aveva la sensazione di bruciare come fosse un demone quando percorreva delle navate. Il corpo iniziava ad essere percorso da una serie di formicolii, simili più a scariche elettriche. La sola idea gli dava la nausea, ma doveva farlo. Doveva prendere coraggio e iniziare a indagare. Per questo aveva chiesto aiuto ai suoi amici, non solo perché gli attacchi alle sue spalle erano imprevedibili, ma anche perché non avrebbe sopportato certe indagini da solo. Si tirò in piedi. «Io e Isak andiamo a messa. Ida, tu pensa a parlare con Bendik e vedi se riesce a infiltrarsi nei file della polizia per altre informazioni.»
Isak sorrise, alzandosi anche lui. Si sistemò la giacca di pelle, con fare soddisfatto. «Chiedi a mia moglie. Eyre è un genio con queste cose, Bendik non capisce un cazzo di tecnologia. È un po' vecchio sotto questo aspetto.» Si voltò a guardare Atlas ed entrambi ghignarono divertiti. Era da tanto che non operavano un po' insieme da soli, senza che ci fosse Bendik a tenere a freno i loro istinti e la loro violenza. Ida, infatti, da brava fidanzata di Bendik, li guardò un po' scettica. Accavallò le lunghe e sinuose gambe e li guardò male.
«Non attirate troppo l'attenzione, per piacere.»
Atlas sorrise divertito. «Ma chi?»
Isak rincarò la dose. «Noi? Per chi ci hai preso, scusa?» Gli posò una mano sulla spalla, tenendo su un sorrisetto smorfioso.
«Per gli idioti che siete.» Ida li guardava male.
Atlas prese uno zaino, dove nascondeva il suo costume e si voltò a guardare Isak. «Dopo questa missione, se vuoi possiamo uccidere uno. Mi hanno pagato, a quanto pare avrebbe ucciso il figlio di un mio cliente che mi ha chiesto vendetta. Questa sera possiamo divertirci un po'.»
Isak sorrise e annuì felice. Evidentemente cercare di comportarsi come un padre normale, lontano dai tanti casi da sicario gli mancava un po'. «Va bene, sono un po' arrugginito, ultimamente mi commissionano più furti che altro, ma ti farò con piacere da spalla.» Aprì la porta di casa e salutarono con un cenno del capo Ida. «Non aspettarci sveglia questa notte.» Atlas ghignò divertito e seguì Isak fuori dal palazzo.
Ida li salutò, dopo essersi lasciata sfuggire un sospiro frustrato.
Entrambi si incamminarono al garage. Atlas prese le chiavi dell'auto e Isak si accomodò al suo fianco. Quella donna abitava un po' lontano dal centro di Edimburgo, verso la periferia. Gli sembrava un quadro paradossalmente simile alla sua storia. Chissà in quale Chiesa si nascondeva Perez o dove tenesse celati i suoi seguaci, che avevano orecchie e occhi ovunque, tutti convinti di poter purificare il mondo partendo dalle radici: dai ragazzini. Sarebbero stati degli adulti migliori, eppure Atlas, a giudicare da com'era cresciuto, nutriva dei seri dubbi a riguardo.
Mise in moto l'auto e iniziò a guidare per le strade tranquille di quella città, avvolta sempre da una sorta di magico mistero. Isak se ne stava in silenzio, forse cercava delle parole adatte per allontanarsi da quel triste discorso sul suo passato.
«Allora...» Snocciolò, approfittando del semaforo rosso. Guardava con curiosità le strade di Edimburgo «Con quel tipo ci hai scopato?»
Atlas sbuffò. «No.»
«Strano, non è affatto una cosa da te... ti senti bene?» Fece finta di volergli misurare la febbre sulla fronte e Atlas lo spinse lontano con uno strattone.
Atlas sorrise e premette il piede sul tasto dell'acceleratore. Sfilavano veloci contro il vento forte. Novembre era sempre più vicino alla fine e dicembre era pronto ad aprire loro le porte. Il freddo era sempre più insistente e Atlas un po' amava nascondersi in maglioni caldi. Osservò la natura scorrere veloce dal finestrino, i colori scuri del cielo e verdi della vegetazione si mescolavano tra loro quasi perfettamente, in maniera simile alla tavolozza di un pittore piuttosto disordinato.
