19 - VETTA DEL LUPO (2)
René si era rilassato. Avvolto nel suo giaccone contemplava le prime stelle che stavano sbucando sopra di lui, sentendo che stava riacquistando le forze che la marcia gli aveva prosciugato. Ogni tanto sbirciava in basso, ma ormai non riusciva a scorgere nulla, tranne una fioca luce che proveniva dalla baita.
"Ho fatto bene a portarmi dietro quei due tontoloni!" pensò. "Se hanno successo, mi becco il merito. Se falliscono, vanno in galera loro!"
Ridacchiò, tra i denti. La faccia di Masi invase d'improvviso la sua mente.
"Tu lo sai cosa succede se non mi porti ciò che ho chiesto, vero?"
Sentiva la sua voce nella testa e rabbrividì. Odiava quella sensazione, che arrivava puntuale nella sua testa ogni volta che anche solo pensava a quell'uomo, ma non poteva mentire a sé stesso: aveva paura di lui.
"Se falliscono devi andare giù e rimediare! Lo sai bene!" La voce stavolta era la sua e scoprì che la odiava ancora di più.
Uno sparo riecheggiò dal basso, ovattato e lontano. Ma il suono, inconfondibile, arrivò fino a lui e lo trapassò come una lama. Era un suono che non si sarebbe dovuto sentire.
Si alzò di scatto e buttò lo sguardo di sotto. L'oscurità era ora squarciata da una luce potente che usciva, rettangolare, da quella che sembrava essere una porta aperta, per poi allargarsi e disperdersi nella notte. Imprecò!
«Che cazzo stanno combinando quei due imbecilli?»
Non sapeva cosa fosse successo, ma sapeva che non era nulla di buono. Con il pensiero fisso di Masi nella testa e, controvoglia, cominciò a scendere verso la valle.
«Cazzo! Cazzo! Cazzo!»
Alberto si tirò su dal letto e diede un pugno sul muro, facendosi investire contemporaneamente dal dolore al collo e alla mano.
Senza badarci si avvicinò al monitor, sperando di aver visto male. Ma non era così; René era sparito. Stava scendendo anche lui.
"Resta dentro!"
Le voci del vecchio e di Francesca, sovrapposte, rimbombarono nella sua testa.
Ma come poteva? Come poteva restare lì, sapendo che stava arrivando un terzo nemico, e solo lui ne era a conoscenza.
"Franco lo sa! Vuoi che non stia guardando un monitor, in questo momento?"
Era la sua stessa voce che parlava, che provava a convincerlo di ciò di cui non era convinto. Sapeva che Monica era la parte operativa del piano, quindi, probabilmente, era nel capannone ad attendere gli sgraditi ospiti, ignara che stava giungendo anche René. Franco era senz'altro la mente, ma... anche gli occhi?
"Secondo te non ho pensato di dover tener d'occhio il "Vetta del Lupo"? E avvertirla di qualsiasi cosa tramite un auricolare o un telefono? Dai, Alberto! Continui a non fidarti di me, allora!"
La voce del vecchio gli tamburava il cervello; e mentre lo sentiva, lo vedeva stringere appena gli occhi, con quel cipiglio di delusione appena accennato, mentre gli contestava la sua scarsa fiducia.
Eppure, non era tranquillo. Qualcosa dentro di lui (che fosse il pezzetto di energia gialla ereditato da NC?) lo ammoniva di non dare nulla per scontato.
"Potresti pentirtene amaramente, lo sai? Meglio prendersi una sgridata da Franco per aver disobbedito al suo ordine che vederlo sdraiato nella sua fabbrica morto, no? E Monica? Pensa anche a lei..."
L'idea di avere sulla coscienza la morte anche di quella donna, per cui provava un affetto già profondo, nonostante la conoscesse solo da un giorno, lo convinse. Sarebbe uscito per avvisarli, o salvarli. Ripensò ai discorsi sulla seconda possibilità che gli era stata offerta, la possibilità di fare qualcosa per gli altri e tirare una riga rossa sulle sue terribili colpe del passato. Ma quando iniziava questa possibilità, nessuno l'aveva specificato.
Salì le scale, premette il pulsante e si issò nella sua stanza, del tutto immersa nella più totale oscurità.
René cercava di camminare più veloce possibile, stando attento a non scivolare o a non mettere un piede in una buca. Si era tenuto la torcia più grande e riusciva a illuminare il sentiero per tutta la sua larghezza.
Era partito da soli cinque minuti e, nonostante la discesa, il fiatone arrivò puntuale. Sbuffando e imprecando, cominciò a maledire le birre che si scolava quotidianamente, promettendosi che, se fosse riuscito a venire fuori bene da questa faccenda, avrebbe cercato di ridurre il numero di bottiglie vuote che riempivano i suoi cestini. Ma, mentre lo diceva, sapeva benissimo che non sarebbe mai successo.
I due ragazzi si erano ammanettati a uno dei macchinari vicini e si guardavano in silenzio, regalando, ognuno all'altro, un'espressione di vergogna e di incredulità. Si erano fatti fregare da una vecchia cicciona che ora, in piedi davanti a loro, li osservava con un largo sorriso odioso, ai loro occhi.
Monica estrasse un telefonino e compose un numero.
«Catturati!... Certo, nessun problema... Grazie!... Va bene. Aspettiamo qui.»
Riattaccò. Recuperò una delle sedie abbandonate vicino ai pannelli di controllo e si sedette di fronte a loro.
«State comodi ragazzi? Sta arrivando Franco de Simone e, senza di me, ci metterà un pochino. È su una sedia a rotelle, sapete? Vi deve dire due cosine prima di chiamare i carabinieri.»
E di nuovo regalò loro un sorriso a trentadue denti.
