14. Sul perché di tutto...

*

           "Ho sentito dire che letti e divani sono molto più comodi per questo genere di cose."

Bruno, quella frase impertinente, l'ha soffiata via carico d'una sicurezza che faceva a cazzotti col tremito della voce e con il timore represso d'aver osato troppo.

Ricciardi, invece, è sbottato in una risata sommessa, un poco singhiozzante di nervosismo e sorpresa, e ha concordato con altrettanta finta spavalderia, sebbene non a parole – s'è limitato a ricomporsi, a intimargli con lo sguardo di fare lo stesso e ad avviarsi verso l'uscita delle prigioni.

Ora che sono nella sicura quiete del proprio salotto – fin troppo disordinato per ricevere ospiti, ma Ricciardi pare non farci caso – rimane perplesso da due fatti, a cui cerca di dare un senso mentre rovista nella credenza in cerca d'un po' di cordiale – ché un bicchiere della staffa se lo son più che meritato entrambi e pure Ricciardi non ha posto alcun veto alcolico.

Il primo è l'essere riuscito a non saltare addosso a Ricciardi nell'attimo stesso in cui ha richiuso la porta di casa alle loro spalle. Certo, l'ha colto un fremito e ne ha letto il riflesso acceso negli occhi dell'altro, nel momento in cui li ha incrociati, trovandovi la sfumatura acquamarina che di rado li illuminava – ma è come aver reciso di comune accordo quel filo sottile di tensione tra loro con un colpo di forbici. O, forse, l'hanno solo allentato, aspettando di poterlo tendere di nuovo a tempo debito.

Il secondo è l'ansia latente che gli tamburella in gola. Potrebbe pensare che sia uno strascico di quanto appena subito – d'altronde, non gli capita ogni dì d'esser maltrattato e gettato in gattabuia dai fasci – o un tardivo manifestarsi della paura che ha soppresso finora. Tuttavia, riconosce in quel tenue pulsare di nervi e vene la stessa malcelata e storta trepidazione che l'ha colto al bordello, attimi prima di scivolare oltre la porta di Gemma per la prima volta, perfettamente conscio di cosa stesse cercando in lei – e che dovrebbe fare, ora che l'ha trovato?

La intravede, la sottile trama che unisce quei due fatti. La intuisce e gli blocca i polsi e gli estingue i lombi con un pacato tirare di capelli sulla nuca – lui, novello Achille che deve frenare la lussuria e non l'ira – e con un più gretto, ringhiato sussurro in fondo alla capa che gli intima prosaico di non mandare tutto in vacca, per una volta.

Recupera infine la bottiglia di nocillo dall'anta inferiore della credenza, che ha avuto sotto gli occhi fin da quando l'ha aperta, e poi due bicchierini da quella superiore.

«To', hai il privilegio di bere dalla mia scorta privata.»

Ricciardi volta il capo verso di lui con un istante di ritardo, lo sguardo che vaga tra i ripiani della libreria a muro poco più in là; s'è tolto la giacca, rimanendo in gilè e camicia – sleale, da parte sua – con le mani come sempre affondate nelle tasche dei pantaloni.

Sorride appena, ma esita sul posto, non trattenendo un'ultima occhiata ai tomi stipati in fitti ranghi accanto a lui, con dei modellini anatomici umani a far loro la guardia. Bruno posa sul tavolo bottiglia e bicchierini, affiancandolo prima che si scosti da lì; accenna col capo al suo personale santuario di letteratura medica:

«Ti vuoi dare alla medicina, adesso?» Lui si limita a un altro sorriso più pronunciato, con un lieve cenno di diniego. «Che hai trovato di tanto divertente?»

Lui, con la punta dell'indice, fa scorrere verso sinistra la basetta del modellino femminile che riproduce una delle Macchine anatomiche di Sansevero* in ogni minuto nervo e vaso sanguigno, così da porlo più specularmente a quello maschile, all'altro capo dello scaffale – nel recuperare i libri per le frettolose ricerche di qualche giorno fa, s'è scordato di riposizionarlo a dovere.

«È che si vede che sei diventato medico perché ti piaceva.»

«Ci sono altri motivi per diventarlo?»

«I soldi, il prestigio...»

«Tu sei diventato commissario per i soldi e il prestigio, Riccia'?»

Di nuovo, lui scuote la testa, con una crepa a filtrare nelle labbra incurvate.

