𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 12 (Nicholas)

"𝔙𝔬𝔩𝔢𝔳𝔞𝔪𝔬 𝔢𝔰𝔰𝔢𝔯𝔢 𝔟𝔲𝔬𝔫𝔦,
𝔫𝔬𝔫 𝔱𝔢 𝔩𝔬 𝔯𝔦𝔠𝔬𝔯𝔡𝔦?"

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Avevo cinque anni ed ero in braccio a Lucius.

La stanchezza mi avvolgeva come una cappa, tanto che faticavo a tenere le palpebre sollevate. Mi sentivo le ossa fragili, quasi di vetro, e i muscoli intorpiditi erano ancora scossi dai crampi.

Ogni tanto mi umettavo con la lingua le labbra, che erano screpolate e doloranti a causa dei morsi che mi davo quando ero in preda alle convulsioni. Per il resto me ne stavo immobile, con la testa posata sulla spalla dell'uomo, ignorando le stilettate che mi trafiggevano il petto a ogni respiro.

Dopo un'intera giornata trascorsa a fare una serie interminabile di test, il mio corpo era talmente stremato da rallentare il processo di guarigione, ma sapevo che all'indomani sarei stato bene.

Sì, mi sarei ripreso, come sempre... e allora mi avrebbero sottoposto ad altri esami, altri macchinari, altre cose brutte. Come sempre.

«Ti hanno fatto tanto male oggi, Zero?» mi chiese Lucius premuroso.

Trovai chissà dove la forza di annuire. «Però non ho pianto. Neanche una volta». Ci tenevo a specificarlo, volevo che fosse orgoglioso di me.

«Sul serio? Che bravo! Sei proprio un bimbo coraggioso».

Il mio cuore si gonfiò a quelle parole e all'improvviso ebbi la sensazione che tutto attorno a me avesse ripreso un po' di colore. Mi piaceva renderlo fiero. Forse perché era l'unico dei grandi che mi volesse davvero bene in quel posto orribile, e ne voleva anche ai miei fratelli. Mamma e papà erano cattivi, ma lui no.

Lui si prendeva cura di noi.

«Voglio mostrarti una cosa, ti va?»

Non ne avevo molta voglia. Ero esausto e volevo soltanto andare a dormire nel mio letto, protetto tra le mura della cella. Tuttavia non sopportavo l'idea di deluderlo, quindi sussurrai un esile "Okay".

Lucius sorrise, dandomi un bacio sulla fronte, e deviò nella direzione opposta a quella che conduceva all'ascensore. Le guardie che ci scortavano lo guardarono male, non particolarmente entusiaste di dover allungare il loro turno, ma le congedò con un gesto della mano. «Potete andare. Lo riporto io fra poco».

Pur sbuffando, entrambe se ne andarono senza farselo ripetere.

«Il personale qui diventa sempre più antipatico, o è una mia impressione?» commentò Lucius, strappandomi una risatina che mi provocò una fitta alle costole.

«Cinque li chiama "Musoni"».

«Lo so, e lo sanno anche loro. Non mi sorprende che finisca di continuo in punizione».

Intanto che procedevamo lungo il corridoio deserto, la sua mano scivolò giù per la mia schiena e si infilò sotto la mia maglietta. Mi irrigidii, accoccolandomi meglio contro il suo torace. I suoi polpastrelli, freddi e ruvidi, mi fecero rabbrividire mentre mi accarezzavano la pelle nuda in corrispondenza della colonna vertebrale.

Lucius mi aveva spiegato che quello era uno dei modi in cui gli adulti dimostravano affetto, eppure facevo ancora fatica ad abituarmi.

Ma dopotutto, cosa potevo saperne io? Non lo avevo mai ricevuto da nessuno...

Uscimmo in terrazzo e non potei fare a meno di rimanere a bocca aperta. Sopra di noi c'era una bellissima distesa d'inchiostro trapunta da tante lucine argentee che sembravano ammiccare. Nuvolette eteree simili a batuffoli di cotone aleggiavano attorno a un disco rotondo e dorato, che ero abbastanza certo che si chiamasse luna.

Non avevo mai visto uno spettacolo del genere. Né a me né ai miei fratelli era consentito uscire liberamente dal laboratorio, e comunque non a quell'ora. Non ricordavo con chiarezza nemmeno quando fosse stata l'ultima volta che avevo visto il cielo, se non attraverso un vetro.

«Quelle sono le stelle» spiegò Lucius, indicando in alto con un dito.