Alberto, nel più assoluto silenzio, strisciò nella grande sala, anch'essa immersa nell'oscurità e, cercando di evitare ogni possibile rumore, si avviò verso l'ingresso. Era buio e c'era silenzio, ed erano due elementi che gli avevano sempre messo addosso una certa inquietudine, soprattutto quando piombavano su di lui nello stesso momento, profondi e compatti, come erano in quel momento. Aveva come l'impressione di dover spostare il nero davanti a lui con la mano, tanto pareva denso e l'assenza di ogni tipo di suono era pronta ad amplificare anche solo il suo stesso respiro.
Per questo motivo la musichetta che arrivò alle sue orecchie all'improvviso, gli fece balzare il cuore in gola e fu un miracolo che non urlò. Non lontano da lui un telefonino stava suonando. Sentì qualcuno rispondere e dire poche cose, che non capì. Era la voce di Franco e sembrava giungere da un altro mondo.
Si affrettò verso la porta, prese il giaccone dall'attaccapanni e notò, nel portaombrelli a fianco, un bastone, di quelli che si usano per fare le passeggiate.
"Potrebbe essermi utile" pensò e uscì nel freddo della sera.
Rimase fermo nel piccolo portico della baita e si guardò intorno. La porta del capannone era aperta, e una striscia di luce illuminava una fetta di prato; puntò lo sguardo verso le montagne davanti a lui e vide con chiarezza ciò che voleva vedere.
Una luce scendeva in basso, una luce portata dall'uomo che, presumeva, nessuno, a parte lui, sapeva fosse lì.
René ansimava, imprecava, sbuffava, imprecava e poi di nuovo ansimava, nonostante il sentiero fosse molto più agevole, e non solo perché in discesa. Era ben tenuto, come se qualcuno ci facesse ordinaria manutenzione. Sapeva che quel vecchio era ricco da far schifo, quindi non era così strano che ne spendesse un po' per conservare l'ambiente intorno le sue proprietà in buono stato.
"Forse dovrei rapire lui e costringerlo a darmi un bel po' di grana! Così potrei sbattere in faccia a Masi le sue merdose buste dicendogli che se lo vada a recuperare da solo il suo prigioniero del cazzo!"
L'idea lo allettava molto. "Magari un'altra volta, eh?" gli disse la sua solita, odiosa vocina.
Arrivato in basso illuminò il prato davanti.
Spense la torcia e, facendosi guidare dalla luce che usciva dal capannone, senza indugio, raggiunse l'ingresso.
Mise appena dentro la testa; in prossimità della porta non c'era nessuno, ma sentiva delle voci provenire da più avanti, nascoste da un labirinto di quelli immaginava essere macchinari, grossi e piccoli, ricoperti da lenzuoli bianchi. Poteva agire indisturbato e di nascosto.
Estrasse la pistola e cominciò ad avanzare.
Alberto aveva visto la luce giungere in basso e avanzare decisa nel prato. Ancora acquattato contro il muro, vicino all'ingresso della baita, aspettava il momento giusto per agire.
Cominciò a distinguerne i lineamenti quando l'uomo arrivò poco oltre la metà del prato. Sapeva chi era, quindi il riconoscerlo era probabilmente un po' suggestionato, sebbene di quell'uomo, avesse visto sempre e solo il mezzo busto seduto nella guardiola.
Vedeva ora una figura intera emersa dall'oscurità, avanzare con andatura incerta, a poco, a poco illuminata dalla luce che gli cadeva addosso sempre più violenta dalla porta aperta del capannone. Più lo guardava e più non poteva credere che un uomo del genere potesse rappresentare un pericolo; era palesemente un ubriacone, sciatto, lento nei movimenti. Ma aveva dalla sua l'arma migliore che si potesse avere in situazioni del genere: la sorpresa. La fortuna voleva che anche lui disponesse di quell'arma, e aveva intenzione di usarla nel migliore dei modi.
Si accostò di più al muro, cercando di immergersi il più possibile nel nero della sera e attese che l'uomo giungesse alla porta. Lo vide sbirciare all'interno e poi sparire.
A quel punto si mosse, senza accorgersi che due occhi, di un azzurro intenso, lo osservavano dall'interno della baita.
Franco era uscito dalla sua stanza al primo piano, era salito sul montascale con la carrozzella, ed era sceso in basso, giungendo proprio mentre la porta d'ingresso si chiudeva.
All'inizio si era spaventato per quel rumore improvviso e appena accennato, ma aveva subito intuito chi poteva averlo provocato.
Avvicinatosi in silenzio alla finestra, aveva visto una luce scendere dalla montagna, mentre un uomo, qualcuno che in quel momento avrebbe dovuto essere al sicuro in un altro posto, era fermo davanti alla porta.
"Alberto, Alberto!" pensò il vecchio, scuotendo appena la testa, ma sorridendo.
Lo vide muoversi, radente il muro. Capì cosa stava accadendo, in silenzio uscì e lo seguì, mantenendosi a distanza.
Avrebbe lasciato scorrere gli eventi e, se fosse capitato qualcosa di spiacevole a quel bambino disubbidiente, avrebbe fatto in maniera che nulla andasse sprecato. Era cinico, lo sapeva bene, ma la barra della sua nave doveva continuare a navigare sempre nella stessa direzione.
E comunque, nella sua situazione poteva fare ben poco.
René avanzava, nascosto nel dedalo di quegli strani oggetti, seguendo la voce di donna che si avvicinava sempre più.
Il suo cuore batteva forte, ma prendeva forza dal fatto che, chiunque fosse quell'ostacolo imprevisto, ignorava la sua presenza.
D'un tratto la vide e si acquattò alla svelta, dietro a un grosso macchinario alla sua destra. Aveva appena fatto in tempo a scorgere una massa di capelli biondi e, forse, una grassa corporatura. Ma, più importante, l'aveva vista seduta, dandogli le spalle. La sentiva chiacchierare, e capì che aveva catturato i due bietoloni. Chiuse gli occhi e trasse due grossi respiri, uscì allo scoperto e puntò la pistola verso l'enorme schiena, davanti a lui.