«No. Direi proprio di no.»

«Allora, puoi capirmi.»

Bruno si rende conto con un poco di ritardo di essersi accostato a lui, spalla a spalla, e che Ricciardi non s'è mosso d'un millimetro a quel contatto.

Asseconda quindi l'impulso che porta la sua mano a sfiorargli la schiena – gli sembra ancora un gesto strano, colmo di tutto ciò che di sbagliato possa raccogliersi sulla punta delle dita; diventa ancor più proibito compierlo dinanzi a quel sacrario medico dove, da qualche parte, c'è scritto a chiare lettere come annoverare le devianze che hanno scelto di non sopprimere. Si chiede se sia davvero un caso che Ricciardi si sia fermato proprio là davanti a rimuginare sulla sua professione.

In quel mentre, lui gira il busto a quella pressione e, senza una parola – e dopo un microscopico attimo d'esitazione che fa fuggire le sue pupille verso il basso, sulle sue labbra – posa il volto sulla sua spalla, accostandosi del tutto a lui. Bruno lo stringe a sé, con molta più sicurezza di solo mezz'ora fa, nelle prigioni, e allo stesso tempo con una stilla di paura acuminata che gli morde lo stomaco, l'inguine, le gambe, come a farlo collassare sul posto.

Inspira a fondo il suo odore – c'è una nota di salsedine a screziare il tiglio, stavolta – e lo avverte fare lo stesso, con molta più energia e le dita che vanno a serrarsi sulle sue scapole.

«Riccia', che hai?» si lascia sfuggire, la mano che sale a raccogliergli la nuca in una pressione tiepida – e, senza pensare, preme le labbra dietro il suo orecchio in un bacio leggero; come a  chieder conferma che tutti quei gesti sbagliati non lo siano almeno tra loro.

Lui soffia di scatto dal naso, a quel contatto; scansa un poco il viso, ma sta sorridendo.

«Mi fai il solletico con la barba.» Quel commento strappa anche a lui uno sbuffo divertito, che si spegne quando vede l'ombra delle ciglia scurirgli le iridi azzurrine, fino a indirizzarle in basso. «È strano.»

Bruno è certo che non si stia riferendo solo al solletico. Sposta la mano sulla sua guancia, trovandola bollente – sfiora l'arco lieve delle sue labbra con la punta del pollice e lui le schiude quasi di riflesso, lasciandosi scappare un respiro più intenso.

«È strano anche per me.»

Ricciardi rialza di scatto gli occhi e li aggancia ai suoi.

«Lo dici per dire o sei serio?»

«Riccia',» gli scappa una risata soffusa, «ma cosa credi? Che io sia abituato?»

Gli legge la risposta nello sguardo ora sfuggente e nel silenzio interdetto che gli offre – ed è un "sì" assordante che lo arpiona nei visceri e gli toglie la terra sotto i piedi. Serra i denti.

«Solo perché tu lo sappia: non mai nemmeno guardato così un altro uomo prima d'ora.»

Gli esce tagliente, quella frase; Ricciardi scosta la sua mano dal volto, cingendogli il polso.

«Non lo intendevo come un'offesa.»

«Lo so.» La avverte come tale, però, manco avesse un marchio d'infamia addosso. «Anch'io l'ho pensato di te, comunque. Direi che siamo pari.»

Avverte la sua stretta farsi più salda sul suo polso; non vacilla nel rispondere, né si infiamma al suo tono più duro:

«Non è un'offesa, se è vero.» Deglutisce, vede il suo pomo d'Adamo lottare contro un groppo in gola. «Sono abituato a sentirmi parlare alle spalle: perché porto il malocchio, perché mia madre era pazza, perché non mi sono guadagnato il ruolo di commissario o perché disprezzo gli altri e preferisco la solitudine in quanto nobile. E, sì, anche perché non frequento le donne, ma è quasi un sollievo sapere che vi sia almeno un briciolo di verità in ciò che dicono di me.»

Bruno sospira piano, con l'indignazione che s'inabissa sotto una coltre di vergogna per averlo apostrofato a quel modo. Cambia rotta, avvolgendogli a sua volta il polso in una presa delicata.

«Tu l'hai capito da molto, quindi.»

Lui scrolla appena il capo, lo sguardo più morbido.

«No. Sei il primo che mi fa venire questi pensieri.»