Provai ad allungare una manina per afferrarle, ma il braccio mi ricadde pesante lungo il fianco. «Sono così belle» sibilai incantato.

«Anche tu lo sei. Bellissimo». Mi scansò una ciocca bionda con un gesto affettuoso. «Come la tua mamma».

Rimasi in silenzio, incerto su cosa rispondere. Alla fine Lucius si sedette su una panchina sotto a una sorta di ombrello e mi caricò sulle sue ginocchia, avvolgendomi in una stretta piuttosto forte.

«Il mondo è grande come il cielo?» domandai affascinato.

«Oh sì. È enorme» ridacchiò Lucius. Mi soffiò un bacio sulla guancia. «Prima o poi lo visiteremo insieme, promesso».

Mi accigliai. «La mamma dice che non possiamo stare con gli umani. Che siamo troppo pericolosi».

«Le voglio tanto bene, alla tua mamma, ma non credo che si accorga di quanto siete speciali» replicò in tono amaro.

«Anch'io?» Ero scettico. Non mi sentivo affatto in quel modo; difettoso, sbagliato, rotto... ma speciale proprio no.

«Tu sei il più speciale di tutti».

Mi accarezzò i capelli, poi ne agguantò un ciuffo e mi piegò la testa di lato, cosicché potesse strofinare le labbra sulle mie con fare scherzoso. Avrei preferito che non lo facesse, mi turbava ogni volta, ma non avevo il coraggio di chiedergli di smettere. Odiavo offenderlo... e poi era solo un gioco.

«Quando sarai grande, Zero, avrai un potere incredibile. Un potere che adesso neanche immagini. Potrai avere qualsiasi cosa desideri».

Non riuscii a trattenermi. «Anche un gelato? Non ne ho mai mangiato uno».

Lucius sorrise, mollando la presa sui miei capelli. «Sì, piccolo. Anche un gelato».

Mi accorsi che la sua mano destra stava giocherellando con la fascia elastica dei miei pantaloni, ma ero troppo sfinito per preoccuparmene. E poi non avevo nulla di cui aver paura. Ero al sicuro con lui.

«Conosci gli scacchi, Zero?»

Dopo un attimo di disorientamento, scossi il capo. Sollevai il mento per guardarlo e incrociai i suoi occhi scuri, accesi dallo scintillio della notte. Sul suo volto abbronzato, il sorriso gentile si allargò.

«È un gioco di strategia. Il trucco è anticipare le mosse dell'avversario per riuscire a mettere il "re" sotto scacco. Tutto sta nell'usare questo». Mi premette l'indice sulla tempia. «Io ne ho inventata una mia versione un po' speciale. Ti piacerebbe che te la insegnassi?»

«Possono giocare anche i miei fratelli?»

La sua espressione si indurì. «No, a scacchi si gioca in due. È una regola, e le regole si devono rispettare». La sua mano si introdusse sotto i miei pantaloni, facendomi trasalire. Prese a cullarmi lentamente nel suo abbraccio, che ormai era divenuto quasi possessivo. «Solo io e te».

Rabbrividii mentre Lucius scendeva a toccarmi tra le gambe, costringendomi con dolcezza ad allargarle. Lo stomaco mi si rovesciò e dovetti respingere un conato. Acqua gelida mi scorreva nelle vene al posto del sangue.

Cercai di ripetermi che andava tutto bene, che dovevo fidarmi, che non mi avrebbe mai fatto del male... ma allora perché stavo tremando? Se era una cosa bella, per quale motivo non volevo altro che smettesse?

Lucius si chinò e premette di nuovo la bocca sulla mia guancia, poi la accostò al mio orecchio e bisbigliò, come per confidarmi un segreto: «Adorerai giocare con me, Zero».

Mi svegliai di colpo, ritrovandomi immobile a fissare il soffitto.

Ero madido di sudore, con la coperta avviluppata al busto e il respiro affannoso. Nel sonno avevo conficcato gli artigli nel tessuto del divano, che adesso presentava dieci fori profondi.

Il silenzio mi fischiava nelle orecchie, atroce e insopportabile, spezzato soltanto dal frenetico battito del mio cuore.

Avvertii qualcosa di duro sotto la mia schiena e, quando lo tolsi, scoprii che era il telecomando. Quando ero da solo, dormivo sempre con la tv accesa o anche una radio, qualsiasi cosa che facesse abbastanza rumore da scacciare gli incubi.

Quella volta non faceva eccezione, ma rigirandomi dovevo aver schiacciato il tasto di spegnimento; così i ricordi ne avevano approfittato per assalirmi, come belve su una preda troppo debole per difendersi.

