Capitolo 68
Era giunta oramai la sera. Tristan alzò lo sguardo e vide un cielo terso, pulito, limpido, i cui angoli erano incorniciati da flebili sfumature violacee. Al centro del grande quadro naturale, invece, c'era la luna in tutta la sua rotonda pienezza, dorata e brillante. L'alone sfumato attorno alla sfera lunare proiettava una debole luce sul terreno, dunque Tristan poté osservare come i propri piedi nudi affondassero nella melma fangosa che costeggiava la sponda di un fiume tranquillo, calmo, ma quasi complottante. Le sue acque erano gialle, putride persino, ma la sera sembrava mondarle dai peccati e dalle imperfezioni.
Tristan, vestito solamente di un lungo chitone che gli si era plasmato addosso a coprire le sue virili nudità quando era uscito dall'acqua, risalì il fiume velocemente, addentrandosi tra sterpaglie e serpeggiando cauto tra i sentieri di campagna che si aprivano tra sprazzi di boscaglia.
Sospirò, l'ansia si accumulò nelle sue vene e ostruì le porte del suo cuore: sapeva che era tanto vicino dal raggiungerla e che le possibilità di trarla in salvo e di stringerla a sé andavano aumentando ad ogni suo passo, ma temeva terribilmente di non riuscirvi.
Continuò a camminare da solo, in silenzio, per il tempo necessario a raggiungere un bivio, un incrocio, una scelta: davanti a sé, uno stretto viale dalla breccia bianca che conduceva, issandosi per un monticciolo, al paesello, a destra, invece, un sentiero che sgusciava diritto affianco ad un lungo filare di cipressi tetri ma rigogliosi. Tristan imboccò la strada dinanzi a sé e si mantenne sul ciglio sinistro, i piedi che soffrivano, incrontrando spesso piccoli sassi pungenti che gli ferivano la pelle.
Di tanto in tanto, irrompevano auto e piccoli trattori, i quali, puntando le luci dei fanali sul viale, vi si immettevano lentamente, barcollando, calpestando le brecce e fuoriuscendo sbadatamente dai margini della strada.
Più volte Tritone aveva notato i loro conducenti sporgersi dal finestrino e guardarlo con il riso sulle labbra, ghignando divertiti al suo aspetto evidentemente nuovo e assurdo ai loro occhi. Ma Tristan continuò a camminare e a risalire il pendio, i capelli oramai scomposti e le ultime gocce d'acqua sulla sua pelle asciugate dal calore estivo di giugno.
Il viola del cielo cedette il passo all'indaco, e questi si intonò meglio allo sfarfallio di luce della luna che pareva pulsare come un piccolo sole in un angolo di mondo, illuminando solamente alcuni profili, quelli di qualche fattoria di campagna, quelli di un paio di alberi, quelli del campanile del borgo arroccato sulla collina.
D'improvviso, grida, risate e vivaci schiamazzi portarono Tritone ad alzare lo sguardo: una bicicletta scendeva scheggiante e imprudente giù per il pendio, lasciando sfrigolare le brecce dell'asfalto bianco al suo passare. Alla guida azzardata vi era un giovane sorridente, seduto sul tubo superiore della bicicletta, e pedalava con tanto vigore e tanta energia che Tristan non impiegò molto per intendere come volesse conquistare i sentimenti e la risata della ragazza che correva assieme a lui, alle sue spalle, abbracciandogli la vita.
Prima che i due potessero raggiungere la strada spianata, Tritone si mosse verso destra e sbarrò loro il percorso. Il giovane alla guida della bicicletta intercettò la sua presenza, ma la velocità con cui scendeva era così elevata che gli fu impossibile controllare l'andamento dei pedali che ruotavano autonomamente, tantomeno riuscì a deviare rotta con il manubrio.