«E le donne, allora? Non le hai mai frequentate, da quanto ho visto.»

«Non...» Ricciardi allenta e serra la presa sulla sua mano; abbassa lo sguardo, vi aggiunge l'altra e lui lo imita: tra loro si forma un intreccio di dita e nodi tiepidi impossibile da sciogliere. «Non credo sia questione di essere donne o uomini. So solo che mi sembra sempre di non conoscere abbastanza nessuno per stargli vicino.»

Riporta gli occhi nei suoi, in un'aggiunta muta a quell'affermazione, che Bruno coglie con uno spasmo dolce al cuore: nessuno tranne lui, a quanto pare. Si lascia sfuggire un sorriso sottile.

«Non devi mica conoscere per forza qualcuno, per trovarlo bello o gradevole.»

«Con te non è un fattore estetico.» Bruno non trattiene un'alzata repentina di sopracciglia e Ricciardi comprime visibilmente le labbra fino a sbiancarle. «Volevo dire...»

«Riccia', non mi hai mai fatto mezzo complimento; ma se questi sono quelli che vuoi farmi, tienteli per te.»

«Non intendevo...» Ricciardi annaspa, ritrae una mano e poi quasi s'inalbera, imporporato in volto: «Insomma, ovvio che ti trovo un bell'uomo, ma ti farebbe veramente piacere se ti guardassi solo per questo?»

«Non nego che sarebbe un'aggiunta gradita.» Bruno si scioglie infine in una risata piena, risolvendolo dall'imbarazzo, e il viso di Ricciardi si fa estenuato e divertito assieme, in un bizzarro contraltare di rughe d'espressione. Bruno gli molla un buffetto in volto. «Su, ho capito che intendi, non c'è bisogno di farti venire un cardiopalma. Anch'io ti guardo perché tu sei l'unico fesso che ricambia, che credi?»

Ricciardi sembra ancora deciso a gettare lo sguardo ovunque tranne che su di lui, ma un sorriso fulmineo fa breccia sul suo volto – uno spiraglio luminoso che filtra da una crepa invisibile.

«È così. Non sono abituato a essere visto. Da nessuno, in verità.»

«I problemi agli occhi li tengono gli altri, allora, non tu; e mi metto nel conto. Di certo, avrei voluto vederti prima.»

Ha appena il tempo di terminare la frase, che Ricciardi la soffoca d'impeto con le sue labbra. Le allontana con la stessa rapidità e, sebbene l'urgenza lo azzanni, Bruno non le insegue.

«E, per rispondere alla domanda che penso tu ti stia facendo...» Bruno esita, assapora il calore che gli ha impresso addosso con la punta della lingua, e poi esita ancora. «Io tutto questo l'ho capito adesso, piantando casini su casini e facendo inquietare pure te.»

Ricciardi aggrotta le sopracciglia, inseguendo pensieri invisibili; per poi aprirsi in uno sgranar d'occhi:

«Intendi quello che è successo al–»

«Questo non te lo dirò mai.» Bruno lo tronca con forza, di nuovo troppo brusco, per poi addolcire un poco il tono: «Penso tu possa capirmi sul fatto di non dirti tutto; anche se spero per motivi diversi.»

Ricciardi storce la bocca e annuisce appena.

«Ti capisco su molte più cose di quanto tu creda.»

Non aggiunge altro, se non un toccarsi più intenso di sguardi tra loro che, per un istante, svela la sfumatura grigio cupo dei suoi occhi; quella sempre celata, se non a lui – e lo capisce solo in quel momento, che è così anche per se stesso. Che sono stati proprio quegli sguardi e il loro semplice indugiare più a lungo di quanto chiunque gli avesse mai donato, a invertirlo a tradimento ancora di accorgersene.

Lo bacia di nuovo, per la prima volta con intento, assaporando quel gesto contro natura che inizia a salirgli alle labbra come un qualcosa di sempre conosciuto. E non si frena, stavolta – le mani di Ricciardi gli cingono salde il volto a dissuaderlo – si immerge in quel contatto che si fa presto più profondo, più disordinato, affamato d'aria e infiammato come non era potuto esserlo al di fuori di quelle mura; un inseguirsi di denti, lingue e vestiti strattonati e slacciati che li sospinge a passetti goffi lontano dal salotto e verso la camera da letto.