Sospirando, scagliai via il telecomando e mi misi a sedere. Ero nervoso, infuriato con me stesso, con quel bambino idiota che si era lasciato abbindolare dalla promessa di essere amato.

E lo ero stato davvero, fin troppo, anche se non nel modo in cui speravo. Ma forse i mostri, coloro che nascevano con il male nel sangue, non potevano chiedere di meglio.

Mi alzai, lanciando un'occhiata al plaid da cui mi ero appena districato. Ero certo di non averlo preso, perciò dedussi che fosse stato Seth a coprirmi. Non comprendevo perché continuasse ad avere quelle premure nei miei confronti, pur sapendo benissimo che era raro che patissi il freddo.

Nonostante tutto, però, non potevo dire che mi dispiacesse.

Mi strappai via la maglietta fradicia con cui avevo dormito, dato che la felpa era zuppa di sangue, e mi diressi verso il bagno.

L'attico di Seth sarebbe stato piuttosto elegante, con la delicata combinazione cromatica di blu chiaro e grigio degli arredi e le grandi finestre panoramiche affacciate su un vasto piano aperto che offriva uno squisito panorama su Las Vegas, oltre a una confortevole piscina idromassaggio.

Peccato che fosse così incasinato che avrebbe fatto prendere un infarto al mio fratellone.

Le pareti erano tappezzate di poster, da una parte era allineata una fila di slot-machine, nell'angolo c'era un tavolo da blackjack, il pavimento era disseminato di macchinine radiocomandate e i ripiani erano affollati da pupazzi Funko Pop e svariate costruzioni Lego. In pratica, era una sala giochi.

Accostai la porta, mi spogliai e cominciai a fare la doccia. L'acqua era bollente, tanto che in breve il vetro si era già completamente appannato, ma non ci badai granché. Speravo che il calore riuscisse a bruciare anche i ricordi, a purificare tutto il marcio che mi portavo dentro e a incenerire gli spettri delle mani che mi avevano toccato senza il mio consenso.

Dopo essermi asciugato, mi avvolsi un asciugamano attorno ai fianchi e uscii dal bagno. Seth era seduto al tavolo della cucina ed era intento a fare colazione con un bignè alla crema, assorto nella lettura di un giornalino.

Non ne fui sorpreso; lo avevo udito rientrare mentre mi stavo lavando e avevo già anche fiutato nell'aria uno dei pochi profumi che stuzzicava il mio appetito persino di più di quanto succedeva con gli esseri umani.

«Ehi, dormiglione! Ti ho pre...» Quando posò lo sguardo su di me, a Seth andò di traverso il boccone e iniziò a tossire, picchiettandosi un pugno sul petto.

«Buongiorno anche a te» borbottai, scostando la scatola aperta dei donuts. Erano i miei preferiti, quelli con la glassa cosparsa di praline. Io adoravo le praline. «Potresti non sputare sulle mie ciambelle?»

Finalmente Seth riuscì a deglutire. I suoi occhi neri non cessarono di esplorare il mio fisico, indugiando sulle goccioline che qua e là mi punteggiavano ancora la pelle.

Lo guardai a mia volta. Aveva il solito aspetto sbarazzino che gli apparteneva: la camicia dal colletto aperto e i lembi sporgenti, la cravatta allentata, i riccioli indomabili sulla fronte, il viso segnato da lividi e graffi...

«Alla luce degli ultimi eventi, non dovresti andare in giro senza di me. Non è sicuro». Afferrai un donut alla fragola e ne strappai via metà con un morso. «Se dovessero catturarti di nuovo, sappi che stavolta me ne frego».

«Sì sì, certo» mugolò lui imbambolato.

Non mi sarei stupito se, da un momento all'altro, dalla sua bocca contornata di zucchero a velo fosse colata della bava.

Mi strinsi nelle spalle. «Comunque hai un ragno enorme sullo schienale».

Seth impiegò un istante per metabolizzare le mie parole, poi balzò dalla sedia come una molla e la ribaltò con un calcio. Dunque iniziò a urlare in un tono isterico degno di Gabe, la scarpa sollevata a mezz'aria: «Dove? Dov'è?»

Scoppiai a ridere e divorai soddisfatto il resto del donut. «Meglio che vada a vestirmi. Ti rincretinisci quando non ho niente addosso».