Una volta arrivati entrambi scesero dall'auto e si diressero verso la Chiesa.
Atlas rabbrividì appena, chiudendosi all'interno del proprio cappotto e sperando che quella giornata si concludesse il prima possibile, per poter trascorrere la serata a divertirsi -a modo proprio-.
Osservò le guglie alte e storse il naso. Non aveva voglia di mettere piede in un territorio sacro, aveva paura di aprire quella porta dei ricordi, che aveva da tempo sigillato.
Isak gli posò una mano sulla spalla, scuotendolo e facendogli forza. Era domenica e l'orario perfetto per la messa di paese. Videro le diverse famiglie incamminarsi, susseguendosi come un branco di pecore. Non poteva far altro che pensare a quello. Atlas aggrottò la fronte. Riconobbe subito quella povera donna, devastata dal dolore del figlio. Continuava a credere nella benevolenza di un Dio, nel nome del quale suo figlio era stato torturato, fino al punto di aver perso se stesso e smesso di parlare.
Strinse i pugni, nervoso.
Seguì tutti fin dentro la Chiesa.
Fissò le navate. Guardò le statue raffiguranti alcuni santi e la croce sull'altare.
Iniziò a sudare freddo. Le mani presero a tremargli. Ebbe la sensazione che il suo corpo fosse puntigliato da aghi affilati e invisibili. Deglutì. Si portò una mano al colletto della camicia, nascosta da sotto il maglione, e allentò un bottone, alla spasmodica ricerca di aria.
«Se vuoi resto io qui, puoi aspettarmi fuori. Sai che sono un ottimo osservatore.» Isak gli sussurrò quelle rassicurazioni all'orecchio, ma Atlas scosse il capo. Si sedettero su alcune panche, restando in silenzio. Era una giornata cupa, aveva da poco smesso di piovere e le vetrate, ricoperte da colorati mosaici, non riuscivano ad illuminare adeguatamente l'oscuro interno.
Si guardò intorno, nervoso. Alcune anziane abbracciavano la donna, Mariah, addolorata per la sua bambina. Atlas osservava ogni loro espressione, alla ricerca di uno sguardo che potesse tradire le loro vere intenzioni.
Vide il vicario raggiungere l'altare. Tutti i fedeli si alzarono, come a salutarlo o in segno di rispetto, Atlas, insieme ad Isak, rimase seduto. Odiava la messa, quelle parole inutili. Le sue orecchie sembravano ovattate, una goccia di sudore gli imperlava la fronte. Tutti i credenti ripetevano come una cantilena le sue parole.
Qualcosa scattò poi nella sua mente, ci furono delle parole fin troppo taglienti.
«E mi dolgo, mio Signore, mi dolgo di tutti i miei peccati. Chiedo perdono, mio Signore, per i peccati che ho commesso.»
Si tirò improvvisamente in piedi. Isak si voltò a guardarlo, aveva uno sguardo preoccupato. Le gambe si muovevano con gesti automatici verso l'esterno. Aveva bisogno di aria. Si poggiò contro le pareti esterne. Non riusciva più a respirare come avrebbe voluto. Si liberò del maglione, restando solo con la camicia. Lo lanciò poi con rabbia a terra.
Si accasciò su se stesso e vomitò ai propri piedi. Non ne poteva più. Aveva dimenticato come scaricava il nervosismo. Odiava sentirsi così male.
Trasalì stanco e portò in alto il capo. Sfilò un pacco di fazzoletti dal cappotto e si ripulì. Gli occhi erano arrossati. Aveva bisogno di calmarsi. Iniziò a cercare smaniosamente la boccetta di ansiolitici. Mandò giù una pillola e attese che agisse. Socchiuse gli occhi. Una folata di vento gli fece raggelare le vene.
Pochi istanti dopo, o forse molti minuti, non riusciva ad avere una concezione del tempo veritiera in quel momento, Isak lo raggiunse. «Ehi.»
Atlas aprì con lentezza gli occhi. «Mi dispiace. Non ce l'ho fatta.»