A Bruno viene quasi da ridere nel pensare alla sera in cui quello stesso percorso l'ha compiuto quasi sulle spalle di Ricciardi, con la mente offuscata d'alcol – e, a giudicare da come incurva le labbra lui, lo stesso pensiero s'è fatto strada nella sua testa.

«C'è altro d'indecente che ho fatto, l'altra sera?» non si trattiene dal chiedergli, stavolta in tono caldo e muovendo le labbra sul suo collo, ora libero dalla cravatta e dal colletto.

«Non mi pare,» soffia via lui, intento a fargli scivolar via la giacca e poi le bretelle dalle spalle. «Ma avevo bevuto anch'io; magari tu ricordi qualche dettaglio in più.»

Bruno quasi si strozza sul bacio rude che gli ruba dalla bocca, soffocandovi il "rinfrescami la memoria" – l'avrebbe voluto articolare in modo più chiaro del mezzo ringhio languido che gli è scappato fuori. Ricciardi capisce comunque alla perfezione, visto che prende a sbottonargli i pantaloni, liberando in parte l'eccitazione ormai quasi dolorosa che vi preme contro.

Scalza via le scarpe in fretta, liberandosi dell'indumento alle caviglie mentre Ricciardi fa lo stesso – e non c'è alcuna grazia in quei gesti, che incappano in bottoni stronzi o arti impigliati nella stoffa come burattini scoordinati. Ricciardi, ormai in mutande e prigioniero tra lui e la porta – e anche del polsino della camicia che si rifiuta di aprirsi – libera un verso esasperato e al contempo divertito, gettando la nuca contro il legno; Bruno gli fa eco, decidendosi a prestargli aiuto. E non avverte alcuna vergogna in quelle mosse e non preventivate, tutto l'opposto del teatrino sensuale ma fittizio a cui s'è abituato in altri luoghi; anzi, vorrebbe imprimersi addosso quella goffa spontaneità e riviverla ogni giorno senza mai dimenticarla del tutto.

S'impone un unico frammento residuo di lucidità, nel momento in cui l'ultimo lembo di tessuto lascia nudo il petto di Ricciardi e un istante prima di raggiungere il letto – probabilmente inciampando nei vestiti che si sono appena tolti.

Lo trattiene per le braccia, col respiro accelerato e l'eccitazione che smette per un istante di sfregare contro la sua:

«Riccia', domanda scomoda,» annaspa, con i neuroni che gli scappano da tutte le parti – e detesta dover pensare al mondo fuori. «Se non rientri stanotte, desteresti qualche sospetto?»

Ricciardi assottiglia gli occhi: un sorriso incredibilmente imbarazzato e al contempo furbetto gli si forma sulle labbra arrossate e lucide, rivelando la fossetta al loro angolo.

«Potrei aver già avvertito Rosa che non sapevo se sarei rientrato, stasera.»

Bruno perde almeno due battiti e una colata lavica d'eccitazione gli scenda al basso ventre.

«Tu sei un fetente, Riccia',» lo bacia, lo morde e vorrebbe non smettere più, «e meno male per entrambi.»

Quella che cominciano sul letto, al contrario del fuoco divampante che li ha avvolti finora, è un'esplorazione in punta di dita e bocche, a tratti timida, a tratti audace. In cui Bruno scopre che, sì, adora far scorrere le labbra sulla pelle liscia delle sue clavicole, sollevando brividi sottopelle; e adora anche quando lui gli annoda e tira i ricci tra le dita; e impazzisce, quasi, quando schiude le gambe e vi si ritrova incastrato in mezzo, sul bordo del letto.

Scivola in ginocchio di fronte a lui, con una corda tesa di violino che lo strattona dalla testa alla punta dei piedi; pulsazioni ritmiche lo pervadono, seccandogli la gola. Le dita di Ricciardi si serrano appena sulla sua nuca, tirandogli i capelli, ma senza alcuna pressione. Lo fissa con occhi liquidi, chiusi a mezza via tra meraviglia, impazienza e incertezza.

Bruno ci prova, a iniziare ciò che vorrebbe; e risale in una scia di baci intermittenti l'interno coscia, incurante di non trovarlo liscio e glabro. Lo stomaco gli si chiude nel premere le labbra contro la stoffa tesa del suo intimo – e si fa al contempo voragine bramosa. Lo vuole, vorrebbe divorarlo qui e ora, fargli spalancare gli occhi dal piacere per mano e bocca sua, fino a sfinirlo. Eppure, scivola più in alto, supera l'orlo di stoffa e risale lungo il sottile sentiero che lo conduce dall'inguine di nuovo alle sue labbra, affondandovi senza guardarlo.