Fu quindi Tristan a distendere un braccio e a fermare la bici in corsa con un'indicibile forza, che fece sobbalzare i due ragazzi che si strinsero l'uno all'altro in un unico scudo protettivo.
Le ruote arrestarono gradualmente i loro movimenti, spegnendosi silenziosamente.
Tristan alzò lo sguardo e osservò il ragazzo. "Scendi."
La sua compagna lo trattenne per le spalle e gli sussurrò qualcosa all'orecchio che iniziò con un "andiamocene" e terminò con un "è meglio non fidarsi."
Ma Tritone fissava il ragazzo troppo intensamente, con lo sguardo infuocato e magnetico di un dio, perché la giovane vittima potesse sottrarsi all'ordine. Poco dopo, il ragazzo, come manovrato da fili invisibili, quasi fosse un fantoccio di legno, scavalcò i tubi della bicicletta e si rizzò in piedi.
"Ora spogliati. Dammi la tua maglietta, i tuoi pantaloni e le tue..." Tristan guardò cosa avesse il giovane ai piedi: era un tipo di calzatura che aveva certamente già visto in passato, ma non ne ricordava il nome, tanto la trovava insignificante. Oppresse i suoi pensieri per ricordare: "le tue... infradito."
"Ma rimarrò in mutande." La voce del ragazzo era ipnotizzata, meccanica.
"Non importa: è estate, non avrai freddo."
Fu la ragazza ad intervenire con voce squillante: "Chi sei? Come ti permetti di..."
Quando Tritone volse l'attenzione su di lei e, soprattutto, puntò il proprio sguardo sui suoi occhi, anche lei cadde vittima di quel circolo ipnotico. "Scendi anche tu e spogliati. Sfilati l'abito e dammelo. Sfilati le..." Tristan era ancora in difficoltà, "le... ballerine e fai la stessa cosa."
La ragazza, però, parve indugiare un attimo. Sapeva che quello sguardo ghiaccio la stava manovrando con coercizione, sapeva che c'era un modo per sottrarsi a quel magnetismo, ne era certa, ma sapeva anche che non era abbastanza forse per liberarsi: era inevitabilmente soggiogata. Dunque, imitò il compagno: obbedì e porse i suoi indumenti a Tristan. Il ragazzo fece lo stesso, e i due compagni rimasero in intimo, lei stringendosi nelle spalle e incrociando timidamente le gambe, lui guardandosi confusamente attorno.
"Ora potete andare. Portate via la vostra bici." Il tono di Tristan non ammetteva repliche. Poco dopo, i due sconosciuti procedettero lentamente per la loro strada.
Rimasto solo, Tristan si sfilò il lungo chitone e della magnifica visione del suo petto solido e bronzeo fu testimone la luna. Indossò la maglia datagli dal giovane e, benché la trovasse abbastanza attillata per le sue forme delineate e ricurve, decise di infilare anche i pantaloni, che gli caddero comodi e larghi sul bacino.
Ora avrebbe potuto confodersi tra la folla.
Mentre alzava lo sguardo verso la cittadina sul colle, pronto a raggiungerla, ripiegò l'abito della giovane e lo sorresse sotto braccio: quello era per lei.
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Treia, Marche, Italia.
Nell'aria si snodavano come serpenti zufolate di vento che puzzavano di vino e di sigaro.
L'orologio sulla cima del campanile che svettava alto sopra il complesso di abitazioni segnava le dieci e un quarto della sera. Tristan infilò una mano nella tasca dei pantaloni e guardò i ciottoli che i suoi piedi calpestavano, mentre camminava attraverso piccole viuzze dissestate, vivacizzate nei suoni solamente dal blaterare di vecchi signori seduti fuori di alcune osterie, alcuni brandendo un calice di birra, altri schiacciando su un tavolino carte da gioco mentre stringevano tra i denti mozzi di sigari spenti da tempo. Capitava che alcuni giocatori -forti della vincita- alzassero il tono, e che altri replicassero con insulti strigliati tra i denti, e che altri, ancora, borbottassero confusamente parole che Tristan non riuscì a tradurre. Erano trascorsi molti anni dal suo ultimo viaggio in Italia, durante la Seconda Guerra Mondiale, dove aveva avuto modo di visitare Milano, Parma e Pisa, città di cui aveva apprezzato la lingua e l'accento fluido ed elegante. Dove si trovava ora, invece, le persone mozzavano le parole, ingoiavano suoni, confondevano lettere e storpiavano il tono della voce in una parlantina veloce ma greve.