Ammiccai in risposta all'occhiataccia con cui mi fulminò, raccolsi i miei pantaloni e salii a due a due i gradini dello scalone che conduceva al soppalco. Il letto era stato rifatto alla meno peggio, a giudicare dalle lenzuola piene di grinze e dal cuscino storto.

La nostalgia mi serrò la gola nel ripensare alle notti che io e Seth avevamo trascorso insieme; in passato lo facevamo spesso, sapeva che mi rilassava averlo accanto e così me lo permetteva, ma dal mio arrivo a Las Vegas non me lo aveva mai proposto.

Ovviamente avrei rifiutato, dopotutto ero ancora arrabbiato per i mesi che aveva passato a ignorarmi... però poteva chiedermelo.

Frugai nell'armadio e, barcamenando in mezzo a un caos di capi d'abbigliamento di dubbio gusto, trovai un maglione nero che mi calzava a pennello malgrado Seth fosse più robusto rispetto a me.

Tornato in soggiorno, spalancai le braccia con un sorrisetto. «Come va con gli ormoni ora?»

Seth mi fissò imbronciato. «A quanto hai detto che ammonta la tua taglia? Potrei decidere di venderti».

Arraffai l'intera scatola di ciambelle, mi gettai sul divano e ripresi a mangiare. «Non ti conviene. La tua vita è una noia mortale senza di me» sogghignai.

«Hai ragione. Non ti scambierei per nulla al mondo».

Inarcai un sopracciglio. «Entrate gratuite infinite in qualsiasi casinò?»

Finse di rifletterci. «Va bene. Quasi nulla» si corresse. «Ma dovrebbero farmi un'offerta stratosferica. Callum lo baratterei anche per un calzino».

Sorrisi divertito. Anche se non capivo fino in fondo la ragione per cui quei due non si sopportassero, i loro battibecchi erano esilaranti; io e Joel una volta eravamo rimasti per mezz'ora a osservarli pungolarsi a vicenda, sgranocchiando delle patatine, finché non era intervenuta Kath per sedare gli animi.

Mi leccai la punta delle dita sporche di cioccolato, presi il telefono dal tavolino e illuminai lo schermo. Cliccai sulla notifica da parte del "Rompiballe", come avevo salvato Callum in rubrica, e lessi le poche righe che aveva scritto.

"Torna qui. Porta Seth, incazzati con me se vuoi, ma torna a casa. È importante. So che sei in grado di cavartela da solo... ma non significa che devi"

Che piaga.

«Mi dispiace rovinarti lo sballo, ma dobbiamo andarcene. Il mio fratellone che adori tanto mi ha appena mandato un messaggio strappalacrime».

Infilai il cellulare in tasca e mi allungai per arrivare al telecomando che avevo scagliato sul pavimento. Accesi la televisione, cominciando a cambiare canale in modo da evitare di guardarlo mentre aggiungevo con indifferenza: «Se vuoi venire, ovvio. Sarebbe divertente, ma non ho intenzione di trascinarti urlante per tutti gli Stati Uniti».

Sulle prime non ottenni nessuna risposta. Scoraggiato, mi afflosciai sul divano e mi sforzai di concentrarmi sul cartone animato che mi pareva si intitolasse Alla ricerca di Nemo.

Mi domandai quanto bisognasse essere stupidi per rischiare di farsi ammazzare e sopportare un viaggio in compagnia di un pesce logorroico, pur di andare a cercare il proprio figlio. Io sarei stato contento di averlo perso, al suo posto.

Se la mia natura aveva un vantaggio del quale ero grato, era proprio quello di non poter procreare. O meglio, le probabilità erano così infinitesimali da essere ridicole.

Seth si sedette vicino a me, fissandomi. «Davvero vorresti che venissi a Notturn Hall?»

Poiché non avevo filtri tra bocca e cervello, diedi voce al mio primo pensiero. «Ma sei scemo?»

Lo sbirciai con la coda dell'occhio. Sulla faccia aveva un'espressione abbastanza disorientata. «Non mi risulta che sia stato io a piantarti in asso, senza scomodarmi neanche a fare una chiamata».

Le sue labbra si incresparono, e il mio cuore ebbe un tuffo alla vista della fossetta nell'angolo. «Sei carino quando fai il rancoroso».

«Questo spiega perché sono terribilmente irresistibile in ogni momento». Feci spallucce, ma poi mi resi conto di un dettaglio. Aggrottai la fronte, girando la testa verso di lui. «Aspetta. Come sai che siamo tornati a a Notturn Hall?»

«Me l'hai detto tu» replicò Seth, dopo essere rimasto spiazzato per un attimo.