«Butta a terra qualsiasi cosa tu abbia in mano, pachiderma, poi alza le braccia.»
La donna si zittì di colpo. La vide rimanere immobile per qualche secondo, poi sentì il rumore metallico di qualcosa che cadeva e due braccia, corte e tozze, lentamente si alzarono. I due ragazzi ammanettati cominciarono a sghignazzare.
«Brava! Ora alzati e girati. Voglio vedere in faccia la donna che sto per ammazzare e voglio che tu veda chi sta per farlo.»
Lei obbedì e si girò. Stava sorridendo. «Che buffo accento tedesco hai!» gli disse.
Lui rimase per un secondo perplesso, rapito da quegli occhi penetranti che lo fissavano e da quel sorriso, così accattivante, così allegro, per cui era difficile non provare simpatia.
Da lontano giungeva qualcos'altro, sembravano altre voci, ma erano ovattate, distanti. Poi lo sguardo della donna lo abbandonò e si spostò dietro di lui. Di colpo René uscì da quello strano torpore improvviso e momentaneo, e tutto lo colpì con forza: la voce dei due ragazzi, in primis.
«ATTENTO! GIRATI, SCEMO!"
Ma anche qualcosa di estremamente più duro e doloroso che si abbatté sul suo ginocchio, facendolo stramazzare a terra. La pistola gli cadde di mano e, prima che se ne accorgesse, un'altra botta lo colpì sulla schiena, lasciandolo senza fiato.
Quando riuscì a rialzare la testa, vide l'arma puntata su di lui e il sorriso, così bello solo pochi secondi prima, deformato in un ghigno di determinazione, mentre la donna gli diceva di rimanere assolutamente fermo.
«Ben fatto! Davvero ben fatto! Tieni, Alberto. Ammanettalo con queste, poi imbavaglialo.»
Franco aveva porto un paio di manette e un rotolo di scotch da pacchi ad Alberto, che lo fissava, cercando con un po' d'ansia segni di delusione e di rabbia negli occhi del vecchio, per avergli disubbidito. Con sua grande sorpresa, non ne scorse. Anzi, l'ingegnere, arrivato appena dopo di lui, sorrideva e sembrava felice.
Alberto prese le manette e bloccò i polsi del tedesco dietro la schiena, dopodiché lo aiutò a rialzarsi. L'uomo si reggeva in piedi a fatica per il colpo subito al ginocchio.
«Tu?» disse René, appena lo vide in faccia. «Bastardo!»
«È un piacere anche per me!» gli rispose, piantandogli in faccia il sorriso più giocondo che riuscisse a fare. «Ti piace la mia voce? È la prima volta che la senti, giusto?»
«Io...»
«Tu stai in silenzio, ora!» intervenne Monica.
Alberto srotolò lo scotch e lo avvolse bello stretto attorno alla testa di René, facendo tre giri, mentre l'uomo mugolava proteste che nessuno poteva più capire.
«E lo stesso vale per voi!» gracchiò Monica ai due fratelli, piantandosi minacciosamente davanti a loro.
«Ho chiamato i carabinieri, Alberto. Stanno per arrivare in elicottero e saranno qui a breve. Vai nella stanza e portati lui. In uno degli armadietti c'è una corda. Legalo bello stretto e aspettami. Va bene? Tieni! Il mio mazzo. Passa dall'ascensore.»
«Come? Non facciamo arrestare anche lui?»
«Non possiamo. Racconterebbe tutto.»
«E loro? Potrebbero raccontare tutto pure loro.»
Franco si pose l'indice sulle labbra. «Dubito che sappiano. E comunque, il maresciallo è un amico mio!» disse, bisbigliando.
In lontananza cominciò a sentirsi il rombo di un elicottero in avvicinamento. «Vai! Su, forza!»
Alberto prese René per un braccio e lo trascinò verso l'ascensore; infilò il cilindro nello spinotto e, dopo qualche secondo, le porte si aprirono. Spinse dentro il tedesco e schiacciò il -1.
Nel frattempo, Franco era uscito, dirigendosi verso lo spiazzo d'atterraggio in cui aveva acceso le luci prima di uscire dalla baita. L'elicottero atterrò qualche minuto dopo. Tre carabinieri scesero e si avviarono verso il vecchio uomo in carrozzella che li attendeva.
«Ciao, Franco! Stai bene? Mi hanno detto che hai denunciato un tentativo di intrusione?»
Il più grasso dei tre gli allungò la mano, che lui strinse con calore.
«Esatto, Maurizio! Due ragazzotti. Non so esattamente che cosa sperassero di trovare, ma tant'è... Meno male che la mia assistente era vigile in quel momento.»
Il maresciallo fischiò in segno di sollievo. «Da dove sono arrivati? Dai sentieri?»
«Già! Dal "Vetta del Lupo". Sai che ho messo telecamere e sensori. L'allarme è suonato subito e Monica si è messa all'erta.»
«Due ladri un po' maldestri, direi!»
«Per fortuna! Venite, sono ammanettati nel capannone. Come sta, Giulia? I ragazzi?»
«Oh, stanno tutti bene, grazie» rispose l'omone, ansimando un po' mentre camminava.
«Tirateli su» disse il maresciallo ai due uomini che lo accompagnavano, non appena furono davanti ai due ragazzi in manette. «E, voi due, vi consiglio di restare fermi. Cosa volevate fare? Eh? Che intenzioni avevate?»
Uno dei due carabinieri tolse loro le manette di Franco, restituendole a Monica che osserva con interesse l'arresto, e li fece alzare, imprigionandoli con quelle in dotazione.
«Siete in arresto per tentata intrusione e aggressione. Avete il diritto a rimanere in silenzio...»
«Hanno un ergastolano nascosto qui! E c'è anche un altro prigioniero!» urlo all'improvviso il più giovane dei due.