Proseguì diritto per qualche passo, calpestando sveltamente l'acciottolato, considerando cosa lo aveva spinto lì: l'amore incondizionato per quella donna. In tutti gli scritti e in tutte le opere cantate, antiche e moderne, i riferimenti all'Ade, terra dei defunti, potevano godere o meno di un'ambientazione spaziale ben precisa. Quello che era certo, però, era che nessun essere umano aveva mai ipotizzato che la casa dei morti fosse lì, in un borgo sconosciuto, dimenticato, pietrificato dal gelo delle alture in inverno e afoso dal soffio caldo del vento in estate. E neppure nessun uomo con cui spesso Tristan, nella sua camminata veloce, si scontrava con vigorose spallate distratte, sembrava sapere che lì, probabilmente anche sotto il suolo che stava calpestando, si nascondeva l'enigma e al contempo il luogo più oscuro, tenebroso, irraggiungibile e fascinoso dell'intera letteratura: l'Ade.
La luna sembrò cambiare postazione più volte nella volta celeste, quasi volesse seguire gli spostamenti di Tritone, che ora riusciva ad avvistare qualche sprazzo di luce sui mattoni dell'asfalto. Il viale si allargò e sulla sponda destra comparvero alcuni tendoni, tutti disposti l'uno al fianco dell'altro, da bancarelle di antiquariato a venditori ambulanti di elettrodomestici, da bancarelle di bigiotteria orientale -di gran lunga le più affollate- a mercati di rivendita di cappelli usati. Non era certamente semplice uscire da quell'accozzaglia di curiosi che si affollavano tutt'intorno ai tendoni, spesso famiglie numerose, con madri che tenevano due o più bambini per mano, allungando i colli incipriati, con padri e mariti sbuffanti e contrariati.
Tristan si destreggiò attraverso un gruppo di musicisti di strada -chi reggeva una chitarra, chi imbracciava un sassofono- che percorrevano il lungo viale ottenendo il consenso e l'ammirazione dei passanti che commentavano il loro strano modo di alzare il cappello che calcavano sul capo per ringraziare.
Tuttavia, in mezzo a quegli schiamazzi, a quelle grida e alle offerte dei venditori ambulanti urlate all'aria fino a raggiungere echi roboanti, c'era anche il buio: in piccoli angoli della strada o seduti su gradini di scale di porte amiche, protetti da vecchi scatoloni ammuffiti ma con il gelo dentro, in fondo al cuore, se ne stavano accovacciati alcuni mendicanti, che non avevano più neppure la forza per distendere le braccia scarne e racchiudere le mani a coppa in richiesta. Tristan notò i loro visi emaciati, la barba incolta da giorni, le guance private, le labbra graffiati e gli occhi spenti, che restavano aperti più per abitudine che per necessità. Sembravano aspettare che la morte passasse a portarli via con sé. A quel punto, Tristan pensò a come si differenziasse il concetto di morte tra le diverse culture, tra i diversi individui: c'era chi l'attendeva a braccia aperte e chi preferiva negarne l'esistenza.
Ma c'era la luna quella notte e Tristan la guardò. Decise di sperare anche lui un po': spero che la morte non privasse Dianna della vita. La voleva ancora con gli stessi capelli, con gli stessi occhi per guardarlo, con la stessa voce per incantarlo, con le stesse labbra per baciarlo, con le stesse braccia per stringerlo.