Lui, di tutta risposta, lo trascina sopra di sé, senza dare il minimo cenno di delusione; Bruno si ritrova premuto quasi tra le sue natiche, le ginocchia che spingono sulle sue spalle. Si muove lento contro di lui con un vuoto nella lava ribollente nei lombi – e coglie il sussulto altrettanto istintivo di Ricciardi, lo scatto del bacino che asseconda il suo; ma è lui a esitare, stavolta, a irrigidire un poco le braccia e a chiudere appena le gambe.

Bruno, con l'impressione di giocare a un gioco di cui nessuno dei due conosce davvero le regole, si riporta più in alto, scostandosi da quel punto sensibile; Ricciardi si rilassa di rimando, tornando morbido sotto il suo tocco. Il bacio avido in cui lo coinvolge è solo una scusa per non guardarlo di nuovo negli occhi e leggervi dentro la stessa voglia che gli addenta i lombi – di sentirlo ovunque, dentro e fuori e in ogni palmo di pelle che riesce a stringere – ma anche la medesima titubanza che frena i loro gesti.

Lo accarezza attraverso la stoffa e un suo gemito gli si scontra contro i denti; gli blocca quindi i polsi sopra la testa, con tutto il peso, e vede le sue pupille dilatarsi, le labbra schiuse in fremente attesa – e una linea di tensione a screziargli la fronte e tendergli le labbra.

Bruno si paralizza, le mani sui suoi polsi che sembrano ora scollegate dal resto del corpo.

Ricciardi deglutisce, il collo esposto e sensibile che pulsa. Caccia via parole contro le quali sembra lottare tra un affanno e l'altro:

«Bruno, non dobbiamo far niente per forza. L'hai detto tu.»

«So cosa ho detto.»

E, però, gli lascia i polsi e si adagia accanto a lui, con un po' di difficoltà – perché Ricciardi reclama di nuovo le sue labbra con foga affatto sopita. Con un'audacia che gli mozza il fiato, scosta del tutto l'intimo e lo stringe nel palmo, in una carezza frettolosa a cui lui non si sottrae, trattenendo rapido la sua mano che già si allontana.

Ricciardi ha un singolo istante d'esitazione, prima di avvolgerlo di nuovo e premergli sulle labbra un bacio che è ora casto in modo quasi ridicolo. Bruno lo sporca subito, cercando la sua lingua; aggancia entrambe le mani alla sua nuca e si abbandona al suo tocco, le palpebre strizzate a contenere ogni sensazione che nasce, s'impenna e sfuma seguendo quel movimento lento, privo di alcuna fretta.

Avverte un piccolo spasmo all'inguine e, senza pensare, sospinge Ricciardi sopra di sé, a cavalcioni. Gli sfugge un gemito inconsulto, fuso col suo sospiro a quella posizione nuova, con ancora l'erezione stretta nella sua mano.

Bruno lo guarda dabbasso e sente fremere ogni terminazione nervosa come se ci stesse scorrendo dentro un fulmine in miniatura – è esattamente come l'ha immaginato, ed è molto più di quello, perché ora lo sta guardando in volto, non è una fantasia, ed è bello da far male. Accaldato, coi capelli sfatti e madidi e gli occhi lucidi che svelano quell'esatto punto di azzurro-verde in cui si perde ogni volta e che non deve più ricreare nella propria testa.

Ce l'ha qui, sotto alle mani serrate sui suoi fianchi, avvolto dalla sua che gli sta facendo perdere il lume della ragione; ha qui tutto quello che ha voluto e desiderato con tanta intensità. E ce l'avrebbe potuto avere sin da subito – gli si appanna la vista nel rievocare, per una frazione di secondo, il volto indignato e ferito di Gemma sopra di sé, quegli occhi cerulei simili e diversi, e la sensazione di sporco che l'aveva attanagliato subito dopo.

E si ricorda anche del perché avesse voluto rinchiudere tutto entro le mura della stanza di un bordello, e del perché avesse preferito la finzione alla realtà – non aveva avuto torto, in quello – e del perché gli stia sembrando tutto così difficile, adesso. La sua mano scatta a serrarsi attorno al polso di Ricciardi, interrompendo le sue carezze e stroncando l'onda di piacere che gli stava montando dentro.