«Silenzio! Chi ti ha dato il permesso di parlare?» disse il carabiniere interrotto.
«Ma è vero!» piagnucolò il ragazzo. «Giù, per l'ascensore!» e intanto indicava col mento il cilindro di cemento.
«Che vai blaterando, giovane?» Il maresciallo lo guardava con aria interrogativa.
«Tengono nascosto un ergastolano evaso. L'abbiamo visto.»
Franco rise. Maurizio lo guardò perplesso
«Questo è il tentativo di salvarsi le chiappe più fantasioso che abbia mai sentito!»
«Franco, ma cosa sta dicendo?»
«Non ne ho la minima idea, te lo giuro, Maurizio.»
«È un bugiardo!» intervenne l'altro fratello. «È tutto vero.»
Il maresciallo si avvicinò ai due e li squadrò per bene.
«Se c'è una cosa che non ho mai visto fare a Franco de Simone è mentire. Come vi permettete? Voi sapete quest'uomo cos'ha fatto per il nostro paese?»
Si girò verso il vecchio, con gli occhi lucidi.
«Cos'ha fatto per mio padre?»
Franco gli sorrise e strizzando l'occhio.
«Ma...»
«Ora basta!»
Il maresciallo estrasse il manganello, più per minaccia che per altro, senza la reale intenzione di usarlo sui due ragazzi.
Franco gli si avvicinò. «Puoi perquisire la proprietà se lo ritieni necessario. Non ho nulla da nascondere, te lo assicuro.»
«Non dirlo nemmeno per scherzo, Franco. Il giorno in cui crederò che l'ingegner Franco de Simone nasconda un ergastolano in casa sua, sarà il giorno in cui gli alieni invaderanno la terra!» e proruppe in una sonora risata, imitato dai due carabinieri.
Anche Franco e Monica risero, ma solo dopo essersi lanciati un'occhiata di sgomento.
Alberto, tornato nella stanza, aveva legato come un salame René, braccia, gambe e piedi e l'aveva lasciato seduto appoggiato al muro, guardandolo con un'espressione che mutava dal divertito all'odio più profondo.
«Potrei anche picchiarti a sangue, sai? Lo farei molto volentieri!» gli disse. «Sono sicuro che tu lo faresti e l'avresti fatto anche all'abbazia, se ti avessero messo tra le guardie, invece che in quella guardiola a fare l'unica cosa che sai fare, cioè niente.»
Gli occhi di René scintillarono di rabbia.
«Ma visto che sto cercando di diventare un uomo migliore di quello che sono sempre stato, non ti toccherò. Anche perché toccarti, devo confessarti, mi fa un po' schifo.»
Bussarono alla porta. Gli sorrise e andò ad aprire. Franco e Monica entrarono con l'espressione piuttosto soddisfatta.
«Tutto bene?» chiese Alberto, un po' timoroso al pensiero di carabinieri in carne e ossa, sopra la sua testa.
«Tutto ok. I due pollastri sono stati arrestati e nei prossimi giorni andrò a sporgere denuncia. Per un po' non ci daranno fastidio» rispose Franco, mentre osservava con interesse René.
«Hanno provato a fare la spia su di te...» Alberto trasalì. «Oh, tranquillo. Il maresciallo è mio amico e mi idolatra. Ho dato da lavorare a suo padre in gioventù e anche allo zio. Mi è bastato dire che non sapevo di cosa parlassero. La mia rispettabilità mi precede a quanto pare. Mi è dispiaciuto un po' ingannare le forze dell'ordine, ma il fine è decisamente molto, molto importante!»
«Non sembri molto dispiaciuto, a dire il vero.»
«In effetti mi sono divertito un sacco!»
«Sicuro che non sappiano nulla dell'abbazia? Potrebbe finirci in mezzo Francesca.»
«No, tranquillo! Sia Masi che il nostro salamino, qui, hanno un bel po' da perdere se il vaso di Pandora venisse aperto. Sono sicuro che pagavano profumatamente sia il servizio che il silenzio di quei due giovani. Non è vero, amico mio?» disse, rivolgendosi a René.
Il tedesco non potendo esprimere il suo odio a parole, lo sprizzava dagli occhi, riversando la parte più consistente verso Alberto. Il suo codice etico personale non poteva tollerare il fatto di essere un prigioniero alla mercé di un uomo che aveva ucciso delle persone e che avrebbe dovuto essere dentro a una prigione. Il fatto poi che lui stesso stava per uccidere quella grassa donna (e l'avrebbe fatto, se non fosse stato interrotto), non lo tangeva minimamente.
«Lo prendo per un sì!» concluse Franco, soddisfatto.
«Aiutami, Alberto, per favore» disse Monica, avvicinandosi al tedesco. «Voglio ammanettarlo alla gamba del letto.»
Lo tenne fermo per le corde, legate stretto intorno alle braccia, mentre lei gli toglieva le manette. Lo trascinarono vicino al letto, mettendogli i polsi dietro a una delle gambe e Monica lo ammanettò di nuovo.
«Bene» disse Franco. «Alberto, torniamo di sopra. Puoi dormire nella tua stanza, stanotte. Rimarrà Monica con il nostro amico, e domattina lo riaccompagnerà dalla tua fidanzata.»
«Non lo rimetterà nella guardiola, spero!»
«Secondo te? Credevo avessi più considerazione dell'intelligenza della donna che ami!» rispose, sempre più divertito.
«Non sei arrabbiato perché sono uscito, Franco?» chiese Alberto, mentre aspettavano l'ascensore.
«Non sapevo se anche tu stessi guardando i monitor, così, per non correre rischi... Avrebbe potuto uccidervi entrambi, e non l'avrei sopportato. Fortuna che mi avete messo proprio in una stanza coi monitor!»
Franco lo guardò, senza sollevare la testa. «Non è stata fortuna, caro!»