Ben presto, tutta quella miscela di suoni confusi, fastidiosi ed indistinti calò in sottofondo, e Tristan si ritrovò catapultato in una grande piazza circolare, dove, come adibiti a recinzioni, lunghi portici di alti, svettanti e possenti palazzi monumentali si avvolgevavno tutt'intorno. Tristan girò su se stesso, non certamente per ammirare ciò da cui era circondato -in quanto la sua mente non era predisposta a ciò- ma per il forte senso di dispersione che ora gravava su di lui.
Dinanzi a sé, una combriccola di bambini era radunata attorno ad una piccola fontana, e in particolar modo gli saltò all'attenzione uno dei fanciulli: in piedi su un gradino del basamento, teneva disteso il braccio a raccogliere sulle dita le gocce d'acqua che stillavano armoniose, per poi ritirare la mano e guardare con curiosa ammirazione l'acqua che scendeva sino al suo gomito.
Tristan camminò verso di lui.
Dentro una grotta scavata nella roccia, sotto la strada meno affollata di tutte, dove il sole tramonta ma non sorge. Lì la troverai.
Non seppe da quanto tempo stesse ripetendo quelle parole nella mente, ma sapeva che oramai si erano tramutate in un mantra. E le ripeté, ancora, ancora e ancora.
Sotto la strada meno affollata di tutte.
Prima che la sua mente potesse sgomberarsi dai pensieri, Tristan aveva già appoggiato una mano su una spalla del bambino, e il suo cuore quasi perse un battito quando notò tra i suoi capelli, sotto la luce della luna, delle sfumature rossastre, infuocate. Era strano il suo modo di vederla in ogni dove.
Il bambino, in tutta risposta, con un tono infantile di chi ancora trova difficoltà nel compitare le parole, mormorò: "Chi sei?"
Ma Tristan elargì la domanda. "Sei della zona?"
Inclinando il capo sulla spalla sinistra, il piccolo mostrò di non aver capito, aggrottando le sopracciglia cespugliose sulla fronte.
Tristan attribuì ciò al suo, probabilmente, inesperto e rauco accento italiano, e si adoperò per riformulare la domanda. "Abiti qui?"
"Sì," rispose il bambino e si mosse di un passo verso destra, indicando una casa alle spalle di Tristan. "Guarda. Sto lì."
Sotto la strada meno affollata di tutte.
Alzando lo sguardo, senza mai sbattere ciglio, come se l'attesa snervante gli consumasse gli occhi, Tritone chiese respirando adagio. "C'è un luogo che ti spaventa in questo paese? C'è un luogo in cui non andresti mai?"
Dapprima, il bambino sbarrò gli occhi e anche nella sua ingenuità comprese come quella domanda avesse poco a che fare con l'ordinario, ma poi socchiuse gli occhi in concentrazione, tese le labbra in una linea sottile e poi le arricciò un poco alzandone un angolo. "Non lo so..." Posò una mano sul mento. "Anzi, sì. Non andrei mai nella strada dei caduti. La mamma non me ce manda, dice che è pericoloso, perché la strada è stretta e oltretutto non c'ha 'na ringhiera. In paese dicimo che, in passato, molte persone ce so' andate, so' scivolate e so' cadute de sotto, dove un mostro, uscendo da 'na grotta, li ha magnati."
Tristan sentì le proprie tempie rabbrividire. "Una...", deglutì, "grotta?"
Il bambino assentì vigorosamente.
"E dov'è?"
"Perché? Ce voi anda'? Ma poi se mori danno la colpa a me che te c'ho mandato."
In altre circostanze, Tristan avrebbe sorriso, ma ora si limitò ad incalzare. "Dov'è?"
"Guarda. Vedi quella scalinata laggiù? Devi salirci. Poi devi scende'. E dietro la scalinata non c'è quasi nulla, solo qualche casa vecchia vecchia. Poi c'è la campagna."