«Bruno?»

La sua voce gli arriva ovattata, come distorta da un muro d'acqua salina. Si china subito su di lui, puntando i gomiti ai lati della sua testa, il corpo spinto su di lui in ogni millimetro e il volto a sfiorare il suo – lo fissa con apprensione, a dispetto del fremito eccitato che ancora lo scuote e che gli sta premendo addosso.

Bruno gli sfiora la guancia con la punta delle dita – lo vuole, pur sapendo cosa significhi, pur avendo tutti quei tomi di medicina a fissarlo in salotto con le loro diagnosi.

«Come fai a non pensare a quello che stiamo facendo?»

Gli sfugge in un refolo stentato, una domanda scevra dell'ironia che avrebbe voluto imprimervi. Coglie lo spaesamento repentino sul volto di Ricciardi, non sa se per la domanda in sé o per come lo sta guardando adesso. Forse, con lui non si è mai davvero permesso di mostrarsi davvero per ciò che è; per l'uomo che ha intravisto nello specchio solo ieri e che quello specchio avrebbe voluto romperlo – per questo Ricciardi non si raccapezza più e sembra non trovare il Bruno che ha sempre conosciuto – come potrebbe, quando è da giorni che non riesce a trovarlo nemmeno lui?

Dura un istante, poi i suoi occhi tornano a essere pozze di cielo quieto nella penombra.

«Ci sto pensando eccome. Ma penso anche che al mondo ci siano cose ben peggiori di questa; le vedo ogni giorno, e anche tu.»

Bruno ride, privo di alcuna vera ilarità. Serra le dita sulla sua guancia – e vuole solo baciarlo ancora; è un desiderio così semplice nella sua follia – semplice come credere alle parole di Ricciardi.

«Peggiori dell'esser pazzi?»

«Bruno.» Preme la fronte sulla sua, gli occhi ora lucidissimi e le parole spinte fuori da un respiro bollente che si fonde col suo. «Io non mi sono mai sentito tanto normale come adesso.»

Unisce di nuovo le labbra alle sue, come a suggellare quanto detto. Poi tace, ancora vicino a lui, in attesa forse di sentirgli dire che per lui è lo stesso – e, a dispetto dell'aria mesta che si porta appresso e del suo fare schivo, Ricciardi è sempre stato il più coraggioso tra loro: ci vuole un coraggio insano, nell'avere fiducia cieca in ciò che dirà un'altra persona, nell'essere certi di non venirne feriti.

Bruno gli lascia una carezza su entrambe le guance e fallisce nell'intento di non sbattere le palpebre – ma sorride, in dissonanza o forse in armonia con le scie umide che gli solcano le tempie.

«Io non mi sento per niente normale, ma forse non mi è mai importato davvero di esserlo.» Una risata rotta e umida evade dal suo petto, infranta sulle labbra incurvate che sfiorano le sue. «E mi va bene così.»

Non sa se sia vera, quell'ultima parte, ma in un battito di ciglia si ritrova di nuovo avviluppato al suo corpo caldo, accogliente, e non gli importa più molto di saperlo.

Ci mettono tutta la notte per capire, daccapo e in punta di dita, come funzioni quella nuova normalità – ma è una notte ben spesa.

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
i miei Polli Partenopei Prediletti ce l'hanno fatta. A modo (Modo) loro, con fatica, con qualche stortura, ma ce l'hanno fatta. Era da tanto che volevo scrivere un Bruno emotivamente vulnerabile di fronte a Ricciardi (no, non mi è bastata la Ruota) e quindi ho colto l'occasione :D

So che magari vi aspettavate una vera e propria scena esplicita, ma per come si è evoluta la cosa negli ultimi capitoli non ritenevo realistico un rapporto completo (spoiler, non lo ritengo adatto a loro come coppia per tutta una serie di motivi) né atti troppo spinti, soprattutto da parte di Bruno che ancora sta combattendo contro i suoi mostri interiori. Però vi assicuro che si son divertiti u.u

Questo è l'ultimo capitolo e, a seguire, ci sarà solo un piccolo epilogo per mettere qualche puntino sulle i ♥

Ci vediamo tra pochissimo e mi riservo i ringraziamenti per l'epilogo ♥

-Light-

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