Alberto sollevò un sopracciglio.
«Alberto! Su, dai! Ti ho messo lì apposta. Certo che stavo guardando il monitor e, ovviamente, avrei avvertito Monica, ma ti ho messo in quella stanza per un motivo.»
Alberto non capiva e la sua espressione doveva trasmettere questa impressione. Franco sorrise.
«Ho pensato che, se non succedeva nulla, la tua prova sarebbe stata restare tutta notte qui sotto. Quindi, chiamiamola una prova di obbedienza agli ordini, o rispetto delle regole. Fai un po' te. Se invece capitava qualcosa, come è successo, il test si trasformava in una vera e propria prova operativa. Perbacco, tu sei e sarai uno dei nove che dovranno salvare il mondo! Devi essere svelto, sia a pensare, sia ad agire.»
Il sorriso gli si allargò ancora di più.
«Devo dire che hai brillantemente superato la prova. Quindi, no! Non sono arrabbiato.»
Le porte dell'ascensore si aprirono. Franco entrò e Alberto lo seguì in silenzio.
«Non hai niente da dire?»
«Mi sto rendendo conto solo ora di quello che ho fatto. Sul serio. E mi batte forte il cuore. Se dovessi farlo adesso, non so se ne avrei il coraggio.»
Franco gli prese una mano, mentre le porte si riaprivano sulla fabbrica. Uscirono e lo bloccò.
«Ascoltami! Il vero coraggio si manifesta quando ce n'è bisogno. Mai prima, mai dopo. Quello non è coraggio, è arroganza! E per la paura è uguale. L'importante è non farsi sopraffare quando bisogna agire. Provarla prima o dopo, non conta nulla. Anzi, forse è dimostrazione di saggezza.»
Alberto lo fissava e gli occhi si riempirono di lacrime. «Perché però ho avuto coraggio e non paura quando ho ucciso quelle due povere donne?» Cominciò a singhiozzare. «Dio, mio! Perché, Franco? Perché?»
Il vecchio lo tirò per le braccia, facendolo inginocchiare e lo abbracciò. Lo lasciò sfogare per un po', poi si ritrasse e lo fissò coi suoi occhi azzurri, in quel momento più profondi che mai.
«Non era coraggio, quello. Era vigliaccheria, Alberto. Di quella più miserabile. E credo lo sappia anche tu.»
Alberto abbassò lo sguardo.
«Ma era un altro uomo quello che ha commesso quel terribile crimine, convincitene. Adesso sei diverso. Sei un uomo innamorato e che si sta facendo amare, hai salvato la vita a una donna e forse anche a un vecchio malato, e hai una responsabilità enorme verso il mondo che, a parte qualche scetticismo di troppo, mi pare tu sia disposto ad assumerti. La vita ti sta offrendo una seconda possibilità, attraverso molteplici vie e tu le stai percorrendo tutte quante nel migliore dei modi.»
Alberto si asciugò gli occhi e li alzò in quelli di Franco.
«Sai cosa mi ha detto Monica, stamattina? Che sei un bravo ragazzo. Ti posso assicurare che detto da lei, è un complimento enorme. Soprattutto perché conosce la tua storia.»
Un piccolo accenno di sorriso comparve sul viso di Alberto.
«Ogni volta che mi guarda, sembra che mi legga dentro. È incredibile!»
«Sì, è una sua peculiarità. Ma è adorabile!»
«Già.»
Tirò su con il naso, e si asciugò l'ultima traccia di umido dagli occhi. «Vorrei averti conosciuto prima, Franco. Grazie! Grazie di tutto!»
«Grazie a te, Alby. Grazie a te!»
Pietro Masi arrivò all'abbazia molto più tardi del solito, la mattina del 17 marzo.
Si era svegliato al solito orario, quando ancora l'alba era lontana, aveva avvertito il direttore con un sms e si era messo, con enorme impazienza, ad aspettare René e i suoi due scagnozzi. Ma anche quando il sole era ormai già alto, nessuno era arrivato.
Alle dieci, scuro in volto più del solito, era salito in macchina e si era diretto al lavoro.
"Che cazzo han combinato quei tre deficienti?" rimuginava tra sé e sé.
Era evidente che qualcosa fosse andato storto, la qual cosa poteva essere un rischio anche per lui. Ma si era preparato già una storiella convincente da propinare alla Fontana, nel caso fosse servita. Avrebbe fatto buon viso a un pessimo gioco del cazzo, che era proprio quello in cui si era trasformata tutta quella faccenda.
Non appena varcò la soglia dell'abbazia, Günther gli riferì che il direttore lo aspettava nel suo ufficio. La cosa non gli piacque e un piccolo campanello d'allarme tintinnò nella sua testa. Forse avrebbe avuto bisogno della storiellina sul serio e se la ripassò mentalmente, mentre saliva le scale. Bussò e quando la voce della donna gli disse di entrare, aprì la porta.
Era convinto di affrontare un faccia a faccia con lei e già la cosa lo turbava. Ma nell'ufficio trovò altre persone, e il campanello nella sua testa divenne un campanaccio. In piedi davanti alla scrivania c'erano Karl, Vignoli e Burci e tutti e tre lo fissavano intensamente. Francesca Fontana era seduta con gli occhi su alcuni fogli e non sollevò lo sguardo.
«Buongiorno, direttore. Ragazzi...» disse, con una voce che non riconosceva come la sua. Nessuno ricambiò il saluto. «Voleva vedermi?»
«Certo, Masi. Volevo proprio vederla.»
Gli occhi di lei erano ancora fissi sui fogli sparpagliati sul piano della scrivania. Masi si chiese se davvero li stesse guardando.
«Volevo solo chiederle perché, dopo tanti anni, ha deciso di tradire la mia fiducia, la mia persona, la mia abbazia e, di riflesso, il ricordo di mia madre che, mi corregga se sbaglio, ha tanto creduto in lei.»