Dopo aver mormorato un ringraziamento distratto, Tristan, che era rimasto accosciato per tutto il tempo davanti al bambino, si alzò di slancio facendo leva sulle gambe forti e sotto i suoi polpacci, ricoperti da una sottile peluria bionda, i muscoli sembrarono scattare in un perfetto sincronismo tra velocità e robustezza.
Prima di iniziare a correre, un'improvvisa folata di vento lo indusse a girare il capo e a lanciare un'occhiata alle sue spalle: il vecchio campanile di una chiesa segnava le undici della sera.
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Raggiunse la scalinata in breve tempo, perché la velocità con la quale mosse le gambe in corsa non si poté misurare in secondi: semplicemente cavalcava, quasi anche quella fosse una guerra, e non era raro che incespicasse ansimante e urtasse le spalle di qualche onesto e laborioso contadino che ritornava dal proprio campo con una cesta ricolma di ortaggi stretta tra le mani.
L'aria oramai rinfrescata della sera gli veniva spruzzata addosso, dunque Tristan avvertì le proprie guance intorpidirsi, ma il sangue in circolo nel suo corpo era ancora bollente quando galoppò sui gradini e ne scese in tutta fretta. Ora si fermò per un istante, affannoso. Si guardò attorno: notò solamente un povero complesso di case disabitate, dai muri antichi e trascurati, sui quali capitava di osservare qualche ciuffo di erbaccia sbucare timidamente. Le vecchie porte d'entrata erano barricate da alcuni stralci di legna incrociati, mentre i comignoli, ingrigiti dal tempo, lasciavano colare ancora sulla loro superficie una pozzanghera di fumo nero.
Tristan svoltò a destra, dove la stradicciola ora diveniva solitaria e dove il lastricato dissestato e polveroso si sbriciolava sotto le suole. Era uno stretto vicolo al limitare orientale del borgo, privo sui lati di barriere, ringhiere, cementificazioni o mura, pertanto era possibile sporgersi oltre per perdersi nell'immensità terrificante del vuoto ingarbugliato che sdraiava placido al di sotto. Lasciando correre lo sguardo, invece, si ammiravano le colline che brillavano di un'opacità spettrale durante la notte, per poi dispiegarsi in pianure verdeggianti e coltivate.
La vita cittadina, oramai dormiente, sfumava lontana, alle sue spalle, dimenticata.
Perché lì, in quella stradicciola misteriosamente maledetta, nessuna fonte di luce avrebbe potuto rischiarare quel buio gravante, pertanto Tristan si dovette mantenere al fianco di una grande casa, una baracca deserta. Proseguì alla cieca per qualche passo, ma se da un lato voleva mantenere una certa cautela tenendosi lontano dal margine della strada, dall'altro i suoi passi veloci non erano sinonimo di prudenza, quindi inciampò ben presto su un ciottolo e, inevitabilmente, cadde. Il movimento fu talmente brusco e veloce, che Tristan non riuscì neppure ad avvertire la pesantezza dell'aria, quando venne catapultato al di fuori del viottolo, cadendo vergognosamente nel nulla. E ciò lo comprese solamente quando si ritrovò dolorante, graffiato e con le ossa pulsanti, accasciato su un terreno umidiccio, su fanghiglia sporca e impregnata di acqua piovana, con le gambe intrecciate ai rami spinosi di un paio di cespugli. Tristan imprecò e allargò i palmi per fare leva sulle mani e sollevarsi, ma non vi riuscì se non dopo innumerevoli tentativi. Gemette contrariato e si alzò, per poi piegarsi sulle ginocchia e togliere con veloci colpi della mano le incrostazioni sui pantaloni. Le suole delle ciabatte che calzava, fradicie e infangate, erano oramai spezzate, dunque Tristan agitò i piedi per sfilarle e rimase scalzo, percependo sotto la pelle le venature fragili delle foglie secche che calpestava. Si mosse in avanti e abituò lo sguardo a quell'oscurità. Allungò il collo, socchiuse gli occhi e si concentrò, per poi distinguere i contorni ricurvi di una grande caverna leggermente battuta dalla luce pallida della luna.