Ero convinto che sarebbe stato il peggior giocatore di poker mai esistito nella storia, se soltanto la sorte non gli avesse concesso un innato talento nell'imbrogliare contando le carte.

«Non è vero. Io ho solo detto che abbiamo lasciato New York».

«A proposito, come mai? Pensavo che adoraste la Grande Mela. E Sky come ha fatto con il suo fidanzato... Scott, giusto?» Seth scosse il capo. «Le relazioni a distanza sono sempre un disastro».

Roteai gli occhi. «Si sono mollati e lei mi tiene il muso da allora perché dà la colpa a me».

«Che hai fatto?»

Mi sforzai di nascondere la mia indignazione. Perché per tutti dovevo per forza essere io il colpevole?

«Non ha importanza». Liquidai l'argomento con un gesto pigro della mano. «E adesso smettila di sviare la conversazione».

Seth sospirò rassegnato. «Okay, ma non ti arrabbiare». Ridusse la distanza tra noi di una manciata di centimetri, distendendo il braccio sullo schienale del divano. «Potrei essere rimasto in contatto con tua sorella in questi mesi. Giusto per accertarmi che tu stessi bene».

Cose da fare al mio ritorno: uccidere Kathlyn.

No, non ne ero capace. Magari potevo rasarla a zero mentre dormiva, per una ragazza era anche più crudele.

«Oh, fantastico» commentai sarcastico, tenendo lo sguardo incollato sullo schermo. La sua vicinanza però rendeva il mio tono meno saldo di quanto avrei voluto. «Non potevi semplicemente, che ne so, chiedere a me

«Cosa avresti risposto?»

«Che stavo alla grande e che non sei il centro del mio universo».

«Ed ecco perché mi sono rivolto a tua sorella».

Stavo per ribattere, ma mi distrassi quando Seth prese a giocherellare con una ciocca dei miei capelli. In un battito di ciglio, qualsiasi pensiero si dissolse dalla mia mente. Mi crogiolai nelle sue carezze soffici, le palpebre socchiuse.

Probabilmente non mi sarei mai abituato a essere toccato con tanta delicatezza, come se avesse paura di farmi male.

Di solito la dolcezza mi dava la nausea. Amavo il sesso, la sintonia che l'amplesso creava, la sensazione di libertà nell'abbandonarmi alla lussuria... ma di certo non ero interessato alle smancerie sentimentali.

Eppure con Seth era diverso.

Le sue coccole avevano l'effetto di una dipendenza: più me ne dava, più ne volevo. Era un bisogno quasi doloroso. Forse il motivo era legato al fatto che era stato lui a insegnarmi che ricevere affetto, in qualsiasi sua forma, poteva anche essere un'esperienza piacevole.

Alla fine mandai tutto al diavolo e mi rannicchiai contro il suo petto. «Ho fatto qualcosa di sbagliato? Per questo te ne sei andato?» sussurrai a testa china.

Colto alla sprovvista, Seth smise di accarezzarmi con mio disappunto. «Che? No, certo che no. È solo che...» Esitò per un attimo. Sentii il suo battito cardiaco che accelerava sempre di più. «Credevo che volessi stare un po' con la tua famiglia senza avermi tra i piedi. Siete stati lontani per sei anni, ma adesso li hai ritrovati. Missione compiuta. Non hai più bisogno di me».

Incatenai gli occhi ai suoi, inarcando un sopracciglio. «Che ragionamento idiota sarebbe?» obiettai corrucciato. «Sei entrato nella mia vita perché avevo bisogno di te, ma ci sei rimasto perché lo voglio. Anche se non la considererei esattamente una fortuna».

Seth sfoderò un sorriso radioso. Mi circondò con le braccia, attento a non sfiorarmi la schiena. Lasciai docilmente che modellasse il mio corpo sopra il suo fino a che fummo entrambi distesi sul divano, quindi seppellii il viso nella sua camicia. Inalai il suo profumo mescolato all'odore dell'eccitazione; sapeva di lavanda, di miele. Di buono.

«Vieni con me» dissi in un sibilo implorante. «Finché non risolveremo questa storia, sei un bersaglio per arrivare a me. Non voglio che ti accada niente».

«Okay».

Sussultai appena, sorpreso dalla facilità con cui aveva ceduto. «Okay?»

«Ma ho una condizione». Seth appoggiò il mento sulla sommità della mia nuca, stringendomi più forte a sé. «So che nei dintorni di Notturn Hall si terrà una fiera del fumetto. Voglio andarci».

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