La domanda, camuffata da affermazione, gli sbatté addosso con tale violenza che ebbe quasi la sensazione di cadere all'indietro. Nonostante il tono di Francesca fosse pacato e tranquillo, le parole che pronunciò erano, per le sue orecchie, degli assordanti stridii emessi da un violino scordato, e tutti i timori che aveva covato nel suo arido cuore, sin da quando si era svegliato quella mattina, vennero a galla come tanti pesci morti. Lì per lì nessuna parola affiorò sulle sue labbra e non disse nulla.
«Ebbene?» incalzò lei, sollevando infine gli occhi su di lui. Aveva lo sguardo duro, spigoloso, la qual cosa le induriva i lineamenti del viso, facendola apparire più vecchia.
«Non capisco a cosa si riferisca, direttore.»
«Oh, io credo di sì, invece» dichiarò, appoggiandosi allo schienale e incrociando le braccia. «Lei ha organizzato, senza il mio permesso, una spedizione a casa di mio zio per recuperare AR396, cercando di coinvolgere le tre guardie qui presenti, che mi hanno subito informata.»
Masi si girò a guardare i tre uomini, digrignando i denti. In cambio ottenne tre sorrisi soddisfatti.
«Guardi me, Masi. Non loro.»
Pietro si rigirò, trovandosi gli occhi del direttore piantati addosso
«Quindi?» lo incalzò.
«Non può provare nulla. Nulla di nulla!»
Sentiva una furia cieca montargli dentro e l'idea di usare la violenza passò per un attimo nella sua mente. Era più forte, singolarmente, di ognuno dei tre uomini che aveva alle spalle, ma, opposto a tutti, insieme, non avrebbe avuto scampo. Se solo fosse stato solo con lei! Avrebbe potuto risolvere quella seccatura alla sua maniera, usando i suoi metodi. Ma, a quanto pareva, Francesca Fontana non era una stupida.
«Questo lo crede lei. Ho la testimonianza di tre uomini. Inoltre, uno di loro, l'ha vista entrare e uscire dall'abitazione di René, insieme a due tizi che, guarda caso, si sono poi introdotti di nascosto nella proprietà di Franco de Simone e che ora sono agli arresti.»
Francesca sorrise, ingentilendo i lineamenti.
"Si son fatti arrestare quegli imbecilli!" pensò, maledicendo sé stesso per aver affidato un compito così importante a delle persone totalmente incapaci. "Masi, cominci a perdere dei colpi!"
«Di nuovo non ha niente da dire?»
«Lavoravo per lei, direttore. Volevo riportarglielo bell'impacchettato!»
Francesca rise, di gusto. «Ah, sì? E allora perché ha fatto tutto di nascosto? Perché mi ha appena mentito? Perché mi ha detto che non posso provare nulla? Inoltre, come si permette anche solo di pensare che mio zio possa essere coinvolto in questa storia?»
Masi capì che era inutile continuare a recitare, cosa che tra l'altro, odiava. Era in trappola e non aveva vie d'uscita, se non attaccare a sua volta.
«Va bene, direttore. Ho organizzato la cosa, lo confesso. Detesto essere preso per il naso, e quei due, scappando, lo hanno fatto. Uno ha avuto quel che si meritava. Volevo occuparmi personalmente dell'altro. Sua madre mi ha assunto proprio per questo, lo sa? Forse no, perché lei è ben lontana da essere come sua madre.»
Il suo sorriso si allargò, ma negli occhi di Francesca non comparve il segno di cedimento che lui si sarebbe aspettato.
«Ma come ti permetti di parlare così al direttore?» intervenne Burci, ma Francesca gli fece cenno di stare tranquillo.
«Continui pure, Masi, se ha altro da dire.»
Il capitano aveva notato che Burci, aveva usato il "tu" nel rivolgersi a lui, senza chiedergli nemmeno il permesso. La cosa, di poco conto in sé, aumentò, e non di poco, il senso d'inquietudine che provava.
«Oh, certo! Ho parecchio da dire! Lei è a conoscenza del fatto che AR396 è in casa di suo zio, ma non farà nulla, semplicemente perché se lo porta a letto! E là è molto meno rischioso farsi chiavare che qui, vero?»
Francesca si alzò, girò intorno alla scrivania e si piazzò davanti a lui.
«Si dà il caso che ieri sera un maresciallo e due carabinieri siano stati alla FDS per arrestare quei due stupidi, e tutti e tre hanno dichiarato che non c'era nessun ergastolano nascosto da mio zio! E la mia vita sessuale, a un uomo come lei, non deve interessare.»
Si appoggiò alla scrivania, assumendo una posa provocante, sorridendo compiaciuta.
«Anche se, sapete ragazzi, anni fa il signor Masi qui presente ha tentato un approccio con la sottoscritta. È stato parecchio divertente vederlo balbettare davanti a me!»
Karl, Vignoli e Burci si misero a ridere. Masi fremeva di rabbia ma cercò di contenersi. Teneva alla sua dignità.
«Comunque, caro Pietro, dovrò prendere seri provvedimenti nei suoi confronti.»
«Ah, sì? E cosa ha intenzione di fare? Licenziarmi? Farmi arrestare? Perché le assicuro che, in entrambi i casi, spiffererò tutto. Non sono un pivello come quell'ubriacone di René!»
«Oh, lo so bene questo. Lo so molto bene. Karl, per favore...»
Masi aggrottò la fronte. Fece appena in tempo a girarsi verso i tre uomini dietro di lui e vedere Karl che avanzava verso di lui con una bomboletta in mano.
«Sogni t'oro, amore!»
Poi, tutto si fece nero.
La prima cosa che si svegliò fu il mal di testa. Leggero, ma fastidioso, partiva da un lato della fronte e giungeva, a semicerchio, all'altro. Quindi s'intromise un piccolo senso di scomodità che s'ingigantì all'istante, finché non s'accorse d'avere la schiena intorpidita, poggiata su qualcosa di molto duro.