«Tranquillo. Purtroppo la maggior parte delle persone sono solo vecchie e secondo il mio modesto parere tutte potrebbero essere pazze assatanate.»
Sentirono dei passi alle loro spalle e un uomo sulla quarantina si avvicinò. Li osservava di sbieco e si accese una sigaretta. Chiese ad Atlas un accendino.
Il sicario annuì e, alzando lo sguardo verso lo sconosciuto, lo vide porgergli un biglietto.
Era bianco, con solo il simbolo di una croce. Eppure ebbe la sensazione che lo conoscesse. Ne ebbe la conferma quando gli accese la sigaretta.
«Sei molto gentile, Jeremiah.»
Atlas scattò sul posto e lo afferrò con violenza per il colletto della camicia. Isak sussultò.
«Che cazzo fai? Attireremo l'attenzione!»
Atlas assestò un pugno sul naso dell'uomo, che iniziò a ridere quasi delirante. «È lui il figlio di puttana.»
Isak aggrottò la fronte e li separò. Colpì quel pazzo sul capo, col calcio della pistola. Si voltò poi a guardarlo e sorrise. «Adesso lo portiamo in un capannone, o ovunque tu voglia. Lo leghiamo e lo interroghiamo. Poi potrai torturarlo come ti pare.»
Atlas sorrise compiaciuto. «Ho una vecchia fattoria.»
Approfittando della confusione generale dei canti della messa, caricarono il corpo semi svenuto dell'uomo nel portabagagli dell'auto. Atlas si asciugò una goccia di sudore e Isak prese le redini della guida, forse per evitare che per la sua rabbia si schiantassero contro qualche albero.
Atlas iniziò a mostrargli la strada, parlando solo quando necessario. Non aveva voglia di discutere d'altro.
Quando videro il piccolo casolare in lontananza, Isak si fermò.
Portarono giù il corpo e Atlas aprì la porta di quella vecchia casa. Prese delle fascette di plastica e legò il corpo dell'uomo, con le mani dietro la schiena. Isak, invece, gli tenne le gambe ferme.
«Che idee hai?» Isak lo osservava tranquillo. Accese una sigaretta.
Atlas fece schioccare il collo. Prese la pistola e la liberò dei proiettili, tranne uno. Fece girare qualche volta il tamburo dell'arma. Un sorriso sinistro e crudele si dipinse sul suo volto. «Giochiamo alla roulette russa, fino a ucciderlo. Tu controlla solo che non arrivi nessuno.»
Isak annuì e gli diede una pacca sulla spalla, lasciandoli soli.
Atlas prese un bicchiere d'acqua gelida e la lanciò contro l'uomo, ridestandolo. Questi impallidì, forse non si aspettava una reazione simile. Fernando Perez riusciva ad entrare nelle menti degli uomini deboli, eleggendoli come cavalieri dell'apocalisse, suoi missionari e sue armi. Probabilmente sarebbe morto in nome di quel folle. Era consapevole che accettando di lasciargli un messaggio sarebbe andato incontro alla propria morte.
«Cosa vuoi fare?! Uccidimi adesso! Tu sei il demonio almeno Dio mi salverà.»
Atlas roteò gli occhi al cielo. C'era una certa eccitazione nell'aria o forse la percepiva solo lui. Probabilmente sarebbe stato difficile scaricare tutta quell'adrenalina, si sentiva forte. Se dopo quella serata si fosse trovato il medico davanti, probabilmente gli sarebbe saltato addosso. «Adesso facciamo un gioco. Io ti farò delle domande e quando non risponderai sparerò. Non so quando arriveremo al proiettile, ce n'è uno soltanto. Se non ti colpisco apprezzerai la mia carità, no?»
L'uomo tremò. «Tu sei pazzo!»
Atlas gli assestò un pugno sulla bocca. Il suo sangue gli macchiò le mani. Storse il naso e si alzò le maniche della camicia. «Sono sociopatico. Adesso iniziamo, brutto pezzo di merda.» fece schioccare il collo. «Dove nascondete Perez?»
L'uomo rise. «Lo troverai. Le vie del signore sono infinite.» Sputò il sangue ai suoi piedi. Atlas dovette trattenere se stesso per non strangolarlo sul posto.