Dentro una grotta scavata nella roccia, sotto la strada meno affollata di tutte, dove il sole tramonta ma non sorge. Lì la troverai.
L'entrata era rabbuiata, come se chi vi entrasse non potesse più uscirvi. Ne sopraggiungevano lontani i lamenti di uomini, di anime peccatrici, urla e grida infestate nel tono di un dolore incommensurabile.
Un altro grido. Vicino. Poi uno più lontano. E poi ancora più vicino.
Tristan incassò il respiro nel petto e si spinse all'interno della grotta: l'Ade puzzava di tossico. Mano a mano che avanzava, una nebbia densa lo investiva sempre più prepotentemente, bruciandogli gli occhi e soffiandogli sulle palpebre. Persino dalle pareti di pietra si levavano rivoli di fumo argentato, che, quando s'inacidiva fino a far inasprire il volto di chi lo inalava, assumeva un colorito giallognolo.
Dopodiché, la coltre di buio si dissolse, e una tenue luce rossa comparve in un angolo: l'andito venne rischiarato e Tristan sobbalzò, data la visione ripugnante di decine -se non centinaia- di pipistrelli appesi alle pareti, racchiusi in un bocciolo ricoperto da uno strato di saliva che appiccicava loro le ali.
D'improvviso, un clangore acuto attirò la sua attenzione: era uno sbattere ripetuto contro una superficie metallica.
Il tutto, poi, fu seguito da un urlo insostenibile, lungo, doloroso, prolungato.
E femminile.
Tristan scattò in avanti e i suoi piedi nudi incontrarono pietre bollenti quando si precipitò in un grande semiciclo avvolto da un'aurea fredda, in penombra. In un angolo, gli sembrò di notare una cella, ma prima di soffermare lo sguardo su di essa, gli saltarono all'occhio tre figure che vi sostavano dinanzi: due di queste gli erano familiari.
Ora, spavaldo e temerario, drizzò la schiena e anche nei suoi semplici costumi, la sua voce sembrò terrificante quando disse: "Vi sono mancato?"
Eryx e Ippotoo si voltarono.
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Tristan passione facciospogliaregliadolescentiperchéhobisognodiabiti ahahahaha. Vi è piaciuta quella scena?
Nello scorso capitolo ho letto nei commenti che pensavate che l'Ade fosse al Massbury Institute. No, no! È proprio in Italia, a Treia, nelle Marche. Ho scelto quella località perché la sento vicina a me e perché volevo scrivere qualcosa di diverso. Avrei potuto trarre ispirazione dall'Eneide o da altri racconti, ma volevo mettere in moto la mia fantasia. Inoltre sono patriota e viva l'Italia!
Mi sono concentrata un po' sulla descrizione di Treia, volevo fosse chiara l'ambientazione spaziale.
Tristan che chiede una sorta di informazioni stradali ad un bambino ahahahah. Inizialmente avevo scritto le parole del bambino in italiano, poi ho scelto il dialetto, per renderlo un po' più verosimile e per spiegare il fatto che Tristan sentiva gli uomini del posto che mozzavano le parole.
E alla fine... trova l'Ade! Però dobbiamo ammettere che è intelligente, ha fatto le domande giuste al bimbo per trovarlo!
E chi ritrova...? Eryx e Ippotoo. CHE GUERRA SIAAAAAAA!
Secondo voi, cosa accadrà? Che ne pensate dell'ambientazione? Per anticipi e altro, passate dalla mia pagina Facebook "Alexandra-writes on Wattpad". Votate e commentate! Grazie mille!
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