Avrebbe voluto aprire gli occhi ma, chissà perché, non ci riusciva. Sentiva di poterlo fare, ma non voleva.
Si mosse con cautela e con la mano toccò la superficie su cui era disteso. Era pietra, levigata e fredda.
"Apri gli occhi!"
Una voce risuonò nella sua mente. Era la sua.
"No! Non riesco!" rispose, ma si accorse che era sempre la sua voce.
"Sì che ci riesci! È che non vuoi. Aprili!"
Il mal di testa era aumentato e pulsava nelle tempie.
"No! Non voglio aprirli!"
Aveva i piedi nudi e aveva freddo.
"Aprili!" insisteva la voce.
"Lasciami in pace."
Si strinse la testa per attenuare il dolore.
"Aprili!"
"Ti prego, basta..." stava implorando.
"APRILI!"
L'urlo squarciò la sua testa e il dolore esplose.
«BASTAAA!» gridò Masi e aprì gli occhi.
Una luce soffusa lo investì, ma gli fece male, come fosse la luce del sole piantata negli occhi. Intorno alla testa gli sembrava di avere conficcata una corona di grossi spilli. Attraverso i fumi del mal di testa e l'intontimento che ancora lo stordiva, sentì qualcosa. Sembrava una risata, rauca, che proveniva da chissà dove. Si guardò intorno, ma c'erano solo pareti di roccia e una porta blindata, incastonata in una di queste, mentre in un angolo c'era un vecchio materasso macchiato. Era tutto terribilmente famigliare intorno a lui e un atroce presentimento lo avvolse di paura, all'istante.
«Masiiii...»
La voce proveniva da dietro la porta ed era la stessa che prima ridacchiava. Si prese la testa tra le mani e si accorse di avere addosso una casacca e un paio di pantaloni di tela. Il presentimento si stava trasformando in certezza, quella più cruda.
«Masiii! Rispondimi...»
«Chi sei?» chiese. Ma quella non era la sua voce. Quella piagnucolosa accozzaglia di lettere non poteva essere uscita dalla bocca di Pietro Masi. Si rese conto che stava piangendo.
«Come chi sono? Non mi riconosci più, pezzo di merda.»
Si accucciò nell'angolo più lontano dalla porta e si sedette, stringendo le ginocchia contro il petto.
«Lasciami stare! Qualsiasi demone tu sia, non mi tormentare!»
La voce rise, sguaiatamente. Masi conosceva quella risata.
«Demone? Io sarei un demone? Tu sei il demonio! Maledetto. Se sono qui è solo colpa tua, bastardo!»
Masi ascoltava la voce accusarlo e insultarlo, senza sentirci dentro nessuna inflessione di rabbia. Sembrava si divertisse e questo la rendeva, se possibile, ancora più sgradevole. Eppure, era quasi certo di conoscere che stava parlando.
«Grazie ai tuoi brillanti piani ci siamo fottuti!»
Tirò su la testa troppo in fretta. Il male, che già pulsava a mille, esplose, improvviso, costringendolo a riabbassare il capo tra le mani.
«René?» domandò, sapendo già la risposta.
«E chi se no, scemo!»
«Dove siamo?»
«Nella merda fino al collo!»
Usando maggiore cautela, Masi provò a rialzarsi e si avvicinò alla porta.
«Spiegati meglio!» insisté, anche se nel profondo del suo arido cuore, sapeva già.
«Queste sono le celle che i monaci scavarono e tennero per emergenza, come nascondiglio eventuale in caso di invasioni o guerre» ridacchiò, ancora. «Me ne parlò una volta Baroni. Pensavo scherzasse, invece no. Esistono sul serio! E, a quanto pare, sono state trasformate in prigioni. Siamo nei sotterranei, due piani sotto le celle dei prigionieri.»
«Perché non ne sapevo nulla?»
«Ahh, mio caro. Se non le conoscevi tu, che sei... eri il capitano... Forse non sono mai state usate.»
Un'ondata di panico investì Masi. Si gettò sulla porta cercando di aprirla, ma ottenne solo un'ennesima fitta alle tempie. Il duro acciaio che lo separava dalla libertà nemmeno vibrò. Un senso di soffocamento cominciò a mescolarsi al panico; le quattro mura sembravano muoversi verso di lui e la cella, già minuscola, rimpicciolirsi.
«FATEMI USCIRE! EHI, FATEMI USCIRE DA QUI!»
René rise ancora. «Non ti sente nessuno, scemo! Quella donna ci ha sepolti vivi, non lo capisci? Ci ha piazzato più in basso degli stessi ergastolani di merda! Quella grandissima troia...»
Masi si inginocchiò, poi si girò e si sedette, con la schiena contro la porta. Mise la testa tra le gambe e pianse, singhiozzando.
«Voglio uscire da qui! Non possono imprigionarmi!»
«Mmm! Non fai più tanto il duro, vero? Il grande, invincibile Pietro Masi, piange e implora come una femminuccia. Sei patetico!» ed emise una nuova, rozza risata.
Masi cercò di calmarsi. Era la prima volta, in tutta la sua vita, che si lasciava andare a una tale disperazione e già se ne vergognava. La voce di René gli faceva rabbia, ma la solita furia che in lui montava con facilità, adesso sembrava limitata dalla cupa situazione in cui si trovava e che aveva invaso tutto il suo corpo. Trovò comunque la forza per rispondergli a tono.
«Tu, invece, fai adesso il duro, visto che sei lì, da solo. Se fossi qui con me sarebbe diverso, coglione! Ma quando uscirò da qui ti presenterò il conto.»
Avrebbe voluto aggiungere qualcosa sul fallimento della loro spedizione, ma era già stanco di parlare con quell'uomo. Sollevò la testa e guardò i muri di pietra, rendendosi sempre più conto di dove si trovasse.
Di nuovo René rise. «Non l'hai ancora capito? Sappiamo troppe cose! Ci ha imbavagliato, ci ha fatto sparire! Non usciremo mai da qui!»
Francesca era seduta alla sua scrivania, coi piedi appoggiati sul piano, ed era rilassata.
La spedizione organizzata da Masi per catturare Alberto era stata sventata e quell'uomo orribile era imprigionato, finalmente inoffensivo, diversi metri sotto di lei. Così come René, meno pericoloso, ma a conoscenza di troppe cose, e fin troppo sgradevole. Il suo uomo era salvo e al sicuro, suo zio e Monica stavano bene, (Franco non stava benissimo in realtà, visto che era vecchio e malato ma, non era alla sua solita salute che pensava ora!) e il segreto dell'abbazia era ancora intatto.
A dire il vero era a conoscenza che un alieno con idee di distruzione era prossimo ad arrivare sulla Terra con l'intenzione, probabile, di uccidere tutti, e un germoglio di paura aveva attecchito piuttosto velocemente nel suo cuore.
Ma non aveva voglia di preoccuparsi adesso, non ancora. Voleva godersi ogni attimo, finché c'era la possibilità.
Dopo aver rinchiuso Masi, aveva convocato tutte le guardie e comunicato i cambiamenti che voleva apporre, per rendere la sua prigione meno lager e più luogo di normale detenzione; sempre un carcere più duro dei normali istituti di correzione, ma non al livello barbaro che era stato fino ad allora. Con buona pace dell'anima di sua mamma! Ridusse le ore di lavoro da undici a otto, arricchì un po' il menù e, soprattutto, le punizioni corporali sarebbero state consentite solo per gravi, gravissime infrazioni del regolamento. Le facce delle guardie non erano delle più convinte mentre esponeva queste novità, ma tutti accettarono senza obiezioni. Erano uomini rudi e, sotto il comando di Masi (e suo) violenti. Ma erano leali e l'avevano dimostrato in tutto e per tutto.
Si stava guardando i piedi, pensando ad Alberto, a come glieli baciava mentre facevano l'amore e a come la cosa la eccitasse da morire. Aveva una voglia matta di lui, una voglia che esplodeva soprattutto la sera quando, messe da parte le numerose scartoffie che impegnavano la sua giornata, si sdraiava sul letto e rifletteva.
La tentazione di chiamare lo zio e farsi venire a prendere alla stazione l'aveva solleticata più volte, ma si era imposta di resistere. Aveva comunicato alle guardie che nuovi, improrogabili impegni, l'avrebbero costretta ad allontanarsi di tanto in tanto dall'abbazia; per rendere più credibile la cosa però, faceva in modo alla sera di essere sempre presente.
Sapevano tutti della sua tresca con Alberto, ma aveva fatto credere loro che l'uomo fosse ancora in fuga. Non dovevano scoprire che era ospite di suo zio, altrimenti la fiducia che nutrivano in lei sarebbe crollata come un castello di carte.
Avevano deciso di vedersi il sabato dopo e il sabato dopo sarebbe stato.
Aveva nostalgia anche della sua lupa. Era rabbrividita quando aveva saputo che due dei tre esseri viventi a cui teneva di più al mondo (nella sua personale lista era da poco rientrato suo zio, anche se, in realtà, non ne era mai uscito) avevano avuto uno scontro quasi mortale.
Stando ai racconti di Alberto, Astra aveva fatto di tutto per ucciderlo, ma non riusciva a biasimarla; per quanto fosse un animale intelligente e fuori dal comune, rispondeva comunque ai suoi istinti. Magari un giorno li avrebbe fatti incontrare. O magari no. Non era ancora riuscita a dire al suo uomo che quella lupa era sua, che l'aveva allevata fin da piccola e l'amava oltre ogni misura. Era abbastanza sicura che Alberto non avrebbe mai provato gli stessi suoi sentimenti per l'animale.
Sarebbe andata presto alla tana a trovarla ma, al momento, aveva un compito da svolgere, molto importante. Aveva promesso a suo zio che l'avrebbe aiutato, e così voleva fare.
Si alzò e recuperò dalla tasca della giacca il foglietto che gli aveva consegnato. Tornò alla scrivania e lo spiegò sul piano. Era una semplice lista di nomi, con alcune annotazioni a fianco.
Si preparò una tazza di tè, poi, sorseggiando, lesse i nomi.
1) ALESSANDRO GALLO (Ragazzino down)
2) EMANUELE GUALANDI
3) ELEONORA CATALDI
4) ... (ALBERTO)
5) BEATRIX JOHNSON (USA)
6) FRANCO TRUDI (Elba)
7) RODOLFO DANDOLO
8) MARISA VERTANI (Anziana)
9) ERIKA BUCCI (Ultima guarita, parte più potente di energia?)
«Che bella accozzaglia!» disse, sorridendo, mentre accendeva il computer.
Il nome alla riga quattro era evidenziato in giallo, una modifica che lo zio aveva sicuramente apportato di recente. Al momento Alberto era l'unico che poteva rispondere presente a un ipotetico appello.
Il nome alla riga nove, invece, era in rosso.
"La parte più potente?" si era chiesto Franco. Qualcosa le diceva di partire da lì.
Aprì Google e rifletté per un po'. Si chiedeva come avrebbero fatto a trovare, contattare e convincere tutte quelle persone. Più ci pensava, più le pareva una cosa assurda. Franco aveva tante certezze, tante speranze e, nella sua vita, aveva sempre raggiunto gli obiettivi che si era prefissato. Ma qui, le sembrava si andasse oltre ogni misura.
Cercando o, meglio, sforzandosi di condividere l'entusiasmo dell'unico parente rimastole in vita, cominciò a digitare nella casella di ricerca di Google.
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