«Bene.» Atlas premette il grilletto. Nessuno sparo e l'uomo chiuse gli occhi. Tirò un sospiro di sollievo. Ma Atlas non conosceva pietà. Prese un coltello e lo colpì alla spalla. Il suo urlo si sentì quasi fino a fuori, ne era certo. Si avvicinò al suo orecchio. I suoi occhi erano iniettati d'odio, ma scintillanti d'eccitazione. «Ti ho detto dove si nasconde?!»
L'uomo provò a muoversi sulla propria seduta. Non avrebbe mai mollato o parlato, nemmeno se l'avesse lasciato morire. Atlas sbuffò scocciato. «Sono stato troppo paziente.» Prese tutti gli altri proiettili e ricaricò il caricatore della pistola.
Sparò al ginocchio.
L'ennesimo grido squarciò il silenzio del capannone.
Il suo tono di voce era rauco, basso. Atlas sogghignò, dovette trattenersi in ogni modo per nascondere tutto il piacere che stava provando. «Allora? Come lo hai conosciuto.» Atlas non era soddisfatto però.
Il ginocchio sanguinava e l'uomo piangeva disperato. «Mi ha parlato in Chiesa.»
«Dove?!»
L'uomo scosse il capo e Atlas ringhiò quasi infastidito. Si allontanò. «Sai, un vecchio amico mi ha insegnato che i polpastrelli sono posti molto sensibili.» Aprì una vecchia cassetta di attrezzi ed estrasse alcuni aghi. Isak si affacciò e aggrottò la fronte.
«Ti stai divertendo?»
«Vuoi unirti a me?»
«Meglio di no, non ami condividere i tuoi giochi.»
Atlas annuì. Era vero. Si avvicinò all'uomo, ancora sanguinante e dolorante. Infilò com violenza gli aghi nei polpastrelli dell'indice. Si beò di quelle urla dolorose, così forti che avrebbero spaventato chiunque. Sudava come un maiale e l'avrebbe condotto al macello. «Allora?! Dove cazzo nascondete Perez?»
L'uomo scosse il capo. Era debole. Soffocava un piango carico di odio e di dolore.
Atlas spinse in profondità gli aghi e gli sparò, poi, all'altro ginocchio. Doveva strisciare come un verme. Gli si avvicinò e gli puntò la pistola alla gola. Gli tirò i capelli. «Non lo ripeterò ancora, dove lo hai incontrato?!»
L'uomo fece un sospiro pesante, le sue forze erano deboli. Perdeva molto sangue. Non gli avrebbe detto dove si nascondeva, ma almeno avrebbe potuto ripercorrere le sue tracce, seguendo le molliche che aveva lasciato alle sue spalle. «A Millport. L'ultima volta l'ho visto in quel posto. Ero lì, p-perché-» prese fiato ancora. Socchiuse gli occhi. Il sudore lo bagnava completamente. «Perché ci vive mia sorella ed ero andato a trovarla.»
Atlas socchiuse gli occhi. Era chiaro. Era tornato nel posto dove i suoi incubi avevano avuto origine, nel posto dove era cresciuto assieme alle sue paure. Strinse la pistola fra le mani. «Dove lo nascondete?!» Gli puntò la canna contro la fronte. «DOVE?!»
«Non lo so! Lo giuro su Dio, non lo so! Solo i suoi fidati ne sono a conoscenza, io sono un umile servitore, che verrà ucciso dal demonio. Che Dio abbia in pace la mia anima.»
Atlas sbuffò frustrato. Premette il grilletto. Un solo colpo ala nuca. Il sangue dell'uomo gli schizzò in volto, ma non gli importava. Fissò la camicia bianca, ormai arrossata dalle chiazze scure di quel sangue malato. Alzò lo sguardo verso l'alto e sfilò il cellulare dalla tasca.
Hercule.
H: "Non ho dimenticato che abbiamo un appuntamento in sospeso. Hai da fare dopodomani sera? Nel caso fossi occupato, liberati."
«Che tempismo, dottore.» Bofonchiò, fissando lo schermo del telefono.
Angolino
Atlas si è divertito molto.
Amo la sua amicizia con Isak, vi prego.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e alla prossima ❤